Più Stato e meno mercato

Dopo oltre trenta anni di ubriacatura liberista che se è vero che ha trasformato il Mondo sicuramente, però, non lo ha reso migliore, è ora di cambiare paradigma e di invertire l’affermazione che ne ha decretato il successo e che adesso rischia di determinarne la sconfitta.
Infatti l’era neo liberista si è imposta al grido “più mercato, meno Stato”; tuttavia se vogliamo salvare lo Stato, inteso anche come partecipazione democratica, welfare e benessere diffuso, ora dobbiamo affermare che occorre ritornare ad avere “più Stato e meno mercato”.
Questa asserzione non è quella di un nostalgico vetero marxista, ma una semplice costatazione dettata dal buon senso, infatti Keynes, il grande economista era un autentico liberale, ma non può essere certamente descritto come un liberista.
Le sue proposte economiche sostanziate nell’intervento dello Stato dopo la grande crisi della finanza nel 1929 e messe in pratica dai governi nel mondo occidentale, sono state la “benzina”che ha permesso la crescita del benessere di massa, retribuzioni elevate, diritti crescenti, previdenza, sanità ed istruzione quasi gratuite per tutti.
Il tutto in un quadro di compatibilità internazionali ed istituzionali che grazie agli accordi finanziari di Bretton Woods (1944/1971) limitava e regolamentava i movimenti dei capitali, garantiva la stabilità dei cambi e promuoveva la progressiva integrazione delle economie.  
Per merito delle politiche di un grande liberale nella seconda metà del secolo scorso le nazioni dell’Europa Occidentale si sono dimostrate grazie ai loro successi economici e alle politiche di integrazione e redistribuzione dei redditi, l’argine più idoneo a contrastare l’influenza del mondo sovietico.
Grazie alle politiche keynesiane si è potuta salvare l’idea liberale intesa come sistema e filosofia di vita, limitando le pulsioni autodistruttive e gli eccessi del capitalismo selvaggio e deregolamentato.
Oggi, invece, la crescita delle disuguaglianze, la concentrazione della ricchezza in poche mani, la crisi del lavoro dipendente, l’incremento costante della temperatura del Pianeta e i balbettamenti della stessa democrazia, sotto la pressione e le forzate semplificazioni dei populisti, sono le conseguenze più vistose di questi trent’anni di liberalizzazioni e privatizzazioni forsennate.
A conferma di questi crescenti squilibri occorre rammentare che se guardiamo agli Stati Uniti che sono il fulcro del processo in atto, nell’anno 2000 i salari e le retribuzioni rappresentavano il 66% della ripartizione delle ricchezza, mentre nel 2017 solo il 62%.
E’ quindi scesa di quattro punti la quota per i lavoratori mentre è cresciuta, invece, la remunerazione del capitale finanziario e speculativo.
E’ pertanto evidente che liberalizzazioni e privatizzazioni hanno giovato soprattutto a chi già era in possesso di rilevanti risorse e questo processo non ha garantito la gran parte dei cittadini, anzi si è compiuto a loro spese, anche perché le liberalizzazioni e le privatizzazioni solo in alcuni casi (telefonia, trasporto aereo) hanno realmente migliorato l’offerta per i clienti.
Se pensiamo invece a trasporto ed energia questo è avvenuto parzialmente e al costo crescente di quei servizi; il servizio ferroviario infatti, tra i primi servizi pubblici ad essere liberalizzato, in primo luogo in Inghilterra, non ostante ventidue anni di privatizzazione non è riuscito a sopravvivere al cambio di proprietà, dal pubblico al privato, anche se il privato aveva le “robuste” spalle di Richard Branson.
Infatti alcuni mesi fa il ministro dei trasporti britannico Chris Grayling ha annunciato la rinazionalizzazione della East Coast Main Line Company, la principale linea ferroviaria che collega Londra e tutta l’Inghilterra meridionale al nord est, fino alla Scozia.
Questo processo rischia di essere solo all’inizio dal momento che altre reti ferroviarie inglesi (TransPennine Express, South Western Rallway) soffrono di perdite crescenti di passeggeri e introiti; perché i clienti non sono più disposti ad accettare prezzi alle stelle, ritardi, carenza di manutenzione e qualità del servizio globale.
Che insegnamenti possiamo trarre da queste considerazioni; forse che l’abbandono delle politiche keynesiane e del ruolo dello Stato in economia, non dovevano essere sacrificati al mito della crescita ad ogni costo e il più rapidamente possibile e che poi la crescita stessa avrebbe comunque risolto i problemi di tutti come afferma il neoliberismo globalizzato.
I fatti stanno dimostrando il contrario e le analisi di cui siamo in possesso permettono di affermarlo con una significativa dose di certezza.
E’ pertanto indispensabile tornare a politiche redistributive sotto l’egida dello Stato che a differenza però di quanto affermano i populisti, tengano anche conto delle compatibilità ambientali, sociali e internazionali.
Quindi si deve tornare a valorizzare, come alternativa al mercato de regolarizzato, il ruolo del Pubblico che deve intervenire lì dove né il mercato, né il terzo settore hanno l’interesse o la capacità di intraprendere.
Non deve, però, essere un alibi per non agire, l’obiezione strumentale che il pubblico equivalga allo spreco; dipende dal valore della classe dirigente e dal sistema di regole che la politica sa proporre.
Tuttavia occorre anche rammentare, come del resto aveva già sottolineato Keynes che ci sono alcuni settori in cui il pubblico è da preferirsi al privato.
Principalmente i settori ad alta intensità di capitale e di lento ritorno, quali ad esempio innovazione, salute, istruzione e grandi infrastrutture di rete ( è il caso di ricordare che quasi il 10% del debito pubblico italiano è imputabile ad una sola voce: l’Alta Velocità, costata in venti anni circa 220 miliardi di euro per mille chilometri di rete complessiva)
Non si tratta quindi di tornare semplicemente allo Stato padrone di un tempo, ma di integrare la sua attività in una prospettiva di lungo periodo e globale; perché oggi la differenza tra chi è per il progresso e chi per il mantenimento di questa iniqua situazione, passa per la ri-regolamentazione delle attività finanziarie che per avere successo deve essere allargata al maggior numero possibile di Paesi.
Per l’Italia e i nostri partner europei questo significa in primo luogo riformare l’Unione Europea, rendendola più coesa, integrata e con una governance più democratica e federale; certamente meno verticistica e burocratica rispetto a quella autoreferenziale ed intergovernativa di oggi.
Se vogliamo evitare la perdita di identità e il senso di appartenenza collettivo in cambio della possibilità di acquistare, a poco prezzo, prodotti superflui e servizi invasivi che ci hanno trasformato la vita senza rendercela migliore, dobbiamo auspicare un nuovo modo di intervento pubblico in economia che ponga al centro le esigenze reali dei cittadini e sia in grado di offrire soluzioni concrete ai loro problemi, piuttosto che uno Stato assente che si limita solo a “soccorrere” chi è stato sconfitto nelle lotta per la competitività e la crescita del profitto di poche realtà finanziarie e nei servizi, strumentalmente, liberalizzati. 
Luigi Pastore