Lettera da Tunisi

26 settembre 2016

 

 

Caro Mauro,

scusami davvero tanto per il ritardo con cui rispondo alle tue cortesi richieste.

Purtroppo, quest’anno sono in parte cambiati i miei insegnamenti universitari qui a Tunisi: ho dovuto in tutta fretta riformulare alcuni programmi e, soprattutto, preparare i corsi.

Non solo, ma un articolo per un Convegno che tocca alcuni argomenti “delicati” mi ha rubato più tempo di quello che credevo.

S’è creato, insomma, un “collo di bottiglia” che mi ha impedito di risponderti con la sollecitudine che meriti.

Mi hai posto due questioni.

La prima riguarda la possibilità che io aderisca a un gruppo che promuova l’“identità italiana”.

Non credo che sia possibile, ma per ragioni che ritengo opportuno esplicitarti.

Il problema è che (non senza averci a lungo pensato, considerati i miei, poi ridiscussi, trascorsi “padanisti”) io aderisco toto coelo alla ricostruzione (o, per meglio dire, alla “decostruzione”) che, del concetto stesso di identità nazionale, ha da tempo fatto un interessante studioso, Benedict Anderson (Comunità immaginate. Origine e fortuna dei nazionalismi, Roma 2009).

La proposta di Anderson, corroborata da un’impressionante quantità di dati, consiste proprio nel considerare la ‘nazione’ non come un dato di natura, ma come il “prodotto” di processi culturali e concettuali: un costrutto artificiale (ma non per questo artificioso) che si estende nel tempo e nello spazio.

I nazionalismi emergono e si affermano nell’Ottocento, ma i nazionalisti sostengono che le nazioni siano sempre esistite.

Da qui la necessità di “inventare”, laddove questo assunto non sia sostenibile per l’esistenza di evidenti smentite storiche, il risveglio/ritrovamento di una presunta nazione sopita/perduta.

Insomma, creiamo una comunità radicalmente nuova, immaginandone una ignota e dimenticata e, in nome di questa, andiamo a ricercarne le remote “radici”: “… i principali stati dell’800 erano per lo più società poliglotte, i cui confini raramente corrispondevano a comunità linguistiche. Molti dei loro membri più colti avevano ereditato dal periodo medievale l’abitudine di pensare a certe lingue … come alla lingua della civiltà. […] Presto però … le lingue volgari ‘non culturalizzate’ cominciarono a svolgere lo stesso ruolo svolto in precedenza dall’Oceano Atlantico: ‘separare’ cioè le comunità nazionali sottomesse dagli antichi regimi dinastici; e poiché l’avanguardia dei movimenti nazionalisti europei era costituita dalle classi colte, spesso non abituate a usare questi volgari, quest’anomalia richiese una spiegazione. Nulla sembrò meglio del ‘sonno’. Ai borghesi e ai letterati che cominciavano a considerarsi cechi, ungheresi o finlandesi permetteva d’immaginare i propri studi di lingua, musica e folklore cechi, magiari o finlandesi, come la riscoperta di qualcosa che nel profondo era noto da sempre” (Op. cit., p. 204).

Ma “la consapevolezza di essere inseriti in un tempo laico e seriale con tutte le sue implicazioni di continuità … rende necessaria una narrazione d’‘identità’. […] Poiché non vi è un vero e proprio Padre Primigenio, la biografia delle nazioni non può essere scritta evangelicamente come una lunga serie di genitori. L’unica alternativa è modellarla ‘risalendo il tempo’, arrivando fino all’Uomo di Pechino, all’Uomo di Giava, a re Artù, ovunque la lampada dell’archeologia diriga il suo fioco bagliore. Questo modello, però, è segnato da morti che, in una curiosa inversione della genealogia convenzionale, cominciano da un originario presente. La seconda guerra mondiale genera la prima, da Sedan deriva Austerlitz, l’antenato della rivolta di Varsavia è lo stato d’Israele” (Op. cit., p. 212).

Questo punto di vista trova ulteriori conferme in un altro Autore, J. Plumiène, in Le nazioni romantiche. Storia del nazionalismo nel secolo XIX, Firenze 1982.

Tutto questo non vuol dire che un’identità nazionale non esista. Ma vuol dire che è non un’entità naturalistica (come sostengono, in perfetta buona fede, un po’ tutti i suoi fautori), ma un “costruito” (come un’automobile o un telefono). Perciò, un’identità nazionale può ben essere sostituita da un’altra, come da altre forme di identificazione politica (ad esempio l’UE). E, se sentiamo che questa sta venendo meno, possiamo anche impegnarci per sostenerla, ma a patto di riconoscere che si tratta di un atto della nostra volontà, e cioè d’una presa di posizione ideologica.

Però oramai, per quanto mi è possibile, io dalle ideologie (anche se, come nell’iniziativa a cui tu mi proponi di aderire, promosse da persone sinceramente convinte) cerco di distaccarmi, e preferisco guardare ai fenomeni politici con lo sguardo freddo di chi è affetto da quella che i tedeschi, con la consueta precisione, indicano tramite il non perfettamente traducibile (ma certo impronunciabile!) termine Voraussetzungslosigkeit.

Ad ogni modo, se intendi dare vita a una disputa su Dissensi e discordanze su questa affascinante questione (magari pubblicando, per estratto, se ritieni, anche queste mie note), sarò pronto ad entrare nel dibattito e … persino a essere convinto del contrario!

 

La seconda questione riguarda l’anniversario del “gran pignolo”.

Se non sono “fuori tempo massimo”, a quella aderisco entusiasticamente!

Fammi solo sapere quanto l’intervento dev’essere lungo …

Ti avverto però che non potrà essere pronto prima della metà d’ottobre, a partire dalla quale potrò avere un po’ di respiro, ed avrò modo di dedicarmi agli amici con maggiore tranquillità.

 

Grazie, ad ogni modo, per avermi dato modo di scriverti.

Dal mio buen retiro di Tunisi vedo le cose con occhi un po’ diversi, e mi farebbe piacere, quando troverò il tempo, mettere per iscritto le mie riflessioni su quest’affascinante realtà ibrida …

Fra un po’, quando mi sarò fatto un’idea più precisa, credo mi permetterò di mandarti qualche cosa …

A presto!

Raimondo Fassa