Arnoldo Foà: cavaliere del libero pensiero

Il 12 gennaio 2014, all’indomani della scomparsa – all’età di novantasette anni – di Arnoldo Foà, il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani, Gustavo Raffi, ricordava con queste parole il celebre artista ferrarese: «Arnoldo Foà amava definirsi semplicemente un pensatore. Ma era molto di più. […] un intellettuale straordinario che con la sua passione civile ha dato lustro al nostro paese».

Pochi lemmi, ma carichi di significato, per commemorare una mente viva, distaccata dalla materialità del quotidiano e con una propensione a quell’apertura del cuore che forse solo coloro che sono stati iniziati alla Libera Muratorìa sono in grado di vivere consapevolmente.

E infatti, Arnoldo Foà, nato nel 1916 a Ferrara da famiglia di religione ebraica, era stato iniziato nel 1947 nella Rispettabile Loggia Alto Adige, numero 150 all’Oriente di Roma.

È pressoché impossibile conoscere i motivi che indussero il celebre attore a entrare nell’Istituzione massonica del Grande Oriente d’Italia.

Nella documentazione relativa alla Loggia romana di appartenenza non sono, infatti, presenti informazioni concernenti il fratello Foà; nondimeno è possibile supporre che un carattere predisposto alla proiezione verso il proprio interno – e quindi verso il proprio VITRIOL -, una curiosità intellettuale e un desiderio profondo di libertà fossero inclinazioni che avrebbero potuto trovare ampia corrispondenza nella Massoneria, comunione nella quale individui intelligenti, liberi e di buoni costumi, come ricordano gli Antichi Doveri, potevano confrontarsi per costruire una visione nuova dell’umanità e degli uomini, a due anni dalla conclusione della seconda guerra mondiale.

Del resto, proprio nel periodo che precedette il conflitto, Foà aveva vissuto in prima persona la drammaticità delle leggi razziali del 1938, allorquando venne allontanato, in quanto ebreo, dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e costretto a lavorare nel cinema solo sotto falso nome, in sostituzione di attori malati.

E però, la dipartita da Roma non arrestò la forza di volontà dell’uomo la cui voce avrebbe gettato luce nell’oscurità del secondo conflitto mondiale: a Napoli, infatti, divenne annunciatore alla Radio Alleata PWB, comunicando – ironia della sorte –, la mattina dell’8 settembre 1943, la firma dell’armistizio.

Terminata la guerra, Foà di «riappropriò» del suo nome, riuscendo a esprimere ed estrinsecare la sua straordinaria versatilità, unendosi a numerose compagnie teatrali – su tutte la Ferrati-Cortese-Scelzo, la Cervi-Morelli-Stoppa sotto la guida di Visconti e la Compagnia del teatro Nazionale diretta da Guido Salvini – come attore, nonché lavorando come autore, doppiatore, pittore, regista, romanziere e scultore.

In scena e non solo, egli poté così affinare, come in un procedimento alchemico, la sua «materia prima», ovvero la sua personalità, con le qualità che venivano potenziate e i difetti che venivano trasmutati.

D’altra parte la finezza e la duttilità che lo caratterizzarono richiamavano quei talenti che, in quanto espressione dell’anima e dell’intelletto, lo rendevano un artista intento a realizzare la propria visione interiore.

Sicché, come divino artigiano che contemplando le Idee plasma la materia sul modello delle Idee stesse, Foà fondeva le arti di cui era interprete nel tentativo di creare, forse, un’opera unitaria e distillata della propria esperienza biografica.

Solo con queste premesse è quindi possibile intravedere, nella vita di Arnoldo Foà, l’atto di fedeltà di un artista, di un intellettuale e di un massone nei confronti di una strenuitas, espressione di una forza vitale in espansione.

Su questo tratto si fonda, invero, tutta la sua produzione artistica e letteraria: le sue numerose registrazioni in vinile di dizioni poetiche ne manifestano, soprattutto, la grande attenzione e capacità nel trasferire e trasmettere la tensione spirituale contenuta in un opera quale la Commedia di Dante, l’aspirazione alla libertà tipica delle opere di Lucrezio, la tensione nei confronti della vita e della patria nelle poesie del fratello Giosuè Carducci e la speranza di educazione del popolo nei lavori di Leopardi.

Inoltre, attraverso la lettura dei suoi romanzi – La costituzione di Prinz, Le pompe di Satana e, in particolare, l’Autobiografia di un artista burbero – è possibile evincere non solo la sensibilità dell’artista e il suo profondo desiderio di autorealizzazione («amore par la vita, per l’uomo che avrei potuto diventare»), ma anche per la sua incisiva ironia – tra i principi della Libertà – e il suo pensiero laico, peculiarità che lo fecero portatore – nonché paladino e difensore – di quei valori assoluti che la Libera Muratorìa da sempre promuove: Libertà, Uguaglianza e Fratellanza, ma anche tolleranza, coerenza e rettitudine che interagirono nella formazione di Foà e nel suo impegno artistico.

D’altronde, l’impegno personale a migliorare se stesso e la società avrebbe trovato un adeguato completamento proprio nell’incontro con la Massoneria, «realtà portatrice di valori costruttivi, mossa da una tolleranza attiva, volta a costruire una società più giusta» (Gustavo Raffi).

Sicché, alla stregua di un cavaliere, vigilante e perseverante, Arnoldo Foà – artista dell’esistenza – dovette molto lottare e molto sfidare per non soccombere mai alla banalità della quotidianità; mentre come costruttore dell’umanità, riflettendo su se stesso, disse di aver raggiunto il suo scopo: «[…] quello di fare qualcosa per l’umanità che amo».

Cavaliere e costruttore, quindi, due ruoli che i Liberi Muratori dovrebbero saper interpretare, giacché se il primo, come ha sottolineato recentemente il Grande Oratore Claudio Bonvecchio, aspira a diventare vero uomo, attraverso la lotta contro la propria fragilità interiore, contro la banalità, cavalcando da solo verso la luce senza guardare chi ha intorno, il secondo deve edificare il proprio Tempio interiore durante la propria esistenza, senza mai perdere l’afflato verso il Trascendente e industriandosi per rendere eterni simboli antichi.

Armato di spada (Giustizia) – e forse anche di scudo (Sapienza) – come il personaggio di Capitan fracassa da egli interpretato con successo nell’omonimo sceneggiato televisivo del 1958, Arnoldo Foà, dopo numerose peripezie, raggiunse la consapevolezza e la responsabilità di aver lavorato non solo per se stesso ma anche per il bene e il progresso dell’umanità.

Il suo percorso potrebbe condurre colui che lo rilegge alla scoperta e alla realizzazione di Grandi Opere: solo in questa direzione il celebre artista ferrarese potrebbe presentarsi ai suoi ascoltatori, lettori e spettatori come un cavaliere del libero pensiero, nel tentativo di diventare immortale nella lotta contro la morte interna.

Se è vero che solo colui che si interroga è sempre attuale e moderno e se è vero che la predisposizione al dubbio deve essere uno degli elementi distintivi del Libero Muratore, allora Arnoldo Foà riuscì a essere una coscienza attiva per la Massoneria italiana del Grande Oriente d’Italia.

Egli può essere, pertanto, considerato come un mattone della Tradizione, che a sua volta rappresenta l’ancoraggio per poter andare verso il futuro e la modernità, nel continuo tentativo di tradurre la nostra eredità senza tradirne mai il messaggio eterno.

Lorenzo Belli Mussini