Otto millioni di Uiguri su circa un miliardo e mezzo di Cinesi; basta questo a giustificare il sentimento di appartenenza ad una minoranza etnica, anche se la tua terra, il Xinjiang, l’antico Turkestan orientale o cinese, occupa un sesto del territorio della Cina.
Ma è un territorio ingrato, di deserti immensi e aride montagne i cui fiumi si perdono nelle sabbie e disseminato di oasi dove si concentra la vita.
Si inserisce tra due regioni a religione buddista, il Tibet da una parte e la Mongolia dall’altra ma la popolazione autoctona è di religione mussulmana.
Gli Uiguri, nomadi di lingua turca, appaiono nella storia all’ottavo secolo nell’attuale Mongolia esteriore.
Spinti dai Kirghizi, si installano un secolo più tardi nel loro habitat attuale, diventano sedentari, si mescolano alle popolazioni indo europee delle oasi.
Convertiti al manicheismo, praticando poi anche il cristianesimo nestoriano, finiscono coll’aderire, tutti, all’Islam sunnita.
Nell’pttavo secolo, dopo parecchie spedizioni, i Cinesi riescono ad incorporare l’area al loro impero.
Tuttavia rimane un’area mal controllata; i Russi tentano di estendere fin lì la loro influenza e alcune rivolte locali portano, in più riprese, alla creazione di piccole indipendenze effimere: emirato della Kashgaria durante la seconda metà del diciannovesimo secolo, Repubblica del Turkestan orientale negli anni Trenta, rinasce, negli anni Quaranta, sotto la protezione sovietica.
Nel 1949, con il formarsi della Repubblica Popolare Cinese, il Turkestan orientale, detto anche Xinjiang, è di nuovo strettamente legato alla Cina.
Il regime di Mao Tsé-Tung vi conduce allora una politica sistematica di installazione di popolazioni Han provenienti dal centro, dal cuore del Paese e istituzionalizza la pratica della lingua mandarina.
L’arrivo di coloni e militari fa passare la proporzione di Cinesi etnici nello Xinjiang dal sei per cento all’inizio degli anni Cinquanta al quaranta per cento di oggi.
Dal 1964 al 1996, la Cina utilizza anche il sito di Lop Nor nel cuore del deserto centrale dello Xinjiang per quarantacinque test nucleari, di cui ventitre nell’atmosfera.
Gli Uiguri si identificavano, per tradizione, con le loro oasi rispettive – il nome stesso di Uiguri per definirli nel loro insieme rinasce e diventa popolare solo in epoca recente, negli anni Trenta -, e questa politica del governo cinese non li aiuta certo a sentirsi a casa loro; anzi, risveglia in essi un forte sentimento di appartenenza nazionale che si intensifica dagli anni Novanta con l’accesso all’indipendenza dei loro vicini Kirzighi, Kazaki, Uzbeki e Tagiki a seguito della disgregazione dell’URSS.
Cominciano le manifestazioni, brutalmente represse: uccisi dalla polizia, arrestati in massa, giustiziati in piazza. Finiscono nella rivolta, come nel 2009 ad Urumqi, capitale dello Xinjiang, quando scontri tra Uiguri e Han lasciano circa duecento morti a terra.
Gli indipendentisti passano ad azioni di stampo terroristico all’interno dello stesso Xinjiang fino al lancio di un’auto bomba, in un attentato suicida, in piazza Tien’anmen.
Nel marzo 2014, alla stazione di Kunming, nello Yunnan, quindi di nuovo ben lontano dallo Xinjiang, un gruppo di Uiguri armati di coltello colpisce alla cieca i viaggiatori e uccide ventinove persone.
Il governo cinese chiede immediatamente che i principali movimenti indipendentisti Uiguri siano iscritti alle liste nazionali e internazionali delle organizzazioni terroristiche.
Non pare che la spirale di violenza che si è scatenata possa esaurirsi a breve, anche se il rapporto di forza pare schiacciante a favore del governo centrale cinese.
Francois Nicoullaud