Al crocevia della Lebensreform: Ascona e dintorni

“Ascona mi ha insegnato a non disprezzare niente di umano, ad amare allo stesso modo la grande felicità del processo creativo e la miseria dell’esistenza, a considerarli il grande tesoro dell’anima.”

Marianne Werefkin

 

Da qualche tempo, ormai, le morbide riviere di questo placido lago mediterraneo son sempre più colore dell’olivo. Pini e cipressi si irrigidiscono, stupiti per il sole che non viene. Esalano malinconia pure le montagne, immobili come un destino. Eppure i pochi turisti, quasi tutti anziani, quando s’incrociano vuoi per i sentieri solitari vuoi per le stradine dei borghi, continuano imperterriti a salutarsi, nelle più varie lingue del mondo, con il consueto riservato affetto, come obbedendo ad un antico rito.

Non aver resistito alla tentazione di spendere qualche giorno d’agosto bighellonando fra Ascona Minusio Cevio Bosco Gurin Verzasca – ed averci trovato quest’anno il contrario di quel che m’attendevo – lungi dal deprimermi, mi esalta: qui, tutto è più malinconico di me.

Ma non è una malinconia triste. Caso mai è “seria”. Così severa e tranquilla, così levigata e compresa di sé è l’aria del luogo in questa strana estate, che ne scaturisce una sorta d’incantamento.

Come quello della nebbiolina che, la sera, viene a poco a poco avvolgendo la piana di Magadino.

 

Con una di quelle patetiche ed insieme maestose espressioni che gli erano familiari, Hegel ebbe a dire che la filosofia, come la nottola di Minerva, si leva solo al tramonto. L’associazione di idee mi porta a pensare che questi luoghi, spesso considerati solo mete di turisti d’élite e di esportatori di capitali, sono, in realtà, gravidi di pensiero.

Assai spesso nella vita degli uomini emozioni ed idee si vengono negli anni affastellando in modo solo apparentemente casuale. Considerato poi l’insieme da lontano, dopo qualche tempo veniamo scoprendo una mirabile coerenza, come se tutto fosse stato progettato da una sapiente mente ordinatrice e fosse perciò unito da un unico motivo conduttore. Che qui ad Ascona – a volerlo sintetizzare in una parola – mi pare consista nell’elaborazione di un’autentica Lebensreform.

 

In verità, non riesco a trovare un’espressione italiana che renda esattamente l’idea: “riforma della vita” è soltanto un ricalco su cui è bene riflettere.

Spesso gli intellettuali ritengono che i loro problemi siano, solo per questo, problemi “dell’uomo”. In realtà, per così dire, “li anticipano”. Ed è per questo che, da qualche tempo – in paradossale concomitanza con l’accessibilità dei mezzi di comunicazione a un numero sempre più vasto di persone – essi si sentono e sono così soli. Due fenomeni, quasi concomitanti, han più di tutti contribuito a determinare questa solitudine: il capitalismo (che è ben diverso dall’economia di mercato) e la dittatura delle masse (che è ben diversa dalla democrazia).

Romanticismo, Decadentismo, Simbolismo, Dadaismo, Surrealismo, e tutti gli altri innumerevoli “ismi” venuti susseguendosi da due secoli in qua, sono accomunati dal fatto che l’esperienza della cultura – ed in particolare quella dell’arte – è sempre più divenuta estranea sia all’economia sia alla politica. Tutt’e due, infatti, oggi operano in una logica di corto o di cortissimo periodo: i “tempi lunghi” della cultura confliggono, insomma, coi “tempi brevi” dell’uomo (quanto meno, dell’uomo contemporaneo).

 

Le reazioni a questo progressivo-regressivo contrarsi del tempo della vita comune sono state sostanzialmente tre.

La prima è consistita nel creare – soprattutto tramite l’arte, ed in particolare tramite le cosiddette “arti visive” – una specie di “mondo alternativo”. Il distacco della pittura e della scultura dal “figurativo” – come pure l’estremizzazione di quest’ultimo nell’“iperrealismo” – sono sfociati nell’edificazione d’una sorta di “mondo a parte”, nei suoi esiti più alti coerente come un teorema, da giustapporre a una realtà quotidiana sempre più caotica e confusa (dove caos e confusione derivano sovente da un’applicazione cieca della razionalità tecnica).

La seconda reazione s’è invece concretizzata proprio nel tentativo di inserirsi nel mondo della tecnica, sia servendosi dei suoi strumenti per produrre arte (futurismo, arte pop, computer art si situano, sotto questo profilo, in assoluta continuità) sia cercando di usare l’arte in modo conforme agli scopi che, di volta in volta, venivano proponendosi la politica e l’economia (a partire da Toulouse Lautrec, innumerevoli pittori hanno così cercato di trasformarsi in … grafici pubblicitari!).

Ma c’è una “terza via” – più difficile e impervia, perché silenziosa e discreta, e soprattutto in nessun modo suscettibile di programmazione – la quale, invece, s’è radicata soprattutto qui ad Ascona (ma pure in qualche altro luogo del Ticino): quella, appunto, che mi piace chiamare della Lebensreform. Tanto più interessante, perché questa “terza via” la si può percorrere fisicamente anche solo aggirandosi a piedi per quanto rimane dell’antico borgo (pure qui l’edificazione qualche danno l’ha fatto …). Con tempo e con pazienza, possono vedersi vivere, e vivere in loro e con loro, le “installazioni” (nel senso che alla parola dà l’arte contemporanea) lasciate qui da questa particolarissima ricerca: una ricerca riuscita nell’altrimenti impossibile impresa di coniugare la cultura con la vita.

 

La prima fra queste “installazioni” è la Fondazione Eranos.

Ho conosciuto Eranos grazie a Katia Accossato, professionista italo-elvetica attentissima ad integrare la sua attività principale, l’architettura, con le più sofisticate acquisizioni del pensiero contemporaneo. Quella vera “filosofa dell’abitare” mi invitò, poco più d’un anno fa, a partecipare a quello che è il momento topico delle molteplici attività di questa Fondazione: le Eranos Tagungen, che, dal 1933, si tengono ogni anno, per più giorni, la prima settimana di settembre.

La prima cosa che ti colpisce è il luogo.

Per chi non ci sia mai stato, Casa Eranos (in realtà parte d’un complesso di piccole ville antiche) è praticamente introvabile. Dovete recarvi nella piccola contrada di Moscia, scendere alla fermata d’autobus all’angolo con Strada Collinetta (o lasciar lì la macchina approfittando della cortesia degli albergatori del posto), e poi incamminarvi cautamente sul lato sinistro della Cantonale in direzione di Brissago. Questa è di sicuro la parte più difficile del percorso, perché in pratica non c’è marciapiede.

Ma vale davvero la pena di correre qualche rischio. A un certo punto, ti si apre un incanto: ripidi gradini di pietra conducono in una fitta macchia mediterranea, assolutamente intatta, nel cui intrico intravvedi appena un elegante villino a strapiombo su una spiaggetta lacustre a cui lo ricollegano vorticosi sentieri.

Un villino pieno di belle persone. Per citarne solo alcune (ma in loro riassumendo un po’ tutti gli altri “incontri” di Casa Eranos), Fabio Merlini, che presiede le riunioni con tratto signorile e discreto; il segretario scientifico Riccardo Bernardini, competentissimo cultore del pensiero junghiano (e non solo…); Gianni Aprile, capace di coniugare l’esperienza bancaria con la sensibilità filosofica; Gisela Binda, solerte quanto discreta “Anima” del gruppo.

“Persone”, appunto, e non (come purtroppo troppe volte avviene nel mondo della cultura) “personaggi”.

Perché il carattere fondamentale delle Tagungen è quello di incontri aperti a tutti (del tutto indipendentemente da professione o titolo accademico, un po’ sul modello del Collège de France) su un tema filosofico preciso, sviscerato per più giorni tramite relazioni appositamente preparate dai massimi esperti dell’argomento, terminate le quali s’aprono discussioni franche e libere, i cui unici limiti sono il rigore argomentativo ed il rispetto per le idee altrui. Discussioni che proseguono nelle pause in cui è possibile sia prendere un buon caffè sia tuffarsi nelle tiepide acque del Verbano che lambisce la spiaggia della villa.

Agli incontri di Eranos, si respira un’“inquietudine metafisica” che non sembra più appartenere al nostro tempo: atmosfera attualissima proprio perché squisitamente “inattuale” (nel senso che Nietzsche dava a questo attributo). Non si tratta, però, del puro e semplice vagheggiamento del “mondo di ieri”: proprio questa lontananza dalla quotidianità fa sì che il gruppo di Eranos tanto più sia nel mondo quanto meno è del mondo. Qui si realizza il detto di Hermann Kesten: “Quando i letterati si riuniscono regolarmente, essi mettono in moto lo spirito del tempo.”

Non a caso Eranos – nome che fu suggerito dallo storico delle religioni Rudolf Otto – in Greco vuole dire banchetto: quello che veniva detto anche “simposio” e che i latini chiamavano coena collaticia, nella quale cioè ognuno portava qualche cosa di sé, mettendolo a disposizione degli altri.

Proprio questo lo spirito della fondatrice che, da un momento all’altro, ci si aspetta di scorgere fra gli alberi.

Olga Fröbe-Kapteyn (1881-1962) è la prima d’una serie di donne intelligenti e coraggiose che hanno legato il proprio nome alla Lebensreform. Nata a Londra da genitori olandesi (il padre era ingegnere, la madre un’attivista per i diritti della donna), Olga approdò ad Ascona nel 1920, già reduce da molte esperienze di cultura e di vita: gli studi in Storia dell’arte, il matrimonio, la maternità, la vedovanza, l’animazione, negli anni del primo conflitto mondiale, del salotto letterario zurighese La Table ronde.

I suoi primi interessi – conformemente in verità a una moda culturale del tempo che, come vedremo, qui ad Ascona aveva piantato radici ancor più solide che altrove – furono teosofici. Ma Olga ebbe l’intelligenza di farsi ben consigliare, e di scartare da subito quegli aspetti esteriori della teosofia i quali han fatto sì che molti, ed a torto, ancor oggi la considerino una forma di ciarlatanismo. Su impulso dei suoi molti amici – ed in particolare di Carl Gustav Jung – ella mirò invece ad indagarne le radici culturali profonde. Fu così che a Casa Gabriella, acquistata nel ’26, fu attrezzata una sala conferenze come “luogo di incontro tra Oriente ed Occidente”. In tal modo ebbero origine i meeting annuali di Eranos, orientati allo “studio delle immagini e delle forze archetipali nei loro rapporti con l’individuo” e, più in generale, all’esplorazione dell’interiorità umana, condotta attraverso le metodologie scientifiche proprie di ognuno dei partecipanti.

Quegli incontri continuano a tenersi in quella stessa sala – dove fa bella mostra di sé la testa bronzea di Jung e dove ogni riunione è ancor oggi inaugurata da un sonoro colpo di gong – e l’elenco dei grandi intellettuali che ci sono passati è a dir poco incredibile: Martin Buber, Ernesto Buonaiuti, Mircea Eliade, James Hillman, Karl Löwith, Raffaele Pettazzoni, Gershom Scholem, Erwin Schrödinger, Paul Tillich, Giuseppe Tucci … insomma, tutto il Gotha della cultura del Novecento!

Oggi Eranos – che, fra quelli attivi, è il gruppo culturale transnazionale più antico del mondo – si occupa soprattutto di due argomenti fra loro strettamente interrelati: il recupero della filosofia come “pratica di vita” (e non solo come astratta teoresi) e il dialogo con il più avanzato pensiero scientifico contemporaneo. Oltre che a Casa Eranos, gli incontri si tengono, sempre ad Ascona, all’Hotel Monte Verità.

 

L’esperienza del Monte Verità – una seconda formidabile “installazione” della Lebensreform – oggi è fortemente legata ad Eranos, ma è nata prima.

Qui, l’accesso è indubbiamente più facile. Seguendo le molte indicazioni, al termine di un’erta trovate un elegantissimo edificio in puro stile Bauhaus. Si tratta, appunto, dell’Hotel-Centro Congressi realizzato fra il 1927 e il 1929 dall’architetto Emil Fahrenkamp su incarico del barone Eduard von der Heydt, banchiere del Kaiser di Germania Guglielmo II e collezionista d’arte, che fu l’ultimo proprietario privato del complesso da lui lasciato poi in eredità alla Repubblica e Cantone del Ticino. Nella sua algida essenzialità l’edificio – che, a seguito d’un accurato restauro filologico, conserva i dettagli costruttivi originali e in gran parte gli originali arredi – sprigiona un indefinibile charme, integrato com’è mirabilmente alla vegetazione del parco, al Lago e alle montagne circostanti.

Qui molte sorprese attendono il visitatore.

Per citarne solo alcune (credo sia bene mantenere il piacere della scoperta …), un percorso teosofico, l’unica piantagione di tè esistente in Europa, l’annessa casa dove periodicamente si svolge la cerimonia del tè e, soprattutto, i relitti di quello che fu uno dei più straordinari esperimenti di “vita alternativa” della cultura novecentesca: la Collina delle Utopie.

A quello che allora ancora si chiamava Monte Monascia era approdato infatti nel 1899, accompagnato da un gruppo di amici che ne condividevano le passioni, un singolare intellettuale di Anversa, Henri Oedenkoven. Lo scopo del gruppo era trovare un luogo dove impostare uno stile di vita radicalmente nuovo e alternativo a quel meccanicismo tecnocratico che, già allora, era venuto a poco a poco contrassegnando la società della belle époque. Come spesso succede, la critica a quel mondo proveniva da chi, di quel mondo, era in realtà un prodotto: Oedenkoven era infatti il rampollo d’una dinastia di ricchissimi imprenditori!

Lui e i suoi seguaci percorsero l’Europa a piedi (come già aveva fatto Rousseau e come poi faranno Bruce Chatwin e Richard Long) per cercare il luogo ideale dove stabilirsi, e ritennero di trovarlo ad Ascona per i suoi particolarissimi caratteri … geomantici!

Qui fu fondata una Comunità i comportamenti dei cui membri misero in subbuglio i pacifici abitanti del luogo.

A quei tempi, Ascona non era ancora diventata il luogo di esclusivo turismo internazionale che è oggi. Era un pacifico borgo di semplici pescatori. Se ne può immaginare lo sconcerto nel vedere quei “signori” animati dall’intento d’un rinnovo integrale del corpo e dello spirito che ai nativi doveva sembrare solo la mania di gente che non aveva altro a cui pensare (ma che male c’è? Forse che, per esempio, il diritto di tutti al lavoro non fu per la prima volta sostenuto da uomini dell’Ottocento che, per lo più, erano solo oziosi frequentatori di caffè letterari?).

Sarebbe facile anche per noi guardare a quell’esperienza con sufficienza. Ma le preoccupazioni – e le ossessioni e anche le stravaganze – personali spesso anticipano quelle collettive.

La concezione della Storia come una sorta di incubo, il senso della mortalità e della decadenza, l’idea di emarginazione dell’uomo dal procedere della cultura, sentir l’anima come intrappolata e zittita, ridotta a mera funzione del monotono agire quotidiano: il tentativo di superare tutto questo, tendendo al recupero dell’unità dell’Io con tutti gli esseri viventi, era alla base di quegli atteggiamenti per molti versi ingenui. L’esperienza del Monte Verità, al pari molte altre che qui si radicarono a cavallo fra Otto e Novecento, è quindi oggi da noi leggibile come il segno della particolare intensità, sino ad allora sconosciuta, con cui venne anche in pratica affrontato questo fascio di problemi, ancor oggi irrisolti.

Ecco perché i sodali di Monte Verità vivevano in piccole casette di legno “aria e luce”, coltivavano personalmente l’orto cibandosi solo dei suoi prodotti (la loro dieta era rigorosamente vegetariana!), danzavano e giocavano all’aria aperta, portavano i capelli lunghi e non curati e indossavano lunghi sai bianchi!

Quando li indossavano.

Poiché della dottrina della Comunità era parte integrante e sostanziale (ai primi del Novecento) … il nudismo!

Ma – a parte il soprannome di balabiòtt che fu loro appioppato dal buon senso popolare – quella strana Comunità venne presto accettata; anzi divenne parte del genius loci e attrasse l’attenzione di molte personalità alcune delle quali destinate, come fra poco vedremo, a lasciare una forte impronta nel territorio asconese: non solo l’immancabile Jung, ma anche Karoly Kerényi, Erich Maria Remarque, Hermann Hesse, Filippo Franzoni, Marianne Werefkin, Alexej Jawlensky e Elisàr von Kupffner.

A quest’ultimo si ricollega una “terza installazione” di Lebensreform in questo territorio.

Fra i tanti tesori che l’Hotel Monte Verità custodisce, c’è infatti un singolarissimo dipinto circolare di grandi dimensioni che avvolge completamente lo spettatore: Il chiaro mondo dei beati.

Si tratta d’una composizione articolata in trentatré scene, ognuna commentata da brevi strofe, la quale rappresenta un vero e proprio inno alla natura, alla bellezza e … all’amore omosessuale.

In un alternarsi di paesaggi, i monti dello sfondo sottolineano le quattro stagioni. Nel livello di profondità intermedio, tra colli ricoperti di boschi o di neve si stagliano teorie d’alberi, provenienti da vari climi, in differenti fasi della loro crescita. In questo ambiente ipernaturalistico, ottantaquattro figure nude vagamente aureolate, qua e là adorne di fiori o nastri, formano più composizioni piramidali, in parte intersecate o sovrapposte. Sciami di farfalle ripetono il motivo dei gruppi di figure e conferiscono al dipinto circolare un ritmico ordinamento lineare, che mira a catturare energeticamente l’osservatore, coinvolgendolo integralmente in una rappresentazione paradisiaca a 360°.

Benché meditato dall’Autore per anni (addirittura sin dalla sua infanzia), e arditamente innovativo nella sua concezione, mi pare che la realizzazione sia inferiore al resto della sua produzione, la quale meriterebbe invece d’essere rivalutata.

Esso è, però, altamente rappresentativo di un’epoca e di un gusto. Tutto questo era un modo per mettere in questione il rapporto fra verità e forma, fra l’intuizione d’una verità e la sua strutturazione sul piano figurativo. È attraverso una simile risposta che si può pervenire alle sue motivazioni profonde.

L’estone Elisàr von Kupffner (1872-1942) non lo realizzò infatti per Monte Verità, ma per un “palazzo” – il Sanctuarium Artis Elisarion – che fra il ’27 e il ’39 egli si fece costruire, per trascorrerci un’esistenza “estetica” con l’amico Eduard von Mayer, poco lontano da qui, a Minusio; dove sorge anche quella villa La Baronata che fu, nel secondo Ottocento, dimora di Bakunin e di Cafiero (come ci ricorda l’ingiustamente dimenticato Bacchelli nel Diavolo al Pontelungo).

Oggi l’Elisarion – la cui facciata ecletticamente riprende elementi dei battisteri rinascimentali italiani e dei palazzi palermitani – è di proprietà comunale, ed solo è la pallida ombra di ciò che doveva essere ai suoi tempi, soffocato com’è fra alti edifici di recente costruzione che hanno ampiamente alterato l’assetto urbanistico del luogo, un tempo costellato da poche ville dai grandi parchi silenziosi.

Pure, con uno sforzo d’immaginazione possiamo immaginarci l’antico colpo d’occhio. La visita del Sanctuarium era pensata come un pellegrinaggio la cui meta veniva raggiunta provenendo dalla stazione. Una volta penetrati nell’atrio del tempio, ci si trovava in una vera e propria struttura cultuale della dottrina pittorica di Kupffner, il Clarismo, un’arte allegorica dove ogni linea, ogni pennellata, ogni tinta, ogni tematica si sarebbero dovute caricare d’un fortissimo significato esoterico orientato però a un effetto politico preciso: la realizzazione di un nuovo ordine sociale, l’“Eudemocrazia”, contrassegnata dall’assoluta libertà del comportamento, dalla parità dei diritti fra uomo e donna e dalla legittimazione integrale dell’omosessualità.

Attraversando uno stretto “ponte sepolcrale” in linea con gli allestimenti del wagneriano Parsifal del tempo, si giungeva infine allo spazio illuminato a luce naturale da un ampio lucernario (oggi coperto) in cui, a coronamento del tutto, era esposto, appunto, Il chiaro mondo dei beati.

Come si vede, un vero e proprio inno a quella Lebensreform che, ancora ad Ascona, è rappresentata da una quarta “installazione”: il Castello-Museo di San Materno con il suo attiguo omonimo Teatro.

Da qualche mese, San Materno è visitabile. E ciò grazie ad una fecondissima collaborazione fra pubblico e privato da cui in Italia avremmo molto da imparare: un incontro tra il Sindaco di Ascona Luca Pissoglio e il Signor Hubertus Melsheimer (consulente d’arte della famiglia Alten) ha dato il via a un dialogo costruttivo con le Signore Barbara e Sabine Alten, promotrici della Fondazione per la cultura Kurt e Barbara Alten di cui il Castello, di proprietà del Comune, oggi ospita la collezione.

Kurt Alten (1925-2009) è stato non solo un geniale ingegnere progettista fondatore di un’azienda leader nel settore delle macchine da carico, ma anche, insieme con la moglie Barbara, un collezionista sensibile e attentissimo. In anni ed anni di paziente selezione, egli ha messo insieme un gruppo di opere – alcune di artisti notissimi come August Macke ed Emil Nolde, altre di meno conosciuti al pubblico nostrano (ma in realtà di grandissimo valore) come Max Liebermann o Lovis Corinth – mirabile per coerenza e intelligenza (per inciso, non perdetevi il Catalogo: di rado m’è capitato di contemplare riproduzioni fotografiche di quadri fornite di migliore qualità).

È bello aggirarsi fra le candide sale silenziose frequentate da visitatori per lo più d’area mitteleuropea, come rivela il fruscio di porcellana sbriciolata dei loro mormorii di approvazione.

Due opere mi paiono altamente indicative del particolare spirito di questa collezione: Fiori in due vasi di Lovis Corinth e Ragazza con oche presso uno stagno di Paula Modersohn-Becker.

I Fiori di Corinth “germanizzano”, per così dire, la grande lezione dell’Impressionismo a un punto tale da portarla ad esiti pre-espressionistici; fondo scuro, tinte fredde, danno ai petali una consistenza di smalto: paiono pervasi da una sorta d’indomita energia, come se volessero oltrepassare la superficie e i limiti del quadro.

Paula Modersohn-Becker scomparve prematuramente, poco più che trentenne, per i postumi d’un parto. Assieme al marito Otto Modersohn, a Fritz Overbeck e a Hans am Ende, fece parte della cosiddetta Colonia di Worpswede, ultima espressione, già carica di più contemporanei presentimenti, del Romanticismo pittorico tedesco.

La sua Ragazza si staglia su un paesaggio livido, fatto di ampie campiture sottolineate da pennellate tanto morbide da dare all’olio una tonalità quasi di pastello; le masse bianche delle oche e quella grigiastra dello stagno sembrano contrapporre, allo “sporco” della vita, una purezza carica di nostalgia e di sentimento: quello stesso sentimento infantile – e perciò originario – che sembra legare la ragazza ai suoi animali.

Di fronte al Castello, un altro piccolo miracolo.

Il Teatro di San Materno è un’altra purissima architettura Bauhaus, progettata dall’architetto Carl Weidemeyer su incarico della danzatrice sacra Charlotte Bachrach (in arte Charlotte Bara, formatasi anche lei a Worpswede, la cui tecnica mistica affascinò D’Annunzio e Anton Giulio Bragaglia) perché fosse il suo “teatro da camera”. La piccola mole bianca appare a tutt’oggi modernissima, eppure s’integra mirabilmente con la struttura del Maniero antico.

 

Due parole soltanto sul Museo comunale di Ascona, quinta “installazione” della Lebensreform.

Situato al centro della parte più antica del Borgo, esso ospita, fra l’altro la Fondazione Marianne Werefkin, opulenta di quadri e di disegni.

La Werefkin (1860-1938) è un’altra delle grandi donne che han reso grande Ascona. La sua figura è così complessa che richiederebbe un lavoro a parte.

Per questa esponente dell’alta nobiltà russa – che imparò a pitturare dal grande Ilya Repin e fu non solo artista, ma anche teorica dell’arte, animatrice di innumerevoli gruppi, amica e confidente dei maggiori uomini di cultura del suo tempo (si pensi solo al suo tormentatissimo rapporto con Jawlenskj) – dipingere e far dipingere gli altri fu, in effetti, facile e inevitabile come respirare.

Trovatasi a sessant’anni senza un soldo a motivo della Rivoluzione, si trasferì ad Ascona (sembra impossibile, ma c’è stato un tempo in cui la vita qui non era così cara …) e si integrò a tal punto con il posto che ne fu detta “la Nonna”. E – vale la pena di sottolinearlo – quella sua opera, creatrice di forme incondizionate e istintive imperniate su visioni-trasfigurazioni che rendono simbolica l’oggettività, non sarebbe stata possibile senza il silenzioso e generoso sostegno di tanta gente minuta di questo popolo del Ticino, troppo spesso, ed a torto, accusato di ottusità e egoismo.

Del resto, chi è entusiasta di un’opera (magari senza neppur comprenderne il perché), non sente forse il bisogno di conoscere la persona dell’Autore, per carpirne il segreto più profondo?

Nella buona e nella cattiva sorte, Marianne inseguì sempre, ossessivamente e pervicacemente, la Lebensreform. Basta legger le sue Lettres à un inconnu, appassionato diario scritto dal 1901 al 1905, in cui ella confida a un suo immaginario interlocutore la sua aspirazione verso un’arte nuova, capace di riconciliare l’individuo con il mondo e di fondere in uno il visibile e l’invisibile, il fenomenico ed il trascendente.

 

La stessa sintesi – ed è l’ultima “installazione” di cui parlo – che è riuscita a Riazzino, a pochissimi chilometri da qui, con il “Deposito” della Fondazione Matasci.

Mario Matasci è produttore di ottimi vini. Già un’opera d’arte sono le sue cantine “a cui cento convalli / empion le botti …”.

Ma il suo vero miracolo è l’aver radunato – iniziando con il comprare quasi per caso, quarant’anni or sono, il quadro d’un artista sfortunato (e senza essersi mai occupato prima d’arte …) – una meravigliosa raccolta, coerentissima, di opere, tutte quante di qualità suprema, di Alfredo Chighine, Otto Dix, Edmondo Dobrzanski, Franco Francese, Käthe Kollwitz, Ennio Morlotti, Gianriccardo Piccoli, Tino Repetto, Piero Ruggeri, Johannes Robert Schürch, Louis Soutter, Varlin …

Ma il miracolo ne contiene un altro. Il “Deposito” è aperto a tutti, e gratuitamente. Ma, mentre nel corso della settimana è visitabile solo su appuntamento, ogni domenica pomeriggio ci si può andare all’ora che si vuole, e troveremo ad accoglierci … Mario Matasci stesso!

Il quale, a seconda delle richieste e del temperamento dell’interlocutore, o illustrerà pazientemente, con quella sua bonaria malinconia, questo o quel pezzo della collezione, oppure lo lascerà libero di vagare, a godere da sé solo l’immortale incanto di quella che, nel suo complesso, è l’“opera d’arte” del collezionista stesso.

Tutta la collezione, per lo più costituita da “visioni dell’incomunicabilità, appare infatti come in uno stato di precaria convalescenza: uno sforzo per la libera autorealizzazione del “cuore”, sede ultima d’ogni esperienza vitale. Un’autorealizzazione paradossalmente compiuta attraverso le opere altrui, cioè tramite la voluta negazione dell’Io da cui promana.

 

E, poiché ogni storia vuole una morale, è giunto forse il momento di trarla.

Lebensreform vuol dire non solo “riforma che ha la vita per oggetto”, ma anche – e soprattutto – “riforma che prorompe dalla vita”. Non è la vita ciò che viene primariamente “riformato” nella Lebensreform: al contrario, è la vita stessa – nell’inesausta ricerca di soluzioni di cui qui vi è traccia – ad averne sostenuto e a sostenerne la carica riformatrice.

Proprio questa è la sintesi dell’assoluta specificità non solo di Ascona, ma anche del Ticino e della Svizzera.

Un Paese che oggi è di moda denigrare (dimenticando che i più spietati critici della Svizzera sono … gli Svizzeri stessi!) ma che, nello stesso tempo, ha molto da insegnarci. Certo il Ticino è una terra sovente emarginata sia dagli Svizzeri (che la reputano troppo “italiana”) sia dagli Italiani (che la ritengono troppo “svizzera”). Ma proprio in questa “marginalità” risiede il suo fascino di luogo d’incubazione di esperienze culturali di respiro più ampio: specie dopo il lento ed apparentemente inarrestabile processo disgregativo della coscienza europea (non a caso oggi parallelo al tentativo di “unificarla” solo economicamente) iniziato, esattamente cent’anni or sono, con il primo conflitto mondiale.

Perciò il Ticino è ancora oggi un luogo dove tutti possono sentirsi “ospiti”. Non a caso fu terra d’esiliati e d’esilio: di quella condizione provvisoria cioè che, senza volerlo e inconsapevolmente, spesso diventa definitiva. Qui Casanova scrisse in fretta un libro, oggi dimenticato, col solo intento di far ritorno alla sua patria ingrata.

Certo, la “marginalità” non va esente da rischi: in particolare da quello d’una “mancanza d’autoidentificazione” che può legittimare reazioni di contenuto esattamente opposto.

Ma, nonostante questo rischio, come s’è visto la terra d’Ascona è ancor oggi capace di sintetizzare lingue e culture diverse, spirito imprenditoriale ed amore per la cultura, tradizioni localissime e mentalità transnazionale, sempre conservando, in tutto questo, una sorta di ingenua semplicità.

 

Quella semplicità con cui donne e uomini della Lebensreform, com’ebbe a dire Rainer Maria Rilke, “come in un solo respiro guardano gli uomini e le cose e, come l’aria variopinta non distingue, e avviluppa tutto ciò che in essa nasce e riposa con la medesima luce di bontà, parimenti a essi pare di compiere un certo qual ingenuo atto di giustizia se guardano ora agli uomini e alle cose, tranquillamente vicini gli uni alle altre, senza pensarci su, come ad apparizioni della stessa atmosfera impregnate di quei colori che le rendono luminose.

Raimondo Fassa