L’anarcoreazionario Casanova

(note a margine d’un manoscritto “ritrovato”)

Giacomo Casanova (1725-1798) è ancora oggi noto al grande pubblico soprattutto come tombeur de femmes, tanto che il suo cognome è divenuto sinonimo di “seduttore”.

Chi si è negato la delizia di leggerle, pensa che le sue Memorie siano poco più di una raccolta di racconti erotici. Solamente la malcelata invidia dei professori di Lettere può spiegare l’ostracismo di cui, sia nelle antologie scolastiche sia nei corsi universitari, a tutt’oggi forma oggetto questo capolavoro della prosa d’ogni tempo.

Pochi sanno che Casanova  – oltre che giocatore, agente segreto, finanziere, confidente e … cabalista! –  seppe anche essere gentiluomo perfetto, coltissimo erudito, dilettante di talento in varie scienze e, non da ultimo, commentatore politico assai fine.

Nell’estate del 1793, ad esempio, egli interruppe la redazione della prima stesura delle Memorie per stendere una lunga Lettera a Robespierre (centoventi pagine!), mai ritrovata poi fra le sue carte.

Fortunosamente, chi scrive è giunto in possesso di un vecchio dattiloscritto in Francese (non sempre leggibile), che sembra, almeno in parte, riprodurne il contenuto: un lungo e disperato monologo svolto in ben dodici brevi Lettere a Robespierre, oggi in corso di traduzione, contenente molti riferimenti a fatti accaduti dopo (più o meno sino al Trattato di Campoformio), corredato dalle Addizioni di quell’equivalente “aristocratico” dell’Avventuriero che fu il suo amico principe Charles Joseph de Ligne (1735-1814).

Francamente, non c’è da scommettere sull’autenticità sia delle Lettere sia delle Addizioni.

La ricerca di un manoscritto condotta all’Archivio di Stato di Praga (il quale conserva molti fogli sparsi di Casanova) non ha difatti avuto alcun esito, se non per singole frasi sparse.

Non può pertanto escludersi che si tratti di un “falso d’autore” che, pur partendo da alcuni spunti autentici, abbia fatto ricorso al vetusto ma sempre efficace espediente dello scritto ritrovato.

Ci potremmo trovare di fronte, insomma, al prodotto dall’ingegno di qualche casanovista abbastanza abile nell’imitare lo stile magniloquente degli scritti “privati” dell’Esule di Dux (anche nel loro essere non rivisti dall’Autore, e quindi spesso enfatici, ripetitivi, frammentari, contraddittori), o di qualcuno che, al riparo della sua venerabile ombra, abbia voluto mescolare ai giudizi del Veneziano sul passato quelli propri sul presente.

Giacomo Casanova
Giacomo Casanova

Ma, al di là della sua autenticità, certo lo spirito complessivo di quel dilavato scritto   – soprattutto per il suo negativissimo giudizio sia sulla Rivoluzione francese sia, più in generale sulla “politica” modernamente intesa –  è non solo autenticamente “casanoviano”, ma anche “inattualmente attuale” e merita perciò qualche commento.

Allo scoppio della “Grande Rivoluzione”, Giacomo Casanova era infatti già un postumo.

Come ricorda proprio il Principe di Ligne nella prima delle sue Addizioni, “a tutti spiace vedere sfiorire e morire il proprio mondo.” Anche  – e forse soprattutto –  se, come Casanova, lo rimpiange proprio perché, pur avendo desiderato esserne attore, nei fatti ne è stato per lo più spettatore. Da un palco regale magari, ma pur sempre soltanto spettatore.

Non possiamo infatti dimenticare che  – quasi a postuma riparazione dei molti torti dell’età sua –  quelle successive diedero vita a molte “trasfigurazioni” del Veneziano, le quali tutte gli attribuirono, nelle vicende e nei maneggi della sua epoca, un peso assai maggiore di quello ch’egli ebbe nella realtà. Basta ad esempio pensare a quelle operate da scrittori più o meno riconducibili alla cultura del Decadentismo: da Arthur Schnitzler (Le sorelle o Casanova a Spa, Il ritorno di Casanova) a Hugo Von Hofmannstahl (L’avventuriero e la cantante), per arrivare sino a Sandor Márai (La recita di Bolzano).

Al di là dei loro meriti letterari, queste ed altre ricostruzioni “artistiche” sono tutte accomunate dal fatto che Casanova non vi si sarebbe riconosciuto: per quanto grande fosse la sua vanità, la sua onestà intellettuale le era di sicuro superiore.

In realtà  – del Casanova non mitico, ma reale –  la miglior definizione la seppe dare Piero Chiara: “un povero bastardo pieno d’ingegno, che non riesce a realizzare nessuno dei suoi sogni…”.

Insomma: il teatro del grand Siècle fu quanto si vuole cinico, libertino, galante, e da ultimo rivoluzionario; ma al personaggio Casanova riconobbe un ruolo solamente “marginale”.

La ragione principale del suo apprezzamento negativo sulla Rivoluzione sembra risiedere proprio in questa sua marginalità, oltre che nel suo esserne (al di là di tutte le autocostruzioni) lucidamente consapevole e, last but not least, nel suo appartenere ad una certa generazione della cultura settecentesca, sì superspregiudicata ma, proprio per questo, capace tutt’al più di rivolte individuali, ma di vere rivoluzioni mai.

Sulla marginalità occorre aggiunger poco.

Per tutta la vita Casanova fu animato dall’ambizione di essere ammesso in due “caste”: quella dei nobili e quella, forse ancor più esclusiva, dei philosophes.

Nonostante egli le avesse frequentate a lungo, sedotte spesso, comprese sempre, e fosse parecchie volte giunto ad un passo dal farne parte in toto, alla fin fine entrambe lo respinsero.

Da qui un’ammirazione  – frutto di quello che, in termini contemporanei, potremmo definire un “complesso di inferiorità” –  che inevitabilmente lo condusse alla condanna di un rivolgimento politico che i nobili li mandava al patibolo e i filosofi (eccettuato il detestato Rousseau) in soffitta.

Quell’ammirazione fu sempre eccessiva (non dimentichiamo ad esempio che Casanova, pur di accreditare una sua qualche appartenenza al ceto nobiliare, più volte avanzò seri dubbi sulla fedeltà coniugale di sua madre Zanetta…), ma mai incondizionata al punto da offuscare il suo giudizio.

Casanova ebbe infatti la disavventura di essere molto penetrante.

La nobiltà e l’intellighenzia da lui voluttuosamente vagheggiate si sarebbero dovute fondare non solo su piaceri derivanti da antichi privilegi come festini eleganti, cibi raffinati, vini squisiti, ma anche su vasta cultura, profondo acume, belle maniere, battute spiritose pronte sferzanti … quella “civiltà della conversazione”, insomma, che egli, quand’era stato messo nella condizione di farlo, meglio di molti nobili e intellettuali “patentati” aveva saputo incarnare.

Alla sua perspicacia, esaltata proprio dalla consapevolezza del suo ruolo marginale, non potevano peraltro sfuggire né l’ostinata dappocaggine di molti titolati né l’albagiosa vuotaggine di molti letterati. La ragione di molte sue disgrazie con gli uni e con gli altri risiede anche nel fatto che egli non si lasciò mai scappare il destro (e glie lo fornirono spesso…) di sottolineare l’una e l’altra con un’ironia mordace che fu facile far passare, da chi era più forte di lui, per pedante saccenza.

In particolare, la polemica contro la nobiltà e la monarchia, che pure anima tutte le sue opere (anche quelle “controrivoluzionarie” come queste Lettere), consiste sempre nell’amara considerazione che spesso entrambe non hanno saputo essere adeguate al ruolo assegnato loro dalla Storia.

Proprio questa inadeguatezza aveva a suo parere legittimato una Rivoluzione di cui, tutto sommato, egli detesta soprattutto la cafonaggine condita di ipocrisia.

Casanova intuisce difatti due fattori assolutamente centrali nel processo rivoluzionario: da un lato, il peso che i ceti privilegiati  – con atteggiamento a volte ipocrita, a volte suicida –   ebbero nell’innescarlo, e, dall’altro, la continuità nell’affermare quella logica del potere assoluto che i Re di Francia avevano avviato ma di cui, ad un certo punto, non erano stati all’altezza.

Sarebbe quindi miope e riduttivo considerare quella di Casanova una pura e semplice “utopia reazionaria”. Del tutto indipendentemente dai suoi intenti (che di sicuro andavano in quella direzione), egli si colloca, di fronte alla ‘Politica’ (che non a caso egli a volte connota con l’iniziale maiuscola), nella medesima prospettiva realistica in cui negli anni successivi alla sua morte  – e certo con ben altra lucidità e chiarezza –  verranno ponendosi grandi teorici della Restaurazione come Adam Müller, Joseph-Marie De Maistre o Friedrich Von Gentz.

In questa involontaria presa di posizione (corroborata dalla lettura dell’odiato-amato Machiavelli) affonda le sue radici  – nel giudicare eventi, come quelli rivoluzionari, da lui ormai conoscibili solo tramite le gazzette o le epistole –  l’atteggiamento realpolitiker del vecchio Bibliotecario di Dux.

Vecchio sì, appunto, ma in quale misura?

Curiosamente, l’anno di nascita di Casanova, il 1725, si colloca pressoché a metà strada fra quelli di Voltaire (1694) e di Robespierre (1758). Venuto al mondo troppo tardi per non vedere la strada senza uscita imboccata dall’assolutismo illuminato, Casanova era nato troppo presto per farsi sedurre dagli entusiasmi rivoluzionari.

Gli uomini della sua generazione, dell’Ancien régime avevano sperimentato  – come unica alternativa al dominio di ceti in ormai irreversibile declino (ad esempio, la bolsa oligarchia veneziana) –  solo i monarchi cosiddetti “illuminati” già nella fase della loro crisi.

Nei suoi “incontri” con alcuni di loro, Casanova ne individua i limiti umani, con accenti di cui non furono capaci intellettuali come Voltaire e Diderot, ben altrimenti garantiti nella loro posizione e che pure avevano dovuto scontare sulla loro pelle i guai procurati dall’ambiguamente interessata amicizia dei Re.

E non è certo casuale il lucido giudizio su Federico di Prussia contenuto nelle Memorie, anticipatore di quello, ancor più negativo, che, parlando dell’“universal caserma” prussiana, ne fornirà l’Alfieri (non per nulla autore di un’altra densa autobiografia nonché, prima ancora, realizzatore di un altrettanto incisivo, benché diverso, progetto di ‘Uomo’).

Insomma: difficilmente Casanova avrebbe condiviso il lusinghiero giudizio sul “Re filosofo” contenuto nella kantiana Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?

Nel particolare  – in ogni particolare –  egli vedeva sempre il generale: in un tic, in una mania, in una risposta, in un gesto egli scorgeva il prodotto non di una stortura psicologica, ma di una contraddizione pratica. Kant al contrario  – come tutti i filosofi in cui l’esperienza concreta della vita sia stata sostituita dalla lettura di numerosissimi libri –  credeva di riscontrare nella realtà soltanto il realizzarsi dei suoi astratti princìpi.

Ecco perché il destino dell’Avventuriero era aperto ad una soluzione finale paradossalmente analoga  – e, nello stesso tempo, antitetica –  a quella dell’odiato Rousseau.

Rousseau è per Casanova una vera e propria “bestia nera”. Non a caso, egli gli dedica ben due Lettere  – la nona e la decima, non a caso le più lunghe e le più “filosofiche” –  ostentatamente chiamandolo quasi sempre solo “Gian Giacomo” (secondo un uso per il vero non infrequente nel Settecento).

Il Ginevrino sembra infatti incarnare tutto quello che il Veneziano odia: il sentimento contro la ragione, la mélancolie contro la joie di vivre, la misantropia contro la socialità, l’ipocrisia contro la sincerità. Come si vede, le antitesi casanoviane al russovianesimo si spingono a tal punto da diventarne, in un certo senso, il negativo fotografico.

Però  – e forse perciò –  sul piano pratico le loro vite si assomigliano.

Entrambi peripatetici, entrambi onnivori negli interessi, entrambi conoscitori di musica, entrambi incapaci di legami femminili stabilizzati e stabili, entrambi ospiti di potenti da loro intimamente disprezzati, entrambi anarchici.

Cambia soltanto il segno  – nell’accezione, duplice, di ‘direzione’ e di ‘significato’ –  della loro anarchia.

Rousseau sembra, nonostante tutto, credere nel futuro. Perciò a lui si ispirarono tutti i fautori di un “ordine nuovo” capace di comprendere e superare, di per sé solo, il disagio del singolo. E, in effetti, la tormentata riflessione del Ginevrino fu uno dei “mattoni” intellettuali coi quali si costruì la nuova figura del ‘borghese’ prima, poi del ‘proletario’: due categorie sociali oggi, almeno in Europa, in via di estinzione.

Da qui l’attualità di un “inattuale” come Casanova che, nel futuro, non sembra credere affatto.

Lungi dal condividere improbabili ricette di redenzione collettiva al servizio di nuove figure sociali, egli rimane una sorta di “orfano” della società per ceti ormai in crisi.

Da qui il suo ripiegare  – o felix culpa! –  sulla più anarchica delle esperienze.

Quella di una vita piena di luci ed ombre  – nostalgicamente ricomposta in anni ed anni di furibonda scrittura indiavolata –  il cui unico significato risiede, come per il suo Ariosto, nell’inesauribile crearsi tramutarsi rincorrersi d’una serie di alterne vicende riguardate con sereno distacco; appena appena turbato, come per il suo Orazio, dalla trepida consapevolezza del loro perenne svanire.

Raimondo Fassa