L’uso disinvolto della lingua italiana

Tutti assorti a usare a tutto spiano termini della lingua inglese – senza peraltro curarsi di farne comprenderne il significato nel corso delle proprie elucubrazioni – ci si dimentica a volte di scrivere in corretto italiano.

Tanto che – perfino nei titoli dei quotidiani – gli accenti diventano un’opinione, come nel caso di un “perché” in cui l’acuto diventa inopinatamente grave (perchè). Per tacere di apostrofi elargiti con generosità anche quando non si tratta di elisione: “un altro” e “nessun altro” non lo reclamano.

In tema di verbi, la prima persona del verbo “dare” non vuole l’accento: quindi “io do”.

Nel dativo, succede di imbattersi in un “a cui”, dove la “a” è sovrabbondante. La locuzione latina “cui prodest” insegna.

Pescando qua e là, troviamo dunque espressioni errate difficili da sradicare.

 

Una delle “sviste” più frequenti (anche da parte di firme note) è quella di usare il verbo “chiedere” al posto di “domandare”, non tenendo conto che si chiede per ottenere e si domanda per sapere. Transit.

Così come si usa impropriamente il verbo “alternare” per indicare l’avvicendarsi di più soggetti, quando invece si tratta del ricambio di due singoli: o l’uno o l’altro, appunto. L’alternativa è solo una, le altre sono possibilità.

 

Errori o – se vogliamo – svarioni sintattici che spedirebbero i malcapitati dietro la lavagna (preferibile a un “dietro alla lavagna”).

 

Càpita poi di leggere, finanche nei titoli dei giornali, “dare forfait” anziché “dare forfeit” se si tratta di abbandono.  “Forfait”, infatti, è espressione contabile (pagamento a forfait).

 

Ma si può sempre dare la colpa alla “macchina per scrivere” purché non si peggiori la situazione chiamandola “macchina da scrivere”.

 

Ma al peggio, come si sa, non c’è limite. In un “lancio” d’agenzia abbiamo letto che il presidente del Senato si è “schernito” (si sarebbe preso in giro) laddove invece si era “schermito” per non sbilanciarsi.

 

I MANUALI

 

Per evitare piccoli e macroscopici errori, nel 1991 al “Giornale” fu distribuito un vero e proprio libro di 125 pagine curate dal capo dei correttori dell’epoca, Domenico Giorgio, in cui si evidenziavano gli svarioni da evitare. La prefazione fu firmata dallo stesso direttore Indro Montanelli.

 

A dar manforte a Domenico Giorgio, ci pensò poi nel marzo 1998 Paolo Granzotto (Bologna 15 marzo 1940-Torino 10 maggio 2016) che, per conto sempre del “Giornale”, allora diretto da Mario Cervi, pubblicò il libro “Perché parliamo italiano”, dedicando due capitoli agli “Errori e dubbi comuni”.

 

Il repertorio – avvertiva subito – non sarà esaustivo, come dicono le persone che si compiacciono di parlar difficile, un po’ con la puzza sotto il naso (per cui noi diremo esauriente)…”.

 

Tra le voci più fastidiose annoverava: “Eclatante: francesismo tra i più ributtanti”. Entro e non oltre? “Se è entro, oltre non si va”. Escutere il teste: “E’ voce del più lutulento giustizialese. Vuol dire interrogare”. Facoltizzare, in luogo di consentire: “E’ sgangherata parola da lasciare ai politici”. Finalizzare, nel senso di portare a termine: “Turpe buropolitichese”.

 

Tra le voci che non t’aspetti: “Autopsia vuol dire, sic et simpliciter, esperienza diretta. Uno storico, un giornalista, può adottare l’autopsia come metodo e cioè riferire solo di cose viste. Il fotografo è il re dell’autopsia”.

 

Le negazioni che affermano, robaccia da baraccone di paese: “Non è senza grande emozione che…”, “Non senza apprensione…”, “Non senza profonda amarezza…”.

 

Ciò che è colto – annotava poi – è discriminatorio, pertanto non democratico”.

 

Scorrendo le espressioni più comuni, ecco un “affittare una casa” (cioè dare in affitto) usato impropriamente nel senso di “prendere in affitto”.

 

Per non infrangere anche il codice della grammatica, non si deve superare il limite della velocità scrivendo “cento all’allora”, ma “cento l’ora”.

 

Nel caso di una multa, l’espressione sarà seriosa, non certo “corrusca” (equivale a “mandare scintille”, quale risultato di “cozzare con le corna”.

 

E’ consuetudine utilizzare espressioni prese a prestito da altre lingue, salvo ignorarne il significato. Si parla del “clou” di una manifestazione, dimenticando che in francese la parola significa “chiodo”.

 

Costatare è francesismo: errato constatare. A proposito di francesismi, “manicure” è la donna cui ci si affida per curare mani e unghie. “Farsi la manicure”  è dunque espressione equivoca.

 

“Entro e non oltre?”: se è “entro”, oltre non si va.

 

Falcidiare deriva dal tribuno latino Falcidio e significa detrarre. Errato dunque usare il verbo negli incidenti stradali.

 

Nuovo: “E’ nato un nuovo modello di computer…”. Ma quando mai s’è visto qualcuno o qualcosa nascere vecchio?

 

“Tessuto urbano” o “sociale” : è fanfaronata da salotto pseudo intellettuale.

 

“Utènsile” è ciò che serve alla lavorazione, e quindi si dirà “macchine utènsili”, mentre utensìli sono gli arnesi manuali, quali gli “utensìli di cucina”.

 

Agli errori più comuni di scrittura, Paolo Granzotto aggiunge anche, in un capitolo a parte, anche quelli sul significato e sull’origine delle parole.

 

Attenti dunque a non etichettare come “anfitrione” un ospite brillante. Si dà il caso infatti che Giove, invaghitosi della moglie del re di Tebe, Anfitrione appunto, ne prese le sembianze e ne approfittò. Si capisce come.

 

IL VADEMECUM

 

Pescando qua e là nel vademecum di Domenico Giorgio,  constatiamo come certi errori siano duri a morire.

 

In giurisprudenza una pena comminata è solo minacciata, altrimenti è inflitta.  “Rassegnare” significa “restituire”. Scrivere “rassegnare le dimissioni”, sarebbe come dire “restituire le dimissioni”.

 

“Redarre” non è voce italica: l’infinito è “redigere”.

 

“Serotino”: dal latino “sero”, significa “tardi”, non “serale”.

 

“Suspence” in francese non esiste. Scrivere “suspense” (inglese).

 

“Usura” è l’interesse sproporzionato per denaro ottenuto in prestito. Errato quindi

per indicare il consumo dei pneumatici.

Antonio Cosentino