Il Western americano

Chiedo sommessamente scusa a Chaplin, Hitchcock, Billy Wilder e Otto Preminger, che poi a guardar bene erano inglesi (i primi due) o austriaci (gli altri due), ma per il me il cinema americano vuol dire John Ford.

Ebbene sì, vado pazzo per il western, quello vero, meglio se girato nella Monument Valley, mica quello cotto, e troppo spesso stracotto, degli spaghetti.

Per carità, Sergio Leone è un grande e il Clint Eastwood attore ha dimostrato con il tempo di avere ben più delle due sole espressioni (col sigaro e senza) che gli attribuivano agli esordi i critici più perfidi.

Ma basta la scena iniziale, bissata anche alla fine, di ‘Sentieri selvaggi’ per mangiarsi in un boccone tutti i pugni e i dollari che fecero la fortuna di Leone.

Siamo nel Texas del 1868 e, subito dopo i titoli di testa, una stanza buia si spalanca di colpo sul paesaggio illuminato dal sole: roba da restare a bocca aperta per lo stupore, anche se si rivede il film per la centesima volta.

La scena d’apertura di ‘Sentieri selvaggi’ evidentemente piacque tanto a John Ford, che la piazzò anche alla fine di quelle due meravigliose ore di grande cinema.

Con una variante: il paesaggio non è più vuoto, ma dominato dall’ombra gigantesca di John Wayne, che caracollando alla sua irripetibile maniera, se ne va spavaldo verso un’altra avventura.

Uno spettacolo da far venire le lacrime agli occhi.

E in mezzo c’ è un capolavoro, anche se la trama sembra banale.

Con la quercia umana JW, coraggioso veterano di guerra, deciso a strappare ai Comanches la nipote Debbie.

Un’impresa che lo terrà impegnato cinque anni.

Epico.

Ma la mia passione per il western era cominciata prima di quel magico 1956.

La scintilla, per l’esattezza, scoccò nel 1953.

Avevo dieci anni, sufficienti per distinguere il bello dal brutto.

Al cinema Corso di Milano, davano ‘Il cavaliere della valle solitaria’, che papà e mamma avevano giudicato, non so in base a quali imperscrutabili elementi, adatti alla ma età.

Beh, dire che ne restai affascinato è poco, tanto che credo sia il film, che ho visto più spesso.

Alan Ladd non è un grande attore, né per statura, né per talento, ma qui è perfetto nel ruolo del pistolero Shane, che s’inventa giustiziere degli oppressi soltanto per amore di giustizia.

Altri tempi, si capisce.

E, oltre all’elettrizzante duello finale con il sadico killer nerovestito Jack Palance, imbattuto cattivo della prateria, c’è anche una tenera e incredibilmente pudica love story con la bionda Jean Arthur, fedelissima moglie del candido bovaro Van Heflin.

Sessant’anni fa bastava uno scambio di sguardi per dire: “Ci amiamo, ma non possiamo”, fantascienza pura per i cineasti d’oggidì, avvinghiati a lenzuola sfatte.

Quei brevi sospiri allora probabilmente mi fecero sbuffare d’impazienza.

In seguito li ho ampiamente rivalutati.

Come dire che a volte rivedere un film può servire a comprendere quel che era sfuggito.

 

Lo ammetto, il western con la W maiuscola mi piace tutto, anche se non è targato Ford.

Così vado matto per ‘Mezzogiorno di fuoco’, un bianco e nero del ’52, diretto da Fred Zinnemann, uno dei tanti genii austriaci alla corte di Hollywood.

Vedere il cinquantenne, già tuttorughe, Gary Cooper che ad Hadleyville, Wisconsin, anno di grazia 1870, va incontro da solo al treno di mezzogiorno ripieno di banditi, dunque, vederlo in azione e balzare sulla poltrona è quasi un obbligo morale.

Senza dimenticare la radiosa, e fattiva, partecipazione alla resa dei conti finale della principesca, anche se non ancora principessa, Grace Kelly.

E a proposito di ferrovie, resta indimenticabile ‘Quel treno per Yuma’ (Delmer Daves, 1957), un altro splendido bianco e nero, con Van Heflin ancora bovaro, sempre placido, ma promosso protagonista, che trova il fegato, unico ardimentoso tra i compaesani fifoni, per scortare sul convoglio delle 3 e 10 il burbanzoso bandito Glenn Ford, fino al posto che il lestofante si merita: il carcere di Yuma.

Quanti brividi, ragazzi, conditi dalla voce possente di Frankie Lane, che intona il melodioso motivo conduttore.

Ma ho divagato.

Mi scuso e finisco da dove ero partito: Ford.

Bastano altri due titoli per dirne la grandezza, uno sempreverde e l’altro, ahimé, ingiustamente dimenticato.

‘Ombre Rosse’ lo ricordano tutti, anche settanta e passa anni dopo.

E vorrei vedere.

Fu girato nel ’39, l’anno, tra parentesi, che sfornò ‘Via col vento’.

In nove sulla diligenza assalita dagli Apaches.

Piovono le frecce e i cavalli corrono a perdifiato.

Un film che resta insuperato per tensione e scavo dei caratteri.

Cartellino giallo a chi ancora oggi non freme per quel disperato manipolo, guidato da un giovanissimo John Wayne.

È invece finito nel reparto archeologia un altro bianco e nero con le stimmate del capolavoro: ‘Sfida infernale’, del ’46.

L’azione si trasferisce dal Texas a Tombstone, Arizona, fermo, o quasi, restando il periodo di ambientazione: là 1880, qui 1882.

Sullo schermo svettano Henry Fonda e Victor Mature, nei panni rispettivamente dell’intrepido sceriffo Wyatt Earp e dell’ex medico alcolizzato Doc Holliday.

Appuntamento all’Ok Corral con la gang dei malvagi Clanton.

Un film esemplare per sobrietà, oltre che per suspense.

E che struggimento sulle note di “My Darling Clementine“ dedicate alla bellissima maestrina del villaggio Linda Darnel.

Chi non piange con me peste lo colga direbbe Amedeo Nazzari buonanima.

Massimo Bertarelli