Porfirio Diaz, ”il leader migliore che una nazione arretrata possa avere”

La parabola storica del generale Porfirio Diaz, presidente del Messico dal 1876 al 1880 e poi, ininterrottamente, dal 1884 al 1911, è una delle più significative tra quante riguardano i diversi leader del continente latino americano.

Meticcio (nel mentre Benito Juarez era un indiano zapoteco ‘completo’, il Nostro era un ‘quasi’ mixteco) di umili origini, il futuro presidente era nato a Oaxaca nel 1830.

Abile e deciso combattente, si distinse nelle guerre che insanguinarono il suo Paese a far luogo dagli anni Cinquanta e in particolare nella lotta contro i francesi e l’imperatore Massimiliano d’Asburgo.

Preso il potere nel 1876 lo esercitò a man salva potendo contare sullo sfinimento dei compatrioti, praticamente in armi da sessant’anni e desiderosi di un periodo di pace.

Ottimamente considerato da osservatori internazionali per il vero alquanto superficiali, Diaz fu a lungo ritenuto “il leader migliore che una nazione arretrata possa avere”.

Di lui, altresì, si diceva:

“Da una palude ha ricavato un giardino, ha trasformato dei predoni in contadini e la bancarotta in un bilancio attivo”.

Di se stesso e del suo metodo poteva tranquillamente affermare:

“Il sangue che ho versato era sangue cattivo, quello che ho risparmiato era sangue buono” e con riguardo all’incredibile durata del suo ‘regno’, dire:

“Un presidente in carica da trenta e più anni?

Porfirio Diaz
Porfirio Diaz

Qualcuno troverà che non sia molto democratico.

Sarà anche vero, ma queste sono le necessità del mestiere!”

Il lungo periodo che lo vide in sella esercitando il potere con durezza e brutalità, fu noto, con riferimento allo stato apparente del Paese, come ‘pax porfiriana’ e, pensando alle cosiddette ‘conquiste’ sociali, civili ed economiche, come ‘porfirismo’.

Il principio della fine, alquanto incredibilmente, in una intervista che l’oramai anziano capo dello Stato concesse al giornalista americano James Creelman (suo fervente ammiratore) nel mese di marzo del 1908.

Per ragioni di buon vicinato con gli Stati Uniti, nell’occasione, don Porfirio annunciò che in vista delle presidenziali fissate al 1910 avrebbe acconsentito ad affrontare un candidato dell’opposizione davvero alternativo.

Pensava, in vero, di non dover temere alcunché ma si sbagliava perché, lette le sue parole, ecco proporsi un piccolo, timido avvocato liberale, fra l’altro spiritista e omeopata convinto, di nome Francisco Madero.

Come risolvere il problema e vincere a redini basse se non sbattendo in prigione il rivale impedendogli così di fare campagna?

E qui, a bocce apparentemente ferme, nuovamente assiso sullo scranno che pensa ‘debba’ essere sempre suo, un secondo, gravissimo errore: la scarcerazione di Madero che adesso non gli fa più paura.

E’ un attimo: breve esilio dell’avvocatino negli Stati Uniti ed ecco ‘El Plan de San Luis Potosì’, piattaforma programmatica nella quale Madero spiega quale sarà il ‘suo’ Messico una volta scacciato il dittatore.

E’ l’ora della rivoluzione che incendierà il Paese per un’infinità di anni.

Fuggito in Francia dopo le dimissioni rassegnate nel maggio del 1911, don Porfirio – che lasciando il Paese aveva profeticamente detto “Madero ha svegliato la tigre, vedremo se saprà domarla” – seguirà da lontano i sanguinosissimi avvenimenti e morirà a Parigi il 2 luglio 1915.

Mauro della Porta Raffo