Il ruolo della religione nella costruzione dell’identità svizzera

Lo stemma svizzero è costituito da una croce bianca in campo rosso, l’inno nazionale della Confederazione è un salmo e la Costituzione federale elvetica si apre con un’invocazione a Dio onnipotente: basterebbero questi tre elementi per evidenziare come la religione cristiana abbia giocato un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità svizzera.

Ruolo, per vero, non sempre pacifico (l’ordinamento federale presenta ancora tracce evidenti della preoccupazione – dopo il conflitto del Sonderbund del 1847 – di evitare una nuova guerra confessionale), ma senz’altro fervido, tanto che, come ha ben posto in luce lo storico Urs Altermatt, l’esperienza religiosa ha attraversato la storia dei Confederati illuminandone la vita quotidiana e dando alla ‘Nazione – volontà’ un patrimonio di valori comuni che ha saputo superare le barriere linguistiche e culturali.

Questo non vuol dire, naturalmente, che la Svizzera sia uno stato confessionale: il Tribunale Federale di Losanna ha chiaramente posto in luce il carattere laico della Confederazione, la quale garantisce in via generale la libertà di credo e di coscienza, la libertà di espressione e la generale libertà morale anche per una serie di comportamenti contrari all’etica cristiana (garanzia delle convivenze extramatrimoniali, tutela giuridica delle unioni omosessuali, interruzione volontaria della gravidanza nei casi stabiliti dalla legge).

Pare piuttosto di poter affermare – non dissimilmente da quanto evidenziato dal giurista Peter Saladin – che i riferimenti pubblici al cristianesimo operati dalla simbologia e dall’ordinamento svizzero costituiscono la volontà di cristallizzare un preciso sistema di valori, preesistente alle decisioni della maggioranza e centrato sulla concezione occidentale e cristiana dell’uomo e della sua dignità.

In questa prospettiva, i valori portanti del cristianesimo (rispetto per la dignità umana, solidarietà, uguaglianza tra uomo e donna, libertà di coscienza, ripudio della violenza – solo per citarne alcuni) assumono una dimensione ‘secolarizzata’, capace di costituire una grammatica etica essenziale di riferimento per tutti i consociati a prescindere dalla loro appartenenza confessionale: essi danno vita ad una sorta di ‘religion civile’, trasversale e dunque non divisiva.

La croce federale, il salmo svizzero e l’invocazione a Dio hanno perciò una funzione simbolica di riaffermazione di tali valori all’interno del sistema sociale ed istituzionale; funzione diretta alla piena realizzazione di essi in modo inclusivo, e non escludente, e pertanto da operarsi nel rispetto del panorama multireligioso della società elvetica.

Queste riflessioni saranno inevitabilmente da verificare, in futuro, alla luce della secolarizzazione che la Svizzera sta attraversando: il censimento del 2010 ha posto in luce una marcata contrazione del numero di cattolici e protestanti, e un’evidente impennata di coloro che si dichiarano senza appartenenza confessionale(tanto che, in alcuni cantoni, questi ultimi costituiscono la maggioranza della popolazione).

La ‘scristianizzazione’ della Svizzera potrebbe portare ad una ridiscussione in merito ai simboli e ai valori fondamentali che la rappresentano?

Difficile dirlo.

Di certo, da parte di diversi settori della società è stata avanzata la proposta di modificare l’inno nazionale, assumendo che un salmo (seppur profondamente intriso di patriottismo) non sarebbe più in grado di rappresentare la società elvetica.

Per altro verso, c’è il rischio che la secolarizzazione enfatizzi il carattere politico-identitario del cristianesimo in chiave escludente: le recenti votazioni contro l’edificazione di minareti in territorio federale e contro la possibilità di portare indumenti come il burqa ed il niqab in Canton Ticino sono espressione di movimenti sociali compiuti lungo un segnavia controverso, in cui l’affermazione popolare di principi inderogabili è sempre chiamata a confrontarsi con la libertà di religione che deve essere garantita a tutti gli individui.

Di certo, le recenti votazioni che in diversi cantoni hanno continuato a garantire l’attuale assetto di finanziamento delle Chiese di maggioranza attraverso l’imposta di culto hanno confermato una attestazione di utilità sociale generale nei confronti di queste ultime: attestazione che impegna i pubblici poteri ad un ruolo attivo nella promozione e nella tutela del loro operato.

Il fatto che, sia a Friborgo che nei Grigioni, esponenti di differenti forze politiche abbiano individuato nella Chiesa cattolica romana e nella Chiesa evangelica riformata due gruppi di evidente utilità sociale costituisce la riprova che – in diversi cantoni della Confederazione – la presenza delle religioni tradizionali non è un affare meramente privato, ma si articola in una serie di rapporti di interesse generale che fornisce ad esse una dimensione pubblica.

Al fondo di tale dimensione pubblica – riconosciuta sia alla Chiesa cattolica che a quella evangelico-riformata, ma in altri cantoni anche ad altri gruppi confessionali del ceppo giudaico-cristiano – vi è l’idea che le istituzioni cantonali debbano reagire alla globalizzazione riconoscendo e sostenendo il ruolo del cristianesimo come vettore e custode dei valori che rappresentano le radici della civiltà elvetica.

Si assiste così ad una rivoluzione copernicana rispetto al vecchio costantinismo.

La Chiesa cattolica e quella evangelica non chiedono allo Stato privilegi, ma invitano i pubblici poteri a riflettere su quanto il riconoscimento delle radici cristiane e l’accettazione della presenza di un principio morale immutabile ed eterno, creatore di una legge etica valida per tutti, possano costituire il fondamento della tradizione culturale occidentale e la salvaguardia dei valori su cui essa si fonda.

In quest’ottica, il rapporto tra libertà religiosa e laicità si sviluppa attraverso il processo di costruzione di un linguaggio comune, che consenta – tra laici e credenti – una reciproca comprensione ed un reciproco rispetto.

Vincenzo Pacillo