I giornalisti e il decimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1956

Per gentile concessione della casa editrice LE LETTERE pubblichiamo un estratto dell’ultimo libro di Alberto Indelicato “Spie e professori nell’Ungheria di Kádár” – MdPR

* * * * *

Nell’anno 1966 cadeva (in Ungheria) il decimo anniversario della rivolta anticomunista ed antisovietica ed ovviamente il governo nutriva delle preoccupazioni e denunciava un certo nervosismo.

Ne avemmo qualche prova quando ricevemmo dall’Austria le telefonate di diversi giornalisti italiani, che lamentavano di essere stati respinti alla frontiera ungherese perché sospettati di volere indagare in maniera malevola sui sentimenti della popolazione…

Chi non poteva essere scontento del mancato ingresso degli inviati della stampa era probabilmente il mio amico Anton Gaetano Parodi, corrispondente de ”L’Unità”.

Si sa che un corrispondente tira la carretta tutto l’anno perché in genere non c’è nulla d’interessante da riferire e nei momenti in cui si attende qualche avvenimento clamoroso vede catapultarsi dal centro un ”inviato speciale” dalla firma più importante, o ritenuta tale, che occupa tutta la scena pur non conoscendo la situazione come il collega stanziale, con la conseguenza che questi viene messo da parte senza molti complimenti.

Per fortuna questa volta il campo era rimasto sgombro da ”invasori” e Anton Gaetano Parodi poteva sperare di fare lui lo ”scoop” della sua vita.

Come ho già accennato, era un bravo comunista – era stato partigiano in Liguria – malgrado, di fronte alla dura realtà del „socialismo reale”, fosse in permanente crisi ideologica, ma poché era anche un ottimo giornalista, la sua crisi era, adesso, anche professionale.

Venne a chiedermi consiglio: che cosa avrebbe dovuto fare, o meglio scrivere se, come si temeva, ci fosse stato qualche accenno di disordini, per tacere di una nuova rivolta?

Aveva sentito dire dai suoi informatori che nell’isola industriale di Csépel, dove nel 1956 gli operai avevano formato dei comitati indipendenti contro il regime, vi erano state varie riunioni segrete al termine dei turni di lavoro, durante le quali erano stati enunciati dei propositi sovversivi.

Parodi stesso, recatosi nell’isola, aveva notato degli agenti della polizia in uniforme percorrere tutte le strade e penetrare nei capannoni; gli erano stati indicati anche poliziotti in borghese che – si diceva – erano in stato di mobilitazione permanente.

Parodi era profondamente lacerato tra la sua traballante fede comunista, a cui pure rimaneva disperatamente attaccato, e la speranza comune a tutti i giornalisti di fare un colpo clamoroso.

Si chiedeva se non dovesse già scrivere qualcosa per il suo quotidiano, del quale peraltro non ignorava la dura posizione presa nel 1956 contro gli insorti.

Temeva di esser preso alla sprovvista, se non avesse anticipato le notizie di cui già disponeva e magari di essere scavalcato, in assenza degl inviati, dalle agenzie di stampa internazionali.

Ma gli sarebbe stato permesso dagli organi polizieschi di controllo di trasmettere il suo pezzo per telefono o per telex?

Ed anche ammesso che gli fosse stato possibile dettare il suo articolo, ”L’Unità” lo avrebbe pubblicato?

E se poi non fosse successo nulla e le autorità ungheresi avessero smentito la realtà delle riunioni clandestine, non sarebbe stato accusato di aver trasmesso notizie false ed anticomuniste e magari dichiarato persona non grata ed invitato a lasciare l’Ungheria?

Posto di fronte a questi interrogativi alla fine si era convinto che era preferibile attendere.

Non successe niente.

Non vi furono celebrazioni ufficiali dello schiacciamento della “controrivoluzione”, né manifestazioni illegali in ricordo degli “avvenimenti” del 1956.

Furono strettamente sorvegliati i cimiteri per evitare che l’omaggio ai defunti, vittime della repressione, si trasformasse in qualcosa di diverso.

A pregare o a ricordare i morti non si poteva essere in più di tre persone.

Le autorità non avevano dimenticato che il 4 novembre del 1956 le truppe sovietiche avevano sparato su una folla di diverse migliaia di donne che si erano riunite in un cimitero per piangere i loro morti, vittime della repressione dei giorni precedenti.

La prevenzione poliziesca questa volta aveva funzionato perfettamente.

C’era stato qualche arresto, qualche fermo e qualche minaccia.

I giornali locali fecero passare l’anniversario sotto silenzio.

Qualche giorno dopo, al ricevimento offerto dal1’ambasciatore sovietico per l’anniversario della “Grande Rivoluzione d’Ottobre”, vidi Kádár con tutti i massimi esponenti del regime.

Onusti come sempre di decorazioni sui vestiti scuri, con l’immancabile cravatta grigio-perla che era una sorta di distintivo della nomenklatura comunista, erano visibilmente soddisfatti e tranquilli per aver superato un momento che avrebbe potuto essere rischioso.

Tuttavia la situazione economica era difficile e si preparavano dei provvedimenti necessari ma molto impopolari, tra cui un aumento brutale dei prezzi dei generi di prima necessità, compreso il pane.

Si era deciso di soprassedere proprio per evitare che l’adozione di quelle misure coincidesse con l’anniversario della “controrivoluzione”.

Tra qualche settimana si sarebbe provveduto.

Il mio amico dell’”Unità” era un po’ deluso e non soltanto dal punto di vista giornalistico.

“Abbiamo rigettato Stalin — mi disse qualche giorno più tardi con un tono faceto che mal mascherava i suoi autentici timori – e abbiamo rinunciato a Lenin, finirà che rinnegheremo anche Marx”.

Spirito veramente profetico.