Lupo di mare

Il testo che segue è stato scritto da mio nonno, conte Enrico della Porta Rodiani Carrara, all’incirca negli anni cinquanta del trascorso Novecento. Narra di tempi lontani, degli ultimi anni della navigazione a vela, del Mare Mediterraneo, dell’Oceano Atlantico, di traversate, di fortunali, di tempeste, di epidemie, di fame e di sete. Memorie di una ‘tranche de vie’ intensamente e appassionatamente vissuta. – MdPR

* * *

“Sono passati ormai cinquanta anni dal giorno in cui decisi di tutto il mio avvenire votandomi alla vita del mare.

Nato a Roma, ero allora alunno del Ginnasio – Semiconvittore all’Istituto Massimo alle Terme – e mio padre, funzionario del Vati­cano, sperava di poter fare di me un professore di belle lettere (latinista) che perpe­tuasse la tradizione familiare del suo alto ufficio.

Ma io ero uno di quei ragazzi – che, in quell’epoca, si definivano ‘scapestrati’ – insofferenti ad ogni disciplina; ribel­le e scontroso con tutti, amavo isolarmi inseguendo vane chimere ed estraniandomi completamente dalla vita degli altri, dalla mia condizione e della mia età.

Studiavo quel poco che mi era sufficiente per superare gli esami, felice solo nei mesi esti­vi quando ì miei mi conducevano al mare in una nostra modesta casetta sul litorale Tirreno dove passavo i miei giorni a bordo di una lancetta di poco più di tre metri, che mi ero attrezzata da solo, con una vela al terzo sproporzionatamente esagerata, ma che avevo imparato a governare con naturale sicurezza e con una perizia veramente rara in un ragazzetto della mia età.

Con questo guscio di noce non esitavo a bordeggiare il freschis­simo vento Maestrale delle nostre coste Tirrene, e (nonostante il divieto e le sgridate dei miei) gareggiavo al largo con le paranze di Resina che allora passavano alla vela sulle coste del nostro Lazio e, molte volte, rientravo a spiaggia solo alla sera dopo il tramonto del sole.

Talora mi era compagno ed aiuto un fratello più giovane ma, più spesso, scappavo solo su e giù sul libero mare – ebbro di vento e di sole – rimuginando i miei grandi sogni di viaggi o di avventure di Salgariana memoria nei quali mi vedevo Comandante di un grande veliero di altura, di quelli che qualche volta ero riuscito ad incrociare al largo con la mia piccola barchetta e che, in quell’epoca, torreggiavano nei nostri mari con gli immensi padiglioni delle loro bianche velature.

E fu così che, appena doppiato lo scoglio dell’esame di stato di licenza ginnasiale (non avendo quindici anni!), ingaggiai l’ultima lotta con i miei e, dopo alterne vicende, pianti di mia Madre e terribili dis­cussioni con mio padre, non senza epici e varii tentativi di fuga da casa e di imbarchi clandestini, strappai il consenso paterno necessario per il mio primo imbarco.

Ed imbarcai a Porto d’Anzio su di un piccolo veliero Siciliano, di duecento tonnella­te, armato, per trasporto di vino dalle Puglie e dalle isole a Porto d’Anzio, da un nego­ziante di vino di Roma.

Non dirò che a bordo mi trovassi a mio agio – non ero che un ‘mozzo’ per quanto appren­dista e tutti i compiti più umilianti e più gravosi non mi furono certo risparmiati.

Ebbi anzi la vaga impressione che mio padre, nel consegnarmi al Capitano, gli avesse fatta la rac­comandazione speciale di trattarmi tanto male da farmi passare la voglia dì navigare, nella speranza di farmi recedere da quella che era l’unica mia volontà e la grande mia passione.

Enrico della Porta Rodiani, A fil di ruota
Enrico della Porta Rodiani, A fil di ruota

Ricordo che appena imbarcato, dovetti arrangiarmi per la prima colazione a bordo che mi servii, così come tutti gli altri ma ultimo nel turno, prendendo con le mani da un comune grosso piatto di latta cinque olive farcite all’olio ed aglio all’uso sicilia­no (tutto l’equipaggio, capitano compreso, erano di Castellammare del Golfo) che si dovevano mangiare, senza piatto, posandole su di una galletta ed in uno con questo un pezzo di baccalà, bagnato ma crudo.

Fu la cosa più impressionante ed atroce e che veramente mi colpì abituato, come pur­troppo ero, ad essere servito in casa di mia madre su di un tavolo, se non lussuosa­mente, certo decentemente imbandito, con posaterie e cristallerie e tutti quegli ammennicoli che a casa mia avevo disprezzato ma che ora al ripensarci mi mettevano un groppo alla gola che mi impediva quasi di mangiare…

Ma intorno il mare era meraviglioso e cullava dolcemente il piccolo veliero che con tutte le vele tese al maestrale filava tranquillo al largo del Circeo verso la Sicilia e… pas­sai su tutto, pure ingoiando amaro.

Imparai a sopportare i modi inurbani e triviali dei miei superiori cioè di tutto l’equi­paggio (due giovanotti, quattro marinai, un nostromo ed il Comandante) che, specie in quei primi giorni di navigazione, pareva si fossero dati la voce per tormentarmi: mozzo di qua, mozzo di là.

Dovevo lavare i piatti, pulire ed accendere il fuoco in cuci­na, mondare le patate, lavare caldaie e pile, custodire la fanaleria di bordo e non di rado caricare ed accendere (dietro comandi bruschi, spesso accompagnati da volgaris­simi insulti) la pipa ai marinai di guardia al Timone o, peggio ancora, comodamente sdraiati in cuccetta, nelle ore di riposo.

E che dire della vita regolata dal suono della campana di quarto che ti imponeva di dormire o di montare di guardia di quattro ore in quattro ore senza alternative di giorno e di notte per giornate, settimane, mesi?

Con tutto questo riuscii però ad impormi, ciurma e comandante, con la mia volontà di lavoro, col mio spirito di sacrificio e di remissione, ma principalmente con la mia superiore educazione ed istruzione.

In quell’epoca a bordo erano tutti analfabeti e lo stesso Comandante non era che un rozzo marinaio, autorizzato ai soli viaggi lungo le coste italiane.

Quasi automatica­mente mi trovai così ad essere il segretario di tutti e ‘lo scrivano’ di bordo, perché i marinai, tutti giovanissimi, finirono col mettermi al corrente dei loro più intimi inte­ressi familiari ed ebbi l’incarico semi ufficiale di rispondere alle lettere che tutti veni­vano ricevendo, nei porti dove facevamo lunghe soste per la caricazione.

Il Capitano finì, poi, col passarmi in blocco i libri di bordo comandandomi di tener­li aggiornati.

E senza offendere la sua suscettibilità dovetti cominciare col correggere, nella trascrizione dei suoi appunti, non solo i suoi sbagli madornali di ortografia, di grammatica, di sintassi, ma anche i suoi marchiani errori di calcolo e di stima sulla posizione stessa del nostro veliero quando eravamo fuori vista dalle nostre coste.

Navigava più al capriccio del vento ed alla mercé del buon Dio che non sotto la guida del Capitano.

Con queste mie qualità e fisicamente sanissimo, dotato di una costitu­zione di ferro e di una forza molto superiore alla mia età, non mancai, in breve tempo, di impormi non facendomi passare tanto la mosca per il naso e notai che, dopo aver somministrato una superba correzione a base di solidissimi pugni ad uno dei giova­notti di bordo (quattro anni più anziano di me), il rispetto per me e per i miei musco­li servì a diluire molto il disprezzo dei marinai per il ‘mozzo scribaccino’.

S’aggiunse, poi, a questo la mia innegabile perizia nelle manovre tutte e specie nel servizio del Timone, cosicché riuscii in poco tempo ad accaparrarmi la generale fiducia.

Avevo a bordo tutti i miei libri per gli studi da Capitano marittimo, che mi proponevo di seguire da solo, e molti volumi di versi che mi piaceva mandare a memoria e decla­mare nelle lunghe ore di veglia al Timone o di guardia sul castello di prua e così, sem­pre proseguendo chimerici sogni di cose più grandi di me, la vita a bordo trascorreva operosa e passabilmente tranquilla.

E non posso dire che, nei molti viaggi intrapresi tra le Puglie, la Sicilia e la Sardegna e Porto d’Anzio, nei diciotto mesi del mio tirocinio di mozzo, il mare fosse sempre benigno col nostro piccolo veliero; per quanto le navigazioni fossero brevi e quasi sem­pre in vista delle cime dei nostri monti, purtuttavia il golfo di Taranto e le coste roma­ne ci ‘sbatterono’ più di una volta con le loro terribili tempeste che nulla hanno da invidiare a quelle dell’ampio oceano.

Ricordo che una sera di fine settembre ci trovammo a doppiare Capo Rizzuto, sulla Costa Orientale della Calabria, con vento fresco da W e mare calmissimo perché si cor­reva sotto costa a meno di duecento metri dalla spiaggia, con tutte le vele aperte al vento che ci permetteva con la nostra andatura a buon braccio a sinistra di fare comodamen­te oltre le otto miglia orarie, velocità notevolissima per un veliero delle nostre dimensio­ni.

Avevamo alla vela tutto il cotone, comprese le velette (controfiocco, stralli e controranda), cosicché il nostromo, che comandava la mia guardia e che se ne stava fumando la sua pipa napoletana a poppa presso la ruota del Timone dove io ero di ser­vizio, a un certo punto mi disse: “Roma (era il mio nomignolo di bordo) cosa ne diresti se tirassimo diritto per Gallipoli?” ed io, un po’ sorpreso “Perché, non dobbiamo anda­re a Gallipoli?”

“Sì, ma la stagione è inoltrata e, di questi tempi, quando il Golfo di Taranto imbocca i venti del Sud e Sud Est, è facile il temporale da Nord e, se questo ci sorprende a mezzo golfo, abbiamo ‘passato iiguaio’; sarebbe forse prudente poggiare su Crotone e attendere l’alba” ed io, di rimando, “Leviamo le velate, che ci impiccerebbe­ro la manovra di notte, e tiriamo diritto”.

“Bene, forse hai ragione, ma in ogni modo vado per ordini del Capitano”.

Questi, secondo il solito, riposava in cuccetta in preda ai fumi del vino di cui amava abbondantemente rifornirsi tutti i pomeriggi, e, alle parole del nostromo, rispose lasciandogli la facoltà di decidere come credesse meglio, formula ambigua, con la quale intendeva scaricarsi, almeno in parte, le sue responsabilità, e così il nostromo, appena alle diciotto tutta la gente fu in coperta, fece afferrare controfiocco stralli e controranda ed il veliero, che nel frattempo, doppiato Capo Colonna, si slan­ciava verso il centro del golfo, governò docilissimo sulla sua rotta verso Gallipoli.

Il vento era venuto più a S.W e stimammo prudente correre quasi in filo di ruota governando più al Nord in modo da trovarsi sopravento nel caso di possibili salti di vento dal Nord.

Ma il cielo era sereno, il mare quasi calmo, il vento teso e la notte tersa e stellata e nulla lasciava prevedere quello che ci attendeva tanto che il Capitano che, verso le ventidue, fece la sua rapida apparizione in coperta, aveva trovato tutto regola­re e mi aveva solo esortato a far bene attenzione alla rotta della bussola.

E così, tutto andò bene fino verso la mezzanotte quando, improvvisamente, il vento cadde del tutto lasciandoci in perfetta bonaccia, quaranta miglia circa a Nord Nord Est da Capo Colonna, cioè nel bel mezzo del Golfo di Taranto.

Ero da oltre sei ore al Timone e cominciavo a sentire il peso della fatica e tanto volen­tieri me ne sarei andato in cuccetta, ma un vago presentimento mi teneva inchiodato al mio posto cosicché rimandai a prua il marinaio che era venuto a rilevarmi; anche il nostromo, seduto presso di me, fumava e fumava ed, ora, guardava il mare che ci face­va leggermente rollare con grande sbattimento delle vele, che pendevano inerti dai pennoni, e forti stratte sui picchi delle rande, saldamente trattenuti dalle ostine.

Faceva un caldo soffocante e l’aria pareva satura di elettricità.

E fu così che un grande lampo improvviso illuminò sinistramente l’orizzonte verso Nord ed una leggera brez­za ci investì immediatamente dalla stessa direzione.

Pure, il cielo era sereno e le stelle, fulgidissime,… stavano a guardare.

Risonò, improvviso, il fischio del nostromo ed un istante dopo i pennoni calavano e le vele caricate sugli imbrogli furono tutte afferrate e rimanemmo con le sole vele di fortuna: trinchettina, randa di trinchetto (con due mani di terzaruoli), basso parroc­chetto e randa di maestra (anch’essa ridottissima con due mani di terzaruoli).

Ed era tempo, ché, non avevamo ancora finito di orientare la nostra ridottissima vela, che il groppo di vento da Nord ci fu sopra spolverando con la sua violenza il mare ed avvolgendoci immediatamente in una nebbia carica di salsedine.

Il veliero sotto lo sforzo del timone roteò su centoottanta gradi di orizzonte ed assunse la sua giusta posi­zione stringendo il vento al mascone di sinistra e presentando la prua al mare che quasi immediatamente aveva raggiunto tutta la sua furia.

Ondate gigantesche cominciarono a prenderci d’infilata da prua a poppa, rendendo impraticabile il ponte di coperta; il sibilo del vento salì al diapason, ed il piccolo scafo, tutto scricchiolii, s’inarcò sulla furia del mare tenendo valorosamente testa al vento…

Fu una lotta gigantesca che durò ore ed ore; l’alba ci sorprese tutti radunati a poppa presso la ruota del timone, intirizziti dal vento gelido e grondanti acqua di mare…

Ed il sole sorse fulgidissimo da un cielo sempre limpido e senza nubi ad illuminare la scena fantasmagorica del mare infuriato e del piccolo scafo che valorosamente conti­nuava la lotta con la furia scatenata degli elementi.

Più tardi, il cielo si oscurò sotto la corsa sfrenata di una nuvolaglia e gli scrosci di piog­gia fecero cadere il vento.

Questi, verso mezzogiorno, divenne quasi maneggevole ed il mare si placava, ormai a ridosso della costa Pugliese.

Potevamo così ristabilire gra­dualmente tutta la nostra velatura e orzare in terra sotto Capo S. Maria di Leuca, ag­guantando, in bonaccia di mare, a poche diecine di metri dalla spiaggia; poi, verso se­ra, il tempo rasserenato ci permetteva di proseguire ed il mattino dopo davamo fondo nel porto di Gallipoli.

Nelle prime navigazioni mediterranee fu questa la burrasca che più mi restò impressa per il carattere di estrema violenza degli elementi scatenati sotto un cielo sereno, pieno di stelle…

Tutte le altre tempeste, sia sulla spiaggia romana, che sulla costa Ovest della Sardegna, le ricordo sature di nubi e di umidità sotto cieli chiusi e gravidi di minaccia, con ridile infernali di lampi e di tuoni, scrosci di grandine con chicchi grossi come noci e furie di nevate che paiono investirti dal mare, mescolate alla schiuma delle onde spolveriz­zare dal vento e scroscianti sulle murate…!

E, quando, circa due anni dopo la mia prima uscita in mare, mi capitò di imbarcare su un grosso veliero alturiero pronto a salpare da Genova verso il Sud America, pote­vo orgogliosamente dire di essere quasi un marinaio, mentre, in Capitaneria, accetta­vo la mia spedizione quale “giovanotto” addetto ai servizi della camere (camerotto), qualche cosa di mezzo fra il mozzo e l’allievo ufficiale.

Enrico della Porta Rodiani, Colori nell'azzurro
Enrico della Porta Rodiani, Colori nell’azzurro

E fu per me uno dei più emozionanti giorni della mia vita quando il rimorchiatore, che ci aveva preso nella cala dei velieri a Porta Carbone, ci lasciò cinque o sei miglia fuori il Molo Giano con tutta l’immensa selva delle nostre vele tesa al vento fresco di Nord Est che ci accompagnò gradualmente, rinfrescando in fil di ruota, sulla nostra rotta verso le Baleari.

Mi ritrovai solo in mezzo ad un equipaggio di diciotto marinai giovani, ma tutti vete­rani di navigazione oceanica a vela, e con tre vecchi ufficiali di Camogli che somma­vano insieme duecento anni di età ma vantavano ciascuno oltre quaranta anni di navi­gazione velica oceanica; mi sentii piccolo e disorientato e disperai di poter arrivare a conquistare la fiducia e la stima di questi vecchi navigatori che, ai miei occhi, aveva­no le virtù dei Colombo e dei Vespucci e quasi un’arcana aureola di tutte quelle cose fantastiche ed irreali tante volte sognate e mai raggiunte.

E per prima cosa, forte della mia solidissima muscolatura, cominciai a mettere subito le cose a posto con i due giovanotti di bordo (più grandi di me) con una così salda e nutri­ta scarica di pugni (solo contro due) che il vecchio Comandante, che dall’alto del cassero assisteva alla non certo edificante scena, quando vide i miei due contendenti pesti e san­guinanti a terra, fuori combattimento, non poté fare a meno di far chiamare tutta la gente sul ponte e di farmi, al cospetto di tutti, i suoi più sperticati elogi esortando tutti ad esser­mi amici trattandosi nel mio caso non di un ‘novizio’ ma di un valente marinaio saldo ed in gamba e che, nel più breve tempo, sarebbe stato certamente un ottimo Comandante… cosa che mi riempì di orgoglio e mi spinse a fare con maggiore volontà il mio dovere.

Riuscii così in un solo giorno ad accattivarmi la stima ed il rispetto di tutti e, mentre i due giovanotti divennero i miei più grandi amici e si fecero in quattro per essermi utili, i marinai deposero le loro arie di superiorità e divennero senz’altro affezionati maestri, e, così, posso dire che, nei miei tre anni di primo imbarco su veliero di altu­ra, non ebbi più alcuno spiacevole incidente con i miei compagni di avventura e di avventure non ce ne mancarono davvero…!

E la prima si può dire che fosse quella del salpamento delle ancore nel Porto di Genova.

Il nostro ‘brigantino a palo’ di tremila Tonn. di portata era ormeggiato in andata a Porta Carbone, località del vecchio Porto oggi coperta dalle nuove banchine presso gli scali del cantiere di raddobbo, in mezzo ad un’altra trentina di grossi velieri, e fu un’avven­tura il salpare le due ancore che, date fondo da più mesi, erano rimaste imbragate dalle catene delle altre navi sopravvenute, in modo da formare un groviglio che ci tenne occupati quasi due giorni per districarcene ed, in quell’epoca, pure avendo a bordo una calderina ausiliaria per verricello di scarico e le pompe di sentina, tutte le operazioni di forza si facevano a mano, con lo `sbovo ad argano’ piazzato sul castello di prua, con le grue di capone ed il gancio pescatore.

Dopo ventiquattr’ore di lavoro, nonostante le proteste dell’armatore che paventava “superiori spese”, si dovettero sostituire gli uomi­ni dell’equipaggio, esauriti dagli sforzi sullo `sbovo ad argano’, con squadre di facchini di Sampierdarena i quali, con l’aiuto di sommozzatori e con le loro chiatte, riuscirono a recuperare ancore e catene e ad approntare il barco su ormeggi a doppino di canapa pronto al rimorchio in alto mare per la partenza e fu solo così che potemmo finalmen­te prendere il largo e bordare tutte le nostre vele al vento teso del Nord.

Puntammo sulle Baleari e, rinfrescando il vento del Nord al Nord Est, fummo in tre soli giorni a Gibilterra con una velocità media di oltre quindici miglia e, cinque gior­ni dopo la partenza da Genova, eravamo in rada a Cadice, pronti a ricevere il nostro carico di sale per il Rio della Plata.

Davo un addio al Mediterraneo e l’Oceano mi aveva salutato con la sua larga ondata e un debole vento da Sud Ovest che ci aveva accompagnato tranquillamente entro il porto di arrivo.

E la mia prima traversata atlantica si iniziò poche settimane dopo sotto lietissimi auspici, in una festa di sole, con vento teso da Nord che, quasi ininterrottamente, ci accompagnò in pochi giorni alle Canarie ove prendemmo la regolare brezza dell’aliseo di Nord Est fino alle calme equatoriali che ci impegnarono per pochissimi giorni, con scarse piogge e piccole burrasche che ci permisero di agguantare l’aliseo da Sud Est del­l’emisfero sud cosicché, in soli quaranta giorni dalla partenza da Cadice, ci presen­tammo all’estuario del Plata.

Qui una terribile `pamperata’ (vento freschissimo da Sud Ovest) ci tenne impegnati per quasi una settimana alla cappa con basse vele (bassa gabbia di parrocchetto e di maestra e trinchettina) in vista dell’isola de Lobos al largo di Montevideo.

Fummo investiti da un mare enorme con ondate superiori ai quindici/venti metri sulle quali però il nostro barco si comportava valorosamente e si risollevava rollando restituendo volta per volta al mare l’enorme massa di acqua che perennemente sommergeva la coperta.

Non ci fu più possibile raggiungere la casetta di prua tra trinchetto e maestra dove erano le nostre cuccette, altro che dal piccolo boccaporto superiore, avventuran­doci su una passerella di fortuna che l’univa al cassero di poppa, oltre due metri al di sopra della coperta, ma che era anch’essa più volte spazzata dai colpi di mare.

Con gravissimi rischi e legati con cime per non essere travolti in mare dalla furia delle onde, si dové pensare a `stralingare’, cioè a solidamente legare tra loro da un lato all’al­tro della nave le sartie ed i paterazzi per impedire la caduta degli alberi che, nello spa­ventoso rullio (superiore anche al quarantacinque per cento per lato, causato sia dalla violenza del mare che dalla pesantezza stessa del carico di sale) minacciavano ad ogni istante di schiantarci e di precipitare, e così pure toccò a noi giovanotti inerpicarci più volte a riva sui pennoni di velaccio e di contro per assicurare, con urli suppletivi di rinforzo, il cotone delle vele che minacciavano di essere strappate dalla furia del vento benché ben chiuse sui pennoni.

E potete immaginare quale ginnastica fosse necessaria per raggiungere e tenersi sospe­si ad oltre quaranta metri di altezza abbrancati ai pennoni con i piedi nudi segati dal piccolo marciapiede di corda, scrollati dal rollio della nave che saettava la sua albera­tura in cielo su di un arco di oltre novanta gradi.

Notai, con una certa apprensione, che gli alberi si torcevano sotto lo sforzo da un lato all’altro prima di iniziare la corsa inversa della rollata; pareva che, da un momento all’altro, sartie e paterazzi dovessero saltare e tutto precipitare e perdersi nel baratro immenso del mare che muggiva qua­ranta metri sotto i nostri piedi.

Ma la lotta con la brutalità degli elementi fu vinta dalla perizia e dal coraggio dei navi­gatori e dall’ottima costruzione della nave che, pochi giorni dopo, imboccava, con tutte le sue vele a riva, in una festa di sole, tra l’allegro stridio di frotte di gabbiani sulle acque giallastre del Plata, il grande canale di Boe da Montevideo a Buenos Ayres e, poche ore dopo, a quarantotto soli giorni dalla partenza da Cadice, dava fondo nei Doks del Porto di Buenos Ayres.

Ma quale era la vita a bordo di questi grandi velieri?

Tagliati fuori da ogni e qualsiasi contatto col mondo, navigando su rotte lontane da quelle dei Piroscafi, si può dire che erano ‘ingoiati nel nulla’ dal quale si usciva solo in prossimità dell’atterraggio presso il porto di arrivo.

Sensazione di isolamento curiosissima e che non è esprimibile a paro­le.

In quell’epoca, la radio era ancora di là da venire e la preoccupazione principale era quella di ‘dare la corda’, cioè ricaricare, tutte le mattine, i cronometri di bordo (due o tre) che permettevano di fare, con una certa esattezza, il punto di longitudine, men­tre, per la latitudine, si osservava solo l’altezza meridiana del sole; ma, nei giorni nuvo­losi e peggio ancora nelle tempeste che molte volte duravano giorni e settimane, nes­suna osservazione era possibile e si doveva navigare col punto stimato sui tre elemen­ti: rotta vera, velocità e tempo su ogni rotta, tenendo conto che la rotta vera poteva variare per manovre o per salti di vento ecc., mentre il coefficiente velocità aveva scar­ti considerevoli secondo le andature, la forza del vento, le vele che si potevano tenere a riva e doveva inoltre essere stimato con mezzi primitivi e con l’apposito solcometro che dava però sempre dati molto approssimativi.

Nessuna meraviglia, quindi, se, in una usuale traversata Atlantica calcolata sulla durata media di due mesi, si riscontravano differenze di rilevamento agli atterraggi anche di die­cine di miglia, cosa che rendeva prudentissimi i Comandanti negli atterraggi stessi.

A bordo la vita era regolata dalla solita campana di quarto che, di quattro ore in quat­tro ore, scandiva il lavoro ed il riposo dell’equipaggio, diviso in due guardie, una del capitano e l’altra del primo ufficiale o scrivano.

La disciplina era ferrea e la subordinazione graduata non solo secondo gli incarichi speciali del servizio a bordo ma anche determinata dalla anzianità di navigazione altu­riera (fuori degli stretti) e, per questo, noi ‘giovanotti’ eravamo gli ultimi della scala sociale dell’equipaggio composto di ventidue persone, comandante incluso.

E cosa dire del vitto di bordo?

Si era ancora, sotto questo riguardo, allo stesso punto dei navi­gatori dell’epoca. di Colombo…

Base del vitto le patate che ci erano scodellate in più forme ma in tutti i pasti, anche alla colazione del mattino, in uno col tè o col caffè, arrostite intere nel forno sotto brace, con tutta la buccia.

A mezzogiorno, imperava la pasta asciutta alla napoletana con conserva di pomodoro e pasta all’acqua fatta in casa sotto forma di gnocchi o trenette al pesto alla genovese: secondo piatto patate e patate, raramente miste con uova (che si mantenevano in bari­li sotto calce); il pasto serale consisteva in pasta corta in brodo vegetale ricavato da un misto di erbe che si mantenevano secche in scatole di latta ex petrolio (venticinque chili).

Due volte la settimana, carne salata americana (pennicam) in umido con pata­te; qualche volta trippa salata, baccalà in umido, sempre con patate.

Queste erano la cosa che veramente abbondava ed erano mantenute in apposito locale (a poppa), tutto diviso in cuccette di rete metallica, dove le patate dovevano essere spesso rimosse e ripulite dalle cicciature (lavoro improbo che, purtroppo, era riservato a noi giovanot­ti durante il periodo giornaliero di riposo della nostra guardia e, spesse volte, in puni­zione delle nostre più piccole mancanze).

A disposizione di tutti, erano invece sempre le gallette, in un testone a doppio coper­chio appeso ad un gancio del soffitto, all’ingresso della casetta dell’equipaggio che era compito di noi giovanotti di mantenere rinnovato e ripieno, cosa non troppo facile in quanto ché eravamo sempre noi che, a tutte le ore del giorno e della notte, ci preoc­cupavamo di rivuotarlo.

Le gallette erano mantenute a poppa in grandi cassoni di ferro a scompartimenti, usi cassettoni, dei quali si saldavano i bordi di chiusura con grandi strisce di carta incollata per impedire il più possibile il contatto con l’aria, precauzio­ne che però, nonostante tutte le cure di noi giovanotti, si dimostrava vana tanto che, dopo un paio di mesi, quasi tutte andavano a male e vi si producevano dei grossi vermi biancastri che, molte volte, fuoruscendo dalle loro cavità, riuscivano a far muovere una galletta poggiata su di un tavolo!!!

In queste condizioni, esse dovevano essere accura­tamente battute per sgrullarne fuori la maggioranza dei vermi e renderle commestibi­li così da non sentire sotto i denti il molle appiccicaticcio dei vermi stessi che non erano però dannosi alla digestione e che, specie noi giovanotti, ingozzavamo senza andare tanto per il sottile!!

Per l’acqua potabile, vi erano al centro, in stiva, drizzate intorno all’albero di maestra, due grosse casse da due tonn. ciascuna ed altre due della stessa portata in casetta, ed era anche cura di noi giovanotti rifornire e mantenere pieno, a mezzo apposita pompa a mano, le due botticelle di legno rizzate presso l’osterigio della camera sul cassero: da queste botticelle si poteva bere a mezzo di un corno di bue, assicurato, con una cate­nella di ottone, a lato di ogni botticella.

Era rigorosamente proibito asportare sia pure un solo cornetto di acqua che si doveva bere sul posto: se si prevedeva che la naviga­zione potesse prolungarsi oltre il previsto, le botticelle erano chiuse con lucchetti di cui lo stesso comandante deteneva la chiave e si doveva bere aspirando l’acqua da un beccuccio di legno fisso sul coperchio delle botti stesse.

Anche l’acqua, dopo circa un mese, si riempiva di vermi multicolori che duravano però solo pochi giorni; poi si ‘chiarificava’.

I vermi morivano tutti, depositandosi in uno spesso strato sul fondo delle casse e l’acqua tornava limpidissima ma con un nau­seabondo odore al quale purtroppo non restava che abituarsi.

Ma anche così vermi­nosa e purificata, non era affatto dannosa alla salute; si manteneva potabile fino a che, nelle grandi piogge equatoriali, si provvedeva allo svuotamento delle casse (una per volta) ed all’accurata pulizia del deposito dei fondi ove i vermi si erano disfatti in una poco aulente poltiglia multicolore (altro ingrato lavoro di noi giovanotti): si riempivano, poi, convogliandovi le acque piovose, accuratamente raccolte dalla grande vela di maestra che, con calma di vento, si manteneva tesa sulle scotte rovesciate a prua, sul pennone di trinchetto, in modo da raccoglierne la massima quantità su tutta la sua immensa superficie (circa duecento mq.).

Ma, per lavarsi, acqua di mare e solo acqua di mare!!

In quei tempi non esistevano sapo­ni solubili ed era quindi necessario contentarsi di farlo come si poteva e tenere in appo­siti sacchi la biancheria sporca.

Per gli abiti, poi, questi acquistavano una patina caratte­ristica di lordura a base di catrame, sego e sudiciume, fino al punto che i normali calzo­ni di grossa tela da marinaio riuscivano a reggersi da soli irrigiditi ed induriti sotto una scorza di luridume.

E, naturalmente, dopo il primo mese di navigazione (se ne frattem­po, come spesso accadeva, non si prendeva qualche provvidenziale piovasco che permet­tesse di lavarsi e lavare anche in parte i nostri indumenti) facevano la loro comparsa i primi pidocchi e le prime cimici che, dilagando nell’abitacolo, rendevano molto proble­matico il riposo in cuccetta ed era solo la stanchezza del brutale lavoro di bordo che ci faceva dormire senza dolerci dei parassiti che ci divoravano vivi!!

E non c’erano allora insetticidi che liberassero da questa piaga: si aspettava solo con ansia qualche improvviso piovasco e si sperava molto in quelli delle calme equatoria­li, di violenza tanto straordinaria che, più di una volta, con bonaccia di mare e di vento, permettevano, con l’otturazione degli ombrinali, l’allagamento totale della coperta che si tramutava in piscina e nella quale sguazzavamo per ore per le lavande personali e dei singoli corredi.

Alle volte, però, non si riusciva nemmeno così a vincere la terribile invasione dei paras­siti ed allora, per quanto a malincuore, il comandante, specie se anche i suoi indu­menti pullulavano di insetti immondi (e più di una volta eravamo noi giovanotti che ne curavamo l’innesto dai nostri alloggi a quelli degli ufficiali) dava ordine di accen­dere la calderina con la quale si provvedeva alla radicale distruzione di tutti gli insetti immettendo il vapore d’acqua entro botti accuratamente riempite di tutti ì nostri indumenti e lavando anche le murate interne degli abitacoli e le cuccette di prora e di poppa con potenti getti.

Altra piaga di bordo i topi che imbarcavano allegramente dalle cime di ormeggio in tutti i porti e si moltiplicavano in modo impressionante rosicchiando quanto gli capitasse sotto i denti; contro questo nemico tutti i mezzi erano di continuo in moto, trappole di ogni tipo anche d’invenzione individuale e gatti, di cui a bordo c’era sempre grande abbondanza in quanto usavamo rifornircene con apposite spedizioni nelle ultimissime ore di permanenza in porto e che molte volte, specie quando si ingrassavano nella como­da vita di bordo dove non facevano che mangiar topi e dormire, finivano in cucina sotto forma di lepre in salmi e davano una gradita variante, con ottima carne fresca di un gusto dolciastro simile, ma molto superiore al comune coniglio, alla nostra solita mensa.

Come lavoro vero e proprio, le necessarie manovre delle vele, orientate secondo lo scarto del vento per ottenere sempre la massima velocità nella voluta direzione, face­vano parte del normale travaglio che assorbiva il completo equipaggio specie nei perio­di di navigazione nelle zone dei venti variabili, mentre negli alisei dell’Atlantico e nei monsoni dell’Indiano e del Pacifico, si navigava per settimane e per mesi con le stesse mure, limitando la manovra al tesamento serotino dei bracci dei pennoni che duran­te il giorno venivano in bando col calore del sole.

Solo raramente, la sera, rinfrescan­do il vento, si imbrogliavano le piccole vele per non rischiare di perderle in improvvi­si groppi di vento durante la notte.

Vi era poi il lavoro di manutenzione delle pitture, badandosi sempre a ricoprire tutte le superfici in legno o di ferro o esposte al continuo logorio del vento e della salsedi­ne marina (compito principale di noi giovanotti) e, quello, affidato ai più esperti mari­nai, di ispezione e manutenzione di tutte le manovre fisse e volanti perché non venis­se a mancare la loro resistenza nel momento della necessità; specie la notte nelle vio­lente tempeste che di tanto in tanto ci investivano, sempre improvvise, dovendo, in quei tempi, ogni capitano affidarsi solo alla sua personale esperienza e conoscenza della zona in cui si navigava ed all’osservazione del barometro e del termometro.

Anche sotto questo punto di vista la navigazione velica alturiera dell’epoca non si era per nulla spostata da quella dei navigatori del Quattrocento (Colombo, Vespucci, ecc.).

In porto, poi, tutto il lavoro di carica e di discarica gravava sulle spalle dell’e­quipaggio che si prodigava con otto dieci e più ore giornaliere gravissime con facoltà di scendere in terra solo al tramonto e fino alla mezzanotte, ovvero la domenica, gior­no in cui si riposava.

In navigazione, poi, ogni lavoro cessava quando il veliero dove­va, per forza di vento e di mare, navigare alla ‘cappa’ con le sole basse vele.

Con questo pò pò di fatica le paghe erano tali da far ridere al solo ripensarci; il Comandante non aveva più di centocinquanta lire mensili, centodieci il primo uffi­ciale, ottanta il nostromo, sessanta i quattro marinai timonieri, cinquanta i marinai comuni, quarantacinque i giovanotti e trenta il mozzo (quando c’era).

Queste paghe erano aumentate di ben cinque lire pro capite ed al mese, quando si doppiavano i Capi Horn e Buona Speranza, cioè nelle navigazioni dell’Oceano Indiano e del Pacifico!!!

Il vitto però era a conto dell’Armatore.

Eppure, i marinai italiani dei grandi velieri oceanici tenevano alto l’onore della nostra bandiera nelle più lontane contrade ed erano nominati in tutte le marinerie come i più sobri, i più onesti ed i più volonterosi del mondo; non solo, ma gli armatori esteri di tutte le nazionalità, compresi gli inglesi, ci tenevano immensamente ad avere negli equipaggi dei loro grandi velieri elementi italiani, specie nostromi e timonieri, cioè proprio di quelle categorie sulle quali ricadevano le maggiori responsabilità della buona riuscita di tutte le traversate.

Nei tre anni del mio primo imbarco traversai quattro volte l’Atlantico e circumnavi­gai il globo dal Sud America al C. Buona Speranza all’Isola di Giava, all’Australia e di là al Cile rientrando in Europa per il Capo Horn, con carico di salnitro.

E fu in quest’ultimo viaggio che, rimontando l’Atlantico in Emisfero Nord con bricia da N.E. scarsissima ed avendo dovuto fronteggiare un tremendo uragano dalla stessa direzione che ci aveva tenuti impegnati per oltre dieci giorni, finimmo con lo scadere tanto ad Ovest da trovarci nel bel mezzo del Mare dei Sargassi, in perfettissima calma di vento e di mare.

Eravamo in navigazione già da oltre sei mesi e il nostro scafo, sbat­tuto da oltre quaranta giorni di tempesta sul C. Horn e dall’ultimo uragano che ci aveva abbandonato in mezzo ai Sargassi, faceva tanta acqua che non si riusciva a vin­cerla se non pompando a mano con mezzo equipaggio per oltre tre ore al giorno.

La situazione era critica e, per maggior guaio, eravamo scarsi di acqua potabile e di viveri tanto che il comandante radunò il consiglio degli ufficiali e degli anziani per decidere sul da farsi.

Al consiglio partecipai anche io che, in partenza dal Cile, avevo avuto finalmente la prima spedizione da terzo ufficiale (allievo) e si stabili di tentare di fare emergere le falle, prodottesi al secondo e terzo comento al centro sulla murata di destra con lo sbandamento della nave, spostando parte del carico e, da ultimo, con un allibo, cioé gettando in mare circa trecento tonn. delle tremila del carico.

Riuscimmo così a cala­fatare i comenti superiori ed ad aumentare il bordo franco di modo che aumentò il respiro dello scafo e l’acqua calò in stiva fino a poterla vincere con una sola ora di pompa a mano.

Cosicché, calcolando che alla riprese del vento avremmo potuto met­tere in moto di nuovo anche il grande mulino della pompa a vento di sentina, fummo rassicurati sulla buona tenuta del nostro scafo.

Intanto nella più perfetta bonaccia procedemmo al raddobbo di tutte le nostre vele più o meno malconce od a brandelli ed una parte dell’equipaggio poté, anche dall’ester­no, con lance e zatterini, procedere al raschiamento della carena che, immersa da oltre sei mesi, si era ricoperta di denti di cane e vegetazione di alghe parassitarie che ci dimi­nuivano di molto il cammino.

Con tutti questi lavori passò senza accorgercene quasi un mese, ed in questo le correnti ci spostarono al sud con una velocità costante di circa tre miglia ogni ventiquattro ore, in modo che, quando, dopo giusto un mese, ripren­demmo il primo alito di vento, eravamo circa novanta miglia a sud del punto di arri­vo cioè avevamo fatto, effettivamente, novanta miglia indietro nella direzione della nostra rotta verso le coste inglesi della Manica.

Intanto avevamo dovuto mettere a razione l’acqua, cosa poco piacevole per chi era costretto a lavorare sotto la sferza dell’implacabile sole tropicale, mentre nulla aveva­mo più a temere per i viveri in quanto le gallette abbondavano, le patate erano suffi­cienti per almeno altri tre mesi ed avevamo dovuto proibire la pesca dato che i marinai si erano preoccupati, con ogni mezzo, di catturare quintali di pesce, di cui il mare era tutto intorno ricchissimo, riempiendo tutti i recipienti ed i barili disponibili a bordo di tonno salato che risultò veramente squisito.

Fu dunque precisamente dopo un mese di calma piana che una leggerissima bava di vento da Sud ci permise di bardare di nuovo tutto il nostro cotone e governare verso nord est con vento buon braccio a dritta tendente a rinfrescare.

E fu verso mezzogiorno che nella striscia bruciata dal riverbero del sole si profilò improvvisamente lontanissima la sagoma dell’alta velatura di un grosso bastimento che avanzava da sud tanto veloce che ci faceva sperare in un buon vento sempre più fre­sco.

Ma, quando la nave fu a cinque/sei miglia da noi, la vedemmo orzare in modo da scoprirci la sua bandiera a mezz’asta ed il segnale di soccorso a riva all’albero di mez­zana.

Bracciammo immediatamente in ‘panna’ sulla maestra ed apprestammo la gran­de baleniera sulle gru; mezz’ora dopo il barca era cinquecento metri sotto vento e si metteva in panna mentre con una serie di segnali ci comunicava che a bordo erano tutti malati di scorbuto ed avevano quattro morti in coperta.

Si trattava della Nave a Palo ‘Lady Wolseley’ di Glasgow di seimila tonnellate proveniente da S. Francisco di California con carico di grano per il Nord Europa e ben undici mesi di navigazione!

Ero l’unico che a bordo capisse qualche parola di inglese ed il comandante mi affidò il comando della baleniera; con quattro marinai raggiunsi in breve la nave che, nel frattempo, aveva ammainato la scala reale del cassero.

Il mare era in perfetta bonaccia ed il vento maneggevole favoriva la panna delle due navi perfettamente immobili.

Appena in coperta mi trovai in piena tragedia; venti larve di uomini erano ammassa­te sul vasto boccaporto di poppa, più o meno stesi su sudici strapuntini ridotti a sche­letri viventi, con la bocca contorta dalle pustole sanguinolente dello scorbuto; molti dovevano avere la febbre che s’indovinava dalla fissa delle pupille, unica cosa viva in quelle facce devastate dagli spasimi del male.

Sul cassero il Comandante, la moglie e tre ufficiali, tutti malati, e là sul boccaporto di maestra, quattro forme allungate coperte da lenzuola: i quattro morti.

Il Comandante visibilmente commosso e quasi piangente dopo avermi ringraziato a nome di tutti, mi spiegò in poche parole la situazione: da oltre due mesi avevano esau­rito la provvista delle patate e le compresse di limone, unica altra cura di questo ter­ribile male, erano anch’esse esaurite da qualche giorno; inoltre il male stesso, inacer­bato dal vitto che per forza maggiore si era ridotto a solo gallette e carne salata con pochissima acqua perché anche questa da tempo razionata, in quella stessa mattina aveva mietuto le sue prime vittime; ma la sorte di rutti sarebbe stata inesorabilmente segnata entro pochissimi giorni senza il nostro provvidenziale e quasi miracoloso incontro, in quel mare di Sargassi tristemente famoso per la sua solitudine che ne fa un vero ed immenso deserto.

Lo assicurai che avremmo fatto il possibile, benché anche noi in mare da sei mesi e con la previsione di altri due mesi di navigazione, non pote­vamo certo privarci di quanto ci era strettamente necessario e, come acqua non pote­vamo dargliene purtroppo nemmeno una goccia, essendo anche noi a razione.

In ogni modo la baleniera che avevo rispedito a bordo, fu presto di ritorno con un pacco di venticinque chili di ‘pasticche di limone’ (più della metà della nostra prov­vista) e circa cinque quintali di patate e di questo feci fare subito un abbondante dis­tribuzione, poi con i nostri marinai, aiutati da quelli di bordo meno contagiati dal male, dovetti provvedere al poco gradito compito di dare sepoltura in mare ai loro quattro morti, pietosamente ravvolti in sferzi di tela di vele ben cucita e con pesi di ferro ai piedi.

La moglie del comandante, benché squassata dalla febbre e dall’emo­zione, volle anche ufficiare le ultime preghiere di morti.

Quando ci accomiatammo da tutti in un emozionante saluto con cui quei poveretti vollero ringraziarci di quanto avevamo fatto per loro, tutti erano già visibilmente migliorati per l’effetto sorprendente delle patate mangiate crude e delle ‘pasticche di limone’ e già andavano scomparendo le chiazze rosse dei loro volti e le stesse pustole sanguigne presso la bocca.

Tra le grida di addio dell’equipaggio, la bandiera inglese del magnifico quattro alberi si abbassò per prima, non tre, ma più volte a salutare il piccolo barco italiano cui dove­va certamente la salvezza e la vita, mentre bracciavamo a segno i pennoni per ripren­dere la nostra rotta; e ben presto il lady Wolseley molto più lento dì noi, non fu che un punto laggiù di poppa nel lontano orizzonte sull’immensità sconfinata dell’Oceano su cui la brezza veniva via via rinfrescando.

Circa un mese dopo, risalita la Schelda a rimorchio di un rimorchiatore olandese che gli armatori ci avevano mandato incontro fino alle secche di Dugenes, subito dopo il canal della Manica, ormeggiavamo in Africa dok in Anversa.

D’ordine del Comandante, scrissi subito in Inghilterra agli armatori della nave inglese e questi risposero impressionatissimi della nostra relazione ma comunicandoci che ancora nes­suna notizia avevano del loro barco partito da S. Francisco da oltre un anno!!

Ma venti giorni dopo, lì ad Anversa, ricevemmo dall’Inghilterra il telegramma d’arri­vo del Comandante che poco tempo dopo, trovandosi con la sua nave a Rotterdam, venne personalmente con la sua signora ad Anversa, non solo per sdebitarsi con i nostri armatori per l’assistenza da noi prestatagli in mare, ma anche per ringraziare il nostro vecchio Comandante e l’intero equipaggio a nome di tutti i suoi subalterni.

Nei tre giorni che si trattenne in Anversa io fui naturalmente il più festeggiato e dovetti, mio malgrado, subire tutte le infinite gentilezze e le attenzioni del Comandante e di sua moglie che mi vollero ospite e compagno nella loro permanenza in Anversa.

Partimmo da li circa due mesi dopo carichi di ferro vecchio per rimpatriare a Savona dopo sommarie riparazioni e calafataggio in bacino.

Ma non era scritto che io dovessi rimpatriare con quel bastimento.

Pochi giorni appresso la partenza, dopo aver disce­so la Manica con vento fresco da Nord Ovest, iniziammo la traversata del Golfo di Guascogna dove incappammo in una di quelle orribili tempeste, tipiche di quella loca­lità, che in poche ore ci gettò in mare l’alberatura completa e, a seguito di ore di lotta mortale, ci ridusse un misero rottame sballottato dalla furia del mare e semi sommer­so dall’acqua in stiva che non riuscivamo ormai a vincere con le pompe a mano, tanto che dovemmo accendere la calderina e mettere in moto la pompa a vapore che riusci­va, però, per il momento, solo a mantenere il livello dell’acqua in modo da non affon­dare.

In queste condizioni rimanemmo per otto giorni in balia del mare con il terro­re di non poter nemmeno abbandonare il nostro rottame dato che tutte le nostre lan­ce erano state asportate dalla furia delle onde e non avevamo alcun modo di poter fare una zattera per salvarci e fu solo dopo otto giorni che, bonacciandosi il mare, potem­mo aprire i boccaporti iniziando l’allibo in mare del nostro carico di ferro.

E, nell’angosciosa preoccupazione del nostro lavoro da cui dipendeva momentaneamen­te la nostra salvezza, quasi non ci accorgemmo di un grosso vapore mercantile che, pro­venendo da Sud, ci aveva messo la prua addosso; era fortunatamente una grossa carret­ta italiana, anzi di armatori di Camogli, in rotta verso l’Inghilterra per caricare carbone.

Ci raggiunse, ci girò intorno e manovrò in modo da poter prendere le nostre gomene di rimorchio.

Poi, a bordo del nostro rottame rimasero solo il Comandante e quattro mari­nai per i servizi del timone, e fra questi io, e gli altri passarono tutti sulla lametta.

Tre giorni ed eravamo a Falmouth ed una settimana dopo in cantiere a Londra.

Sbarcai e me ne ritornai in treno a Roma a casa dei miei genitori.

Avevo ventuno anni compiuti e circa cinque anni di navigazione velica, dei quali tre oceanica.

La mia classe era sotto le armi da oltre un anno e dovetti presentarmi per il servizio militare, alla Caserma Reale equipaggi della Spezia.

Dichiarato idoneo e classificato allievo timoniere, dopo un breve corso al Varignano, imbarcai sulla FL Nave Scuola `Palinuro’, piccolo brigantino da cinquecento tonnellate che dava ancora l’illusione di essere un veliero e dove iniziai la seconda parte della mia avventurosa carriera”.

Enrico della Porta Rodiani Carrara