Agassiz (ovvero dominare un secolo ed essere assolutamente dimenticati)

2017, nel giorno dedicato a sant’Eleuterio di Auxerre

Primi anni Cinquanta.
Tra le mani, una edizione antica del ‘Piccolo Atlante De Agostini’.
Il nome, chissà perché, mi attira e leggo di Winnipeg.
Manitoba…
Canada…
L’Assiniboine…
Il Red River – non l’affluente del Mississippi, quello del Nord, della canzone…
I laghi ad ovest del Superiore…
Il freddo…
Di più, il gelo…
I pellirosse delle canoe, non dei mustang…
Terre lontane…
Misteriose…
E, fra le righe, un timido accenno, en passant, a una distesa d’acqua immensa – più grande addirittura, e d’un buon quarto, del Caspio! – d’altri lontanissimi tempi.
Agassiz, così era stato chiamato dagli scienziati quello specchio dissolto.
Sapete com’è, vero?
Scoperto il nome, m’occorre invariabilmente conoscere il come e il perché.
Fu così – attraverso successive e per me ineludibili ricerche – che ebbi prima e dipoi definitiva contezza della figura gigantesca e dell’opera immane di Jean Louis Rodolphe Agassiz (appunto) – svizzero del Canton Friburgo e successivamente americano – studioso di fama mondiale per tutto l’Ottocento e già all’epoca della mia lettura, salvo recessi scientifici, completamente dimenticato.
Erano quelli nei quali Agassiz era vissuto (e i seguenti fino al secondo dopoguerra novecentesco) decenni nei quali lo studio, le capacità intellettuali, la cultura, le scoperte scientifiche e di ogni tipo e non l’apparenza e le futilità d’oggigiorno rendevano ovunque famosi e degni d’ossequio.
Studioso, promotore e partecipe di ricerche sul campo ed esplorazioni.
Docente universitario dapprima nella terra natale che lo aveva nutrito e formato e in seguito – negli Stati Uniti con lui generosi – anche ad Harvard.
Teorizzatore delle ere glaciali, ittiologo, zoologo, paleontologo, geologo i cui studi costituiscono ancora oggi le fondamenta in tutti questi campi, il Nostro.
E ricordo con quale disagio avevo accolto verso la fine degli Ottanta del Novecento l’apparizione di un tennista americano capelluto e maleducato che si chiamava Agassi.
Andre Agassi.
Avrei davvero voluto cambiasse casato.
E il piacere che mi fece vedere questo usurpatore (quasi) di tanto cognome perdere clamorosamente la finale del 1990 del mitico Roland Garros parigino contro il grande Andres Gomez, il cui volto scolpito palesava chiare e nobili ascendenze incaiche.
E, successivamente, il compiacimento per l’incredibile trasformazione nel trascorrere degli anni del campione.
Calvo e composto, educato e perfino colto, infine, perché in qualche modo conscio del pressoché omonimo scienziato, mi chiesi?
Spero – tutto ciò scritto nel giorno dedicato a sant’Eleuterio di Auxerre del 2017 – che di Agassiz, per mio tramite, si rinnovi e resti traccia.
Questo mi auguro nel chiudere il mio odierno vergare.

Mauro della Porta Raffo