L’eredità storica del Processo di Tokyo

Il 12 novembre del 1948 si concluse il lavoro del Tribunale Militare Interazionale per l’Estremo Oriente, comunemente conosciuto come “il Processo di Tokyo”, il quale, in termini di trasparenza delle procedure giudiziarie, è oggi largamente considerato – tanto dagli storici, quanto dai più autorevoli esperti di diritto internazionale – come fondamentalmente “difettoso” e prevenuto nei confronti degli imputati.

I presunti colpevoli furono suddivisi in tre distinte categorie: criminali di Classe-A, B e C. All’interno della Classe-A erano ricompresi i crimini contro la pace e di cospirazione per scatenare una guerra d’aggressione (considerati i più gravi); la Classe-B riguardava i crimini di guerra convenzionali, mentre nella Classe C-erano sanzionati i crimini contro l’umanità.

Il “Processo di Tokyo” si focalizzò soprattutto sulle accuse e sul giudizio dei criminali di Classe-A, mentre la maggior parte dei processi alle personalità minori – accusate di aver compiuto i crimini delle Classi-B e C – si svolsero separatamente in diverse città del Sud-Est asiatico.

Al termine dell’iter giudiziario, 25 dei 28 imputati – fra militari e civili – furono dichiarati colpevoli, dei quali sette vennero condannati a morte per impiccagione e sedici condannati all’ergastolo.

Due degli imputati morirono prima che si arrivasse a sentenza e un ultimo venne ritenuto mentalmente incapace e, conseguentemente, inidoneo a stare sul banco degli imputati.

Nonostante la maggioranza dei giudici fosse concorde sul fatto che molti degli accusati erano colpevoli di cospirazione per mettere in atto una guerra d’aggressione in tutta l’area dell’Asia-Pacifico, permangono a tutt’oggi, quasi settant’anni dopo, forti dubbi sul fatto che le prove allora presentate fossero sufficienti a supportare un tale verdetto.

Prevedibilmente – come spesso accade durante questo tipo di processi, molto poco giuridici, e molto politici – gli 11 magistrati che componevano la giuria erano di opinioni profondamente divergenti, e molti dei verdetti di colpevolezza furono pronunciati per un solo voto di scarto.

Con una decisione controversa, che avrebbe fatto discutere gli storici nei decenni successivi (1), l’Imperatore Hirohito non fu incriminato né chiamato a testimoniare, nonostante la Costituzione Meiji gli riservasse la posizione di Capo dello Stato e Comandante in Capo di tutte le forze armate (2).

A dire il vero gli imputati, in particolar modo il Generale Tojo Hideki (Primo Ministro dal 1941 al 1944), furono appropriatamente “istruiti” a non coinvolgere né compromettere Hirohito con le loro dichiarazioni, e le deposizioni rese che avrebbero potuto farlo furono prontamente eliminate dalla documentazione processuale.

Tojo, fedele all’Imperatore fino all’ultimo dei suoi giorni, si assunse delle responsabilità che molti storici, in realtà, ritengono fossero da attribuire a Hirohito.

Nel 1978 quattordici dei criminali di guerra di Classe-A vennero segretamente – addirittura a insaputa dell’Imperatore Hirohito, all’epoca ancora assiso sul “Trono del Crisantemo” – santificati all’interno del santuario shintoista Yasukuni Jinja a Tokyo dove, a partire dal XIX secolo, vengono commemorate tutte le vittime che hanno perso la vita in guerra per la patria (3).

Secondo il clero shintoista, inoltre, vi furono più di 1000 persone ingiustamente “marchiate” come criminali di guerra e giustiziate dopo essere state processate dagli Alleati: questi condannati a morte sono stati ribattezzati “i martiri Showa(4), ovvero i criminali di Classe-B e C perseguiti legalmente nei tribunali militari sparsi per tutta l’Asia alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Il “Processo di Tokyo” produsse una cornucopia d’informazioni circa gli abusi e i crimini commessi dall’Armata Imperiale giapponese durante il periodo bellico.

Per molti cittadini nipponici, la copertura mediatica riservata ai procedimenti legali intentati nei confronti dei loro leader rappresentò la prima occasione di trovarsi di fronte alla macabra realtà di una guerra che essi erano stati indotti a credere si fosse trattato di una nobile missione intesa a liberare l’Asia e gli asiatici dal giogo dell’imperialismo occidentale.

La guerra in Cina, il vero centro delle ostilità, veniva vividamente e accuratamente descritta, negli atti processuali, come una guerra d’aggressione e di conquista, nella quale furono compiute spaventose atrocità, in particolare il “Massacro di Nanchino”, messo in atto tra i mesi di dicembre e gennaio del 1937-38.

All’epoca, gli editoriali dei principali quotidiani giapponesi appoggiarono i processi penali in corso, rispecchiando la rabbia diffusa dell’opinione pubblica per le sofferenze che la leadership politica e militare, col suo comportamento irresponsabile, aveva inflitto al Giappone.

Certamente gli Alleati cercavano vendetta ma, allo stesso tempo, la chiedevano tanti cittadini giapponesi, che incolpavano i loro governanti per come, a guerra finita, avevano trovato distrutte le loro città e le loro vite.

Inoltre, coloro che erano al corrente delle modalità con le quali la giustizia veniva amministrata dal Giappone nelle sue colonie e nei territori occupati, sapevano che il “Processo di Tokyo”, per quanto assai carente di garanzie nei confronti degli imputati, non era certamente l’unica e più grave “parodia” del diritto mai verificatasi.

Ciò detto, va sottolineato che, anche in occasione del Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente, la “giustizia dei vincitori” ha colpito un’altra volta.

Come anticipato, il “Processo di Tokyo” non brillò certo per la trasparenza nella conduzione delle attività sia istruttoria che decisoria, e si risolse, di fatto, in un processo di natura politica, non giuridica.

Con le condanne a morte o all’ergastolo decretate dalle sentenze, furono tolti di mezzo i personaggi del vecchio establishment ritenuti meno “utili” in chiave di occupazione e ricostruzione americana, mentre altri, ugualmente responsabili, ebbero salva la vita in cambio di informazioni riservate o, comunque, ritenute “sensibili” dallo Stato Maggiore statunitense.

Per comprendere la pochezza giuridica di molti degli argomenti addotti a carico degli imputati del “Processo di Tokyo” è sufficiente andare a rileggere le opinioni dissenzienti – rispetto a quelle dei giudici occidentali – del magistrato indiano Radhabinod Pal, che faceva parte del corpo giudicante.

Pal, infatti, mise in evidenza la scarsa trasparenza delle procedure giudiziarie, la mancanza di competenza e di reputazione della Corte in materia di diritto internazionale e il contesto coloniale nel quale si era svolto il conflitto (5).

Il giudice indiano, inoltre, censurò l’insuccesso del “Processo di Tokyo” nel giudicare i crimini di guerra commessi dagli Alleati, in particolar modo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki.

Se, dunque, sarebbe inesatto affermare che Radhabinod Pal assolse tout court l’Armata Imperiale del Giappone dall’aver compiuto i più svariati crimini di guerra, certamente si può dire che egli mise fortemente in dubbio la legittimità del Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente a giudicare i casi davanti a esso sollevati.

Il “Processo di Tokyo” a conduzione americana, che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto individuare solamente le responsabilità per i crimini di guerra compiuti durante il conflitto del Pacifico, ha lasciato dietro di sé un’ironica eredità storica, avendo spianato la strada all’istituzione della Corte Penale Internazionale, che gli Stati Uniti non riconoscono e alla quale rifiutano di prendere parte.

Nihil novi sub sole: da sempre, e per sempre, la Storia – anche quella giudiziaria – la scrivono e la scriveranno i vincitori.

Edoardo Quiriconi

(1) Vedi, fra i tanti, H. P. Bix: “Hirohito and the Making of Modern Japan”, Harper & Collins, NYC, 2000. Il testo è stato insignito del Premio Pulitzer per la saggistica nel 2001.

(2) La Costituzione Meiji del 1889, pensata e redatta sul modello Prussiano, poneva la figura dell’Imperatore al centro del sistema giuridico giapponese. Fu sostituita in toto nel 1947 dalla Costituzione di stampo pacifista imposta dagli americani durante il periodo di occupazione del Paese-arcipelago, durata dal 1945 al 1952.

(3) Le periodiche visite dei Primi Ministri appartenenti al PLD (Partito Liberal Democratico, formazione politica della destra nazionalista giapponese, al potere quasi ininterrottamente dal 1952 ai giorni nostri) al santuario Yasukuni creano forti tensioni e attriti con i Paesi vicini, Cina e le due Coree in primis, proprio perché, al suo interno, sono state santificate le spoglie dei 14 criminali di Classe-A condannati dal Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente. Queste visite sono considerate, dai Paesi che le denunciano, come una mancanza di rispetto per le vittime causate dall’occupazione militare giapponese negli anni 1931-1945. Nessun rappresentante della Casa Imperiale, proprio a partire dal 1978, ha più fatto visita al santuario in questione, generando una situazione di grave imbarazzo politico con il partito soventemente al governo del Paese.

(4) Dal nome dell’Era di regno di Hirohito, Showa per l’appunto (ovvero della “pace illuminata”), durata dal 1926 al 1989. In Giappone, infatti, nonostante venga utilizzato, per ovvie convenzioni commerciali con il resto del mondo, il calendario gregoriano, la datazione dei documenti e degli atti ufficiali – pubblici e privati – segue ancora oggi le ere di regno di ciascun imperatore. Al momento dell’ascesa al trono, ogni nuovo sovrano del Sol Levante attribuisce un nome all’epoca nella quale egli regnerà, che durerà fino alla sua morte.

(5) Radhabinod Pal, infatti, riteneva che, nel corso della Guerra del Pacifico, si fossero scontrate due opposte concezioni del mondo, ugualmente imperialiste, e per questo fra loro incompatibili, ovvero quella giapponese, da un lato, e quella britannico-statunitense, dall’altro. Da indiano (per quanto intellettuale e uomo di cultura) il cui Paese si trovava sotto la dominazione coloniale inglese, riteneva non accettabile giuridicamente, né giusto moralmente che il “Processo di Tokyo” venisse risolto sulla base dei rapporti di forza determinatisi fra le nazioni al termine del secondo conflitto mondiale.