Emily Dickinson a Oak Ridge

Nel 1962 mi trovavo negli Stati Uniti in visita al centro di ricerca nucleare di Oak Ridge nel Tennessee.

Alla fine del giro dei laboratori e delle relative discussioni, volendo fare quattro passi, capitai in un grosso paese anonimo e triste dove l’unica parvenza di vita si manifestava all’intorno di una grande piazza circolare dove si affacciavano case, negozi e qualche sparuto locale di ritrovo.

Tornai rapidamente in albergo, un motel malandato e impersonale come tutto il resto, e, dopo un vano tentativo di appassionarmi ad un incontro di baseball in televisione, ripiegai su un comodissimo letto “king size” di una piazza e mezzo abbondante.

Come d’abitudine, aprii il cassetto del comodino per cercare qualche foglio di carta da scrivere.

C’era la solita Bibbia, praticamente intonsa, segno che i clienti dell’hotel avevano altro da pensare o, meglio, da fare, la sera, oppure che la conoscessero già integralmente.

Accanto c’era un libretto sgualcito dal titolo “Selected Poems” ed il nome dell’autrice, Emily Dickinson.

Non conoscevo Emily per cui mi misi a leggere qualche riga con diffidenza e scarso entusiasmo temendo che si trattasse di una delle tante donne che si travestono da poetesse per scaricare su dei versi, sovente melensi e banali, i loro amori impossibili o il loro sentimentalismo.

Oak Ridge era nata praticamente nel 1942 quando la zona era stata scelta dal Governo Federale nel quadro del progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica.

Nei suoi laboratori si doveva realizzare la separazione, con tecniche elettromagnetiche, dell’uranio 235 dall’uranio naturale composto quasi totalmente da uranio 238.

L’uranio 235 era il materiale fissile che con un opportuno innesco dava luogo alla reazione di fissione nucleare a catena ed alla conseguente esplosione della bomba con uno sviluppo enorme di energia fino ad allora impensabile.

Mi raccontarono che durante la costruzione dei giganteschi magneti separatori si verificò che il rame che serviva per gli avvolgimenti dei magneti non era sufficiente e non ve ne era disponibilità nell’immediato.

Furono chieste allora ed ottenute prontamente in prestito dal Ministero del Tesoro degli Stati Uniti, quasi 15.000 tonnellate di argento in lingotti!

L’argento è un eccellente conduttore elettrico per cui non ci furono interruzioni nella messa in opera del sistema.

Fu necessario costruire una cittadina per alloggiare tutto il personale che operava nei laboratori, e le rispettive famiglie.

Al culmine del progetto Manhattan, cioè negli ultimi anni del conflitto, Oak Ridge contava circa settantamila abitanti, rispetto alle poche migliaia di prima della guerra.

Tutto il centro di ricerca era circondato da una fitta cancellata e, negli anni di guerra, era sorvegliato giorno e notte, in quanto tutti gli studi e gli esperimenti che vi venivano condotti, dovevano restare rigorosamente segreti.

Ricordo che la prima lirica che lessi, aiutandomi con un vocabolarietto tascabile, fu la seguente, datata 1863, qui riportata nella traduzione di Margherita Guidacci (1):

 

Come se il mare separandosi

Svelasse un altro mare,

Questo un altro, ed i tre

Solo il presagio fossero

 

D’un infinito di mari

Non visitati da riva –

Il mare stesso al mare fosse riva –

Questo è l’eternità

 

Fui sbalordito dalla modernità del contenuto e della scrittura di un testo di cento anni prima.

Non aveva alcuna parentela con la lirica femminile di metà ottocento, era già poesia del novecento, ma forse non era neanche questo, era “Poesia” e basta.

Fui ancora più stupito quando seppi, tornato in Italia, che Emily aveva vissuto in una cittadina del Massachussets, volontariamente segregata nella casa paterna, con una educazione di rigida impostazione puritana senza contatti, se non forse libreschi, con i movimenti letterari europei.

Lessi fino a tarda notte provando un coinvolgimento sempre più intenso e, alla fine, una fascinazione per questa poetessa che dura tuttora.

L’indomani, in mensa, ne parlai con i vari colleghi americani ma mi accorsi che non ne conoscevano neanche il nome.

Un veterano del progetto Manhattan, che aveva lavorato a Los Alamos, il principale centro di ricerca per la progettazione e costruzione della bomba atomica, mi disse sorridendo che l’unica persona che mi avrebbe potuto illuminare su tutto, e quindi anche su Emily, era il fisico Robert Oppenheimer, il direttore del progetto, notissimo anche per la sua sterminata cultura.

Di famiglia ebrea tedesca ma nato negli Stati Uniti da madre americana, Oppenheimer, dopo gli studi ad Harward, era venuto in Europa, prima a Cambridge e poi, nel 1926, a Gottinga dove consegue il dottorato a ventitre anni e si trova in stretto contatto con i maggiori fisici dell’epoca, quelli che stavano rivoluzionando definitivamente la cosiddetta “fisica classica”.

Dopo un periodo al Politecnico di Zurigo, torna negli U.S.A nel 1929 come professore all’università di Berkeley ed al Caltech (California Institute of Technology) a Pasadena.

Nel 1942 sarà chiamato come direttore scientifico del progetto Manhattan.

Nelle parole del fisico italiano Emilio Segré, premio Nobel nel 1959, che lo aveva conosciuto bene, Oppenheimer “era stato tra i primi ad introdurre la meccanica quantistica in America ed aveva fondato una fiorente scuola di fisica teorica da cui uscirono non pochi dei migliori fisici teorici americani. Si interessava di molte altre cose oltre che della fisica: filosofia, letteratura, conosceva più o meno bene varie lingue tra cui il sanscrito…” (2).

Emily Dickinson
Emily Dickinson

Proprio la conoscenza e la passione per le religioni orientali gli fecero venire in mente, come raccontò in seguito, alcuni versetti della Bhagavad-Gita, il poema sacro degli Hindu, alla vista dell’immane esplosione e della luce accecante sprigionatasi durante il test “Trinity” della prima bomba atomica ad Alamogordo, nel deserto di Jornada del Muerto nel New Mexico, il 16 Luglio del 1945, venti giorni prima del lancio di “Little Boy” su Hiroshima: “Se la luce di mille soli divampasse nel cielo, sarebbe come lo splendore dell’Onnipotente” ed ancora “Io sono diventato Morte, il frantumatore dei mondi”.

A queste parole terribili e minacciose, che le circa settantamila vittime di Hiroshima morte sul colpo testimoniarono tragicamente profetiche col loro sacrificio (per gli effetti delle ferite e delle radiazioni ne moriranno altre sessantamila entro l’anno), credo sia consolante accostare la visione aggraziata e quasi seduttiva della morte in una delle più celebri poesie di Emily Dickinson nella traduzione di Silvio Raffo (3):

 

Poiché io non potevo fermarmi per la Morte

Lei gentilmente si fermò per me.

La carrozza bastava a contenere

Noi due soltanto – e l’immortalità.

 

Piano andavamo – non aveva fretta

ed io avevo tralasciato

il mio Lavoro ed anche il mio riposo

per la Sua Cortesia –

 

Passammo oltre la scuola, dove bimbi

Giocavano in Cortile a Ricreazione –

Passammo i campi d’Occhieggiante Grano,

e passammo oltre il sole che moriva –

 

o piuttosto fu lui ad oltrepassarci –

le Rugiade tremavano di freddo,

di sola Garza era la mia Gonna,

la mia Mantellina – di tulle –

 

E ci fermammo dinanzi a una Casa

Che assomigliava a un’Onda della Terra –

Il Tetto si vedeva a malapena –

Per Cornicione solo poche zolle –

 

Da allora sono Secoli, ma sembrano

più brevi di quel Giorno in cui mi accorsi

– in un attimo – che all’Eternità

Le Teste dei Cavalli eran protese

 

(1)Emily Dickinson: “Poesie”. Introduzione, traduzione e note di Margherita Guidacci. B.U.R., 1979

(2)Emilio Segré: “Enrico Fermi, fisico” Zanichelli, 1970

(3)Silvio Raffo: “La Sposa del Terrore. Poesie di Morte e di Immortalità in Emily Dickinson” Book editore, 2009

Francesco Cappellani