I ‘Promessi Sposi’ di Piero Chiara

Nell’inverno trascorso tra il 1970 e il 1971, nello studio varesino di Piero Chiara in via Bernascone al n.1 fece la sua comparsa il regista cinematografico Marco Vicario.

Autore anni prima de ‘I sette uomini d’oro’, uno dei più brillanti film italiani degli anni Sessanta che fra l’altro aveva sbancato il botteghino, e però fermo da un buon lustro, il Nostro cercava un rilancio ed aveva chiesto allo scrittore luinese di dargli una mano e qualche idea per la stesura della sceneggiatura di ‘Homo eroticus’ che sarebbe uscito nelle sale appunto nel 1971.

Fu proprio in quei mesi o forse già nella seguente primavera che, maturando un progetto altre volte accarezzato, spronato dal regista che pensava di poterne cavare una pellicola di grande successo, Piero, appresa da cotanto maestro l’arte della sceneggiatura, iniziò a dettare alla mitica segretaria Gigliola, non in forma di romanzo ma appunto ‘per il cinema’, una particolarissima versione dei manzoniani ‘Promessi sposi’.

Il ‘trattamento’ risultò ben definito per quel che riguarda la prima parte del romanzo nel mentre i restanti capitoli erano solo riassunti.

Per quanto Vicario si dichiarasse entusiasta, il progettato film non fu mai realizzato e il dattiloscritto finì tra i moltissimi inediti (migliaia e migliaia di annotazioni, appunti, racconti, memorie per la maggior parte vergati a mano) che Chiara, morendo, lasciò nella disponibilità dei suoi curatori letterari.

Fu poi solamente nel maggio del 1996 che la Mondadori pensò bene di proporre  nella collana ‘Passepartout’ il testo che intitolò ‘I promessi sposi di Piero Chiara’.

Presentato quello stesso anno a Varese, nell’ambito del Premio letterario che prende nome dal narratore lacustre, dal critico Giancarlo Vigorelli (da lunga pezza sodale di Piero che aveva conosciuto già ai tempi dell’esilio svizzero verso la fine della Seconda Guerra mondiale e poi sempre frequentato), il libro, malgrado alcune critiche, ha goduto di una qualche non del tutto effimera fama e comunque ben si colloca tra le opere minori e più curiose del luinese.

Della lunga presenza in via Bernascone, a settimane alterne e purtroppo non accompagnato dalla moglie (la splendida Rossana Podestà), di Vicario, della stesura della sceneggiatura del pessimo, a dire il vero, ‘Homo eroticus’, della dettatura dei novelli ‘Promessi sposi’ fui spettatore.

Ma quando, dove e come a Piero Chiara era venuto in mente di profanare (o, come diceva lui, di svelare come davvero erano andate le cose) il capodopera manzoniano?

Chiara ha molte volte, ed assai brillantemente, raccontato come la sua carriera scolastica non sia stata, per usare un eufemismo, delle migliori e in qual modo abbia poi, da solo, da perfetto autodidatta, provveduto a darsi quella che riteneva una indispensabile conoscenza della letteratura italiana ed internazionale in lunghe ore di studio trascorse nei pomeriggi (di notte, c’era ben altro da fare tra carte, biliardo e femmine), alla luce di due grosse candele per risparmiare, nelle diverse abitazioni vissute dapprima in Friuli e quindi nella nostra città.

Di questo periodo gli restava un incredibile amore per alcuni autori le cui opere era arrivato a conoscere a memoria. Ovviamente, Giacomo Casanova del quale diventerà uno dei massimi conoscitori, Gabriele D’Annunzio che amava e insieme odiava, il Melville magnificamente tradotto da Cesare Pavese (non solo ‘Moby Dick’ ma, in particolare, ‘Benito Cereno’ e ‘Billy Budd gabbiere di parrocchetto’), poi, eccentricamente, ‘Il commentario reale degli Incas’ di Garcilaso de la Vega, molto di Oscar Wilde, Arthur Schnitzler a partire dal suo ‘Il ritorno di Casanova’, praticamente tutto delle letterature francese e russa dell’Ottocento e, infine, ‘I promessi sposi’. L’opera manzoniana – mi disse in mille occasioni ma non sono convinto che poi davvero si comportasse di conseguenza visto che esistono sue dichiarazioni di segno opposto – andava obbligatoriamente riletta almeno una volta l’anno.

D’accordo con molte delle sue scelte ed in polemica solo in ragione della scarsa, se non nulla, considerazione che dimostrava nei confronti del romanzo americano in genere e in particolare per i noir di Dashiell Hammett e Raymond Chandler che riteneva al massimo dei ‘piccoli maestri’, non potevo seguirlo sulla strada indicata per quel ch