Come Lauzi raccontava di Piero Chiara nel 2005

Io ho vissuto a Varese gli anni degli studi e degli amori, l’ennesima versione di “Addio giovinezza” recitata sul piccolo palcoscenico di una città di provincia, con tutti i suoi limiti ma in compenso con la possibilità per chiunque  di rendersi visibile e di diventare protagonista sia pure di storie da poco ma non per questo meno gustose, come quelle che ogni tanto Piero Chiara ci andava raccontando, con il suo cappelluccio alla Macario ed il bastone di malacca col pomo d’argento su cui poggiava le due mani a sostenere il mento, gli occhietti saettanti dietro gli occhialini, la bocca atteggiata a culo di gallina per non far tracimare il beffardo sorriso di chi sa tenere sulla corda l’ascoltatore con sapienti sospensioni, fino a farsi sollecitare da ingenue richieste a base di “ancora, ancora”, novello Boccaccio che s’era fatto Omero…

Chiara aveva i suoi amici di carte e di biliardo al Bar Centrale, e solo di rado veniva a sedersi con noi giovanotti che spadroneggiavamo allo Zamberletti.

Era, come tutti i siciliani che ho avuto la ventura di conoscere, di fine intelligenza, quella innata che prescinde dall’istruzione ricevuta, dimostrandosi  scrittore concreto e lucido, sciabolatore di aggettivi che collocava come ordigni micidiali a chiarire con una sola parola l’eventuale oscurità di un concetto.

Erede della tradizione settecentesca che aveva come suo esempio più fulgido le Memorie di Casanova (non a caso le aveva tradotte con perizia), a differenza di tanti bravi scrittori che si rivelano per contro penosi oratori, quale era  Montanelli, sempre balbettante, egli  aveva avuto in dono una facondia rara che, guarda caso, era proprio quella che ci voleva per fare di ogni aneddoto curioso un racconto da Mille e una notte, addirittura degno di figurare nel Decamerone…

Mauro della Porta Raffo