A Luino

da ‘Il piatto piange’, 1962, Mondadori

“Si giocava d’azzardo in quegli anni, come si era sempre giocato, con accanimento e passione; perché non c’era, né c’era mai stato a Luino altro modo per poter sfogare senza pericolo l’avidità di danaro, il dispetto verso gli altri e, per i giovani, l’esuberanza dell’età e la voglia di vivere.

Nei paesi la vita è sotto la cenere. Per vivere come si vorrebbe da giovani ci vuole danaro; e di danaro ne corre poco.

Allora si gioca per moltiplicarlo e si finisce per fare del gioco un fine, una mania nella quale si stempera la noia dei pomeriggi e delle sere. Non ci si accorge che a due passi, fuori dalle finestre, c’è il lago e la campagna. Si sta legati ai tavoli a denti stretti e neppure si pensa che lo studio, o un mestiere qualsiasi, potrebbero rompere quell’inceppo che si maledice e si adora, e aprire una strada nel mondo a chi nascendo si è trovato davanti l’acqua del lago e dietro le montagne, quasi a indicare che per uscire dal paese bisogna compiere una traversata o una salita, fare uno sforzo insomma senza sapere se ne valga la pena.

Qualcuno che si ribella o che viene scosso dalla necessità, se ne va a lavorare o a far ribalderie all’estero, o almeno fuori da quei limiti. Gli altri continuano a giocare, a studiarsi e a guardar vivere
l’un l’altro… Passano una stagione dopo l’altra e aspettano il ritorno di quelli che sono partiti per poterli ascoltare quando raccontano in cerchio al Metropole o al Caffè Clerici”.