Pisciò

ovvero, parlar male di Garibaldi nel bicentenario della nascita

Varese, li 4 luglio 2007

 

Intollerante della pubblica e, apparentemente, intangibile esaltazione popolare dell’‘Eroe del due mondi’ e indispettito a fronte dei mille e mille episodi e casi di fanatica adorazione (si pensi, per fare solo due esempi, al quartiere di quel paese sul Lago Maggiore che per decenni venne denominato ‘Pisciò’ nel ricordo appunto del fatto che colà il Generale si era fermato per espletare un bisogno corporale o a quella lapide, tra le infinite un tempo apposte ‘ad imperitura memoria’, che recitava “In questa casa avrebbe dovuto dormire Giuseppe Garibaldi la sera del…se improvvida notizia non l’avesse costretto a proseguire”), l’ottimo e cinico narratore luinese Piero Chiara, in vista del primo centenario della morte (1982), d’accordo con l’editore Vanni Scheiwiller, pensò fosse giunto il momento di raccogliere tutto quanto era stato scritto contro l’Eroe (con la maiuscola per definizione) in un volume che avrebbe dovuto essere intitolato ‘Hanno parlato male di Garibaldi’.

Aiutato da Giuseppe Siccardi, cominciò a catalogare il materiale di tal fatta esistente, incredibilmente cospicuo ove si consideri l’idolatria per il Nostro.

Fra l’altro, da un maniaco di storia garibaldina, Chiara – che già di suo del ‘povero’ nizzardo diceva tutto il male possibile (ricordo di avergli sentito sostenere come Cavour ogni qual volta gli occorreva di citare Garibaldi lo definisse invariabilmente ‘l’eroico ciula’ dimostrando così di non tenerlo in grande considerazione almeno per le doti intellettuali) – raccolse una ‘perla’ “da prendere però con le pinze”, come ebbe a vergare in seguito nella rubrica ‘Sale & Tabacchi’ sul Corriere del Ticino nel 1984.

Garibaldi sarebbe stato privo di entrambi i padiglioni auricolari e questo non per difetto di nascita ma a seguito di una mutilazione.

Nei primi tempi del suo soggiorno in Sud America, sorpreso e catturato nel corso di una azione tesa a razziare cavalli, gli furono tagliate le orecchie perché tale era all’epoca e in quelle bande la punizione in uso per i ladri di bestiame.

Di qui, la necessità di far crescere fino alle spalle i biondi capelli che, incorniciandogli il volto, con la fluente barba, tanto contribuirono poi alla creazione del suo mito.

Di più, maggiormente infamante e macabra, nota ma trascurata dagli storici a disagio nel ricordarla, la voce che, in fuga nelle paludi di Comacchio e in pericolo d’essere catturato, Garibaldi, deceduta l’amatissima Anita incinta per la quinta volta, la seppellì affrettatamente sotto pochissima sabbia lasciando che una mano sporgesse dal suolo, mano che di lì a poco sarebbe stata rosicchiata dai cani randagi che pure avrebbero provocato, scavando e mordendo, lesioni ed ecchimosi alla gola della poveretta tanto da far credere che la stessa fosse venuta a morte per strangolamento!

Tramontata l’idea del volume chiariano fin troppo iconoclasta, ecco, all’incirca un ventennio più tardi, un altro grande scrittore interessarsi, da ben differente punto di vista e con l’arguzia che da sempre lo contraddistingue, a Giuseppe Garibaldi.

Si tratta di Luca Goldoni che in ‘L’amante dei due mondi’ (ebbe a confessarmi che in un primo momento avrebbe voluto intitolare significativamente la sua fatica ‘Le mille’) passa in rassegna le moltissime donne che al fascino, decisamente irresistibile del Nostro, non seppero dire di no.

Un fascino del tutto particolare, però, se è vero come è vero che l’Eroe, lungi dall’essere raffinato, galante e salottiero come Giacomo Casanova – al quale, peraltro, sostiene Goldoni, lo accomunava il grande rispetto che entrambi nutrivano nei confronti del gentil sesso – “era un vero orso, ruvido, maldestro e genuino fino allo sgarbo”.

Guardando alla ufficialità, Garibaldi ha avuto la bellezza di tre mogli, anche se una rimase tale per all’incirca dieci minuti.

La prima, la mitica e ardente Anita Ribeiro de Silva, gli fu compagna nel periodo maggiormante drammatico e avventuroso della vita, scomparve a soli ventotto anni e gli diede quattro figli: due maschi, Menotti e Ricciotti (aveva, Giuseppe, spesso, il vezzo di affibbiare ai neonati del sesso forte come nome proprio il cognome di un patriota morto), e due femmine, Rosita e Teresita.

La seconda, la marchesina comasca Giuseppina Raimondi, sposata dal Nostro oramai cinquantaduenne, aveva cercato di turlupinarlo.

Gli disse “sì”, infatti, incinta di un altro.

Il generale fu informato della questione pochi momenti dopo, la schiaffeggiò come meritava e l’abbandonò sul sagrato.

La terza, Francesca Armosino, era una serva (oggi si direbbe ‘una colf’) trapiantata da Asti a Caprera, che Giuseppe impalmò in tarda età e che gli diede tre figli: Clelia, Rosa e Manlio.

Tra la prima e la seconda, non ‘ufficiale’ ma molto molto vicina ad esserlo, una quarta ‘signora’, Battistina Ravello, nizzarda come lui, anch’essa a servizio a Caprera, genitrice della bella Anita, chiamata in cotal modo in memoria della amatissima Ribeiro.

Lungi dall’essere simile ad Elizabeth Taylor (che, anni orsono, spiegando il motivo dei suoi numerosi matrimoni, ebbe a dire: “Non posso andare a letto con un uomo se non sono sposata con lui”), Garibaldi seppe ‘farsi catturare’ – da vero conquistatore in tutt’altri campi, in amore lasciava che fossero le donne a conquistarlo tanto che, rifetteva ancora Luca Goldoni, forse sarebbe stato meglio intitolare il libro sopra citato ‘L’amato dei due mondi’ – in molteplici, differenti occasioni da baronesse, contadine, scrittrici, lavandaie e chi più ne ha più ne metta.

Del magnetismo del Nostro, della sua sincerità, del totale disinteresse personale in battaglia come in amore, del suo candore quasi infantile si occupa la celebre scrittrice francese George Sand che fra l’altro afferma: “Egli non assomiglia a nessuno ed è in lui tale sorta di mistero che fa meditare.

Garibaldi non saprebbe imperare che su uomini liberi e su di essi non ha che i diritti sacri della parola data e della parola ricevuta…

E’ uno dei casi più strani del nostro tempo, in cui la guerra è sempre ispirata da calcoli precisi”.

Passando in rassegna le più importanti tra le ‘volontarie’ (si dedicavano a lui con tutta l’anima senza nulla pretendere ed alcune arrivarono ad accudirlo anche a Caprera e fino alla vecchiaia chiedendo in cambio, magari, un ciuffo di capelli. Scriverà ad una signora “Mi stanno crescendo e appena possibile ne taglierò una ciocca per voi”), ecco la contessa Maria Martini della Torre – per il vero, talmente ardente e impetuosa da dover essere tenuta ad una certa distanza – che lascia marito e figli e lo segue combattendo nella spedizione dei Mille.

La poetessa e gran dama francese Louise Colet che vuole conoscerlo e gli si presenta a Napoli nel 1860.

Conquistata, gli dedica un’ode e poi si arruola.

Sarà tra quelle che lo andranno a trovare nella sua isoletta e, malata di tisi, verrà assistita dal Nostro con una stranissima cura a base di latte di mucca che mungerà appositamente per lei.

La moglie di Lord Byron, Anne Isabelle, ricchissima di suo e molto influente nei salotti londinesi, riuscirà a procurargli parecchio denaro per finanziare l’avventura dei Mille e gli sarà vicina con soldi, viveri e gli adorati sigari anche dopo, nei tristi anni del declino.

Sempre a Caprera lo raggiungerà un’altra gentildonna inglese che pur di stargli accanto si incarica di educare i suoi figli piccoli e scatenati.

Ancora Luca Goldoni, a dimostrazione di quanto l’Eroe possa conquistare irrimediabilmente una donna, riporta la lettera che Mrs. Mary Selly, moglie di un influente deputato d’oltremanica, gli invia dopo averlo ospitato nelle villa che possiede sull’isola di Wight:

“Amato generale, quando, ahimé, ieri mi lasciaste, il mio cuore era colmo di angoscia.

Piena di emozione andai a rivedere il vostro piccolo letto dove non si sarebbe più posato il vostro nobile capo.

Stavo mesta a contemplarlo quando scoprii, vicino al capezzale, il fazzoletto grigio che portavate al collo a Brook House e col quale ho coperto la vostra cara testa quando il vento soffiava forte.

Non avevo osato chiedervelo come ricordo. Ora esso è qui! Deh! Ditemi che me lo donate!”

Verrebbe da dire: “Amen”.

Mauro della Porta Raffo