Varese, terra di confine e di patrioti

dal volume ‘Il caso Ramorino’ di Antonio Di Paola e Irene Affede Di Paola

Per le strade della Varese di allora, già dalla primavera del 1848, si vedevano girare i giovani con un cappello dalla foggia inusuale, da cui derivò il nome di ” cappello alla calabrese“. Si trattava del simbolo dei giovani patrioti, per riconoscersi e anche per provocare.

Le donne, in casa, avevano cominciato a preparare coccarde, bandiere tricolori e festoni bianchi e gialli, che inneggiavano l’avvento di Pio IX, papa italico e preso a  fondamento delle speranze nazionali dei patrioti.

In città c’era aria provocatoria e il commissario politico non dormiva sonni tranquilli, al pensiero che i locali sobillatori potessero dar luogo a disordini.

Una sera giunse da Milano la notizia che il vice-governatore O’Donnel autorizzava, con un decreto, l’istituzione di una guardia composta da cittadini, stabiliva l’abolizione della censura e toglieva i propri uomini dalla direzione della polizia. Si trattava di una grande notizia per i patrioti varesini, che si precipitarono in teatro, dove era radunato il fior fiore della città per assistere ad una commedia, dato che in quaresima non erano consentiti altri generi di spettacolo.

Il teatro sorgeva sull’attuale Piazza Giovane Italia e faceva angolo con l’odierna via Rossini da un lato e con l’allora Ospedale Gilardoni e dei Poveri, detto anche il Lazzaretto, dall’altro. Era cioè in pieno centro, a due passi da Piazza del Podestà.

Cesare Paravicini, l’animatore delle azioni patriottiche di Varese, salì su un palco e lesse a gran voce i decreti del vice-governatore. Si scatenò una gran confusione: gli ufficiali austriaci, che affollavano le file di ” poltrone chiuse “, cioè la platea, si precipitarono dal loro comandante, il colonnello istriano Kopal, che dormiva nel suo alloggio nel Palazzo Estense; altri soldati si schierarono all’uscita del teatro, mentre tra i cittadini, parte tornò a casa per paura, parte cominciò a vociare commentando i fatti, nessuno fece più caso alla rappresentazione.

Il giorno seguente era domenica, le autorità locali si riunirono lo stesso per i primi provvedimenti: prima di tutto fu sospeso il mercato del lunedì, onde evitare l’afflusso dalle campagne dei contadini, che sarebbero potuti essere sobillati facilmente, poi si stabilì di richiamare in città le compagnie distaccate, di lasciare nelle caserme le truppe e di trasferire gli ufficiali che abitavano presso case private, negli alloggi militari.

Il lunedì, nonostante il divieto del mercato, giunse ugualmente una gran folla dai dintorni, che girava a vuoto in attesa di qualche notizia da Milano. Il colonnello pensò che fosse meglio preparare i soldati e disporli adeguatamente, per sedare eventuali insurrezioni. Perciò schierò duecento uomini nella piazza del Podestà, davanti al Pretorio, duecento presso la casa di Kevenhueller a Biumo Inferiore, altri duecento sotto i portici di casa Paravicini in via Vetera, duecento, infine, davanti alla caserma che si affaccia sull’ attuale Piazza della Repubblica. Con ottocento uomini disposti in questo modo, le vie di accesso della città erano presidiate.

Nello stesso tempo ci fu un viavai dal Caffè del Casino, frequentato indistintamente sia dai moderati filogovernativi, sia dagli animosi patrioti. Il ritrovo si ergeva defilato dal quartiere austriaco, era nella Piazzetta Sant’Antonino che ora è intitolata a Carducci, esattamente nei locali poi occupati da una farmacia. Là ci si informava sulle novità e si stabiliva dove adunarsi, che poteva essere presso l’albergo del Cappello (in Piazza Beccaria), o presso il Leon d’Oro (in via Albuzzi, al n° 6), oppure in casa Adamoli o in casa Dandolo.

Anche in quei giorni si tennero discorsi segreti, si raccolsero fondi e intanto il tempo passava senza che accadesse nulla di rilevante.

Pare che Cesare Paravicini, per tenere in allarme il colonnello Kopal, gli avesse inviato una lettera anonima, in cui si diceva che la rivolta sarebbe scoppiata prima dell’alba. Per tutta la notte, in quelle ore di tensione, sotto una pioggia battente, rimbombarono i passi cadenzati dei soldati in perlustrazione. Finalmente, giunse da Milano un ordine: le truppe austriache dovevano ritirarsi su Saronno.

Questo allontanamento da Varese fu accolto con giubilo, ma anche con qualche episodio di intolleranza. Poi, il tempo riprese a scorrere normalmente, l’euforia man mano si spense e la vita della città riprese l’andamento di sempre. Si giunse, così, ai giorni del conflitto.

Il Comitato cittadino di guerra raccolse fucili e munizioni per i volontari e continuò la raccolta per tutta la durata delle ostilità, finché, proprio mentre un contingente di uomini si apprestava finalmente a raggiungere l’esercito piemontese, giunse la notizia che re Carlo Alberto, sconfitto, si era ritirato a Milano.

I Varesini non si persero d’animo, cercarono ancora altre armi e mezzi e radunarono volontari che partirono equipaggiati di tutto punto. Erano in tutto seicento, con in testa Cesare Paravicini, ormai divenuto Podestà della città. Non si può dire che fossero pochi, se si considera che Varese era un comune scarsamente popolato, in cui la gente non partecipava agli avvenimenti, se non per sola curiosità.

Quando giunsero a Saronno, i seicento volontari furono investiti dal rombo dei cannoni austriaci, che seminarono il panico, pur se, a causa della distanza, nessun colpo si poteva vedere. Gran parte del plotoncino tornò indietro e solo circa duecentosessanta uomini raggiunsero Milano.

Era troppo tardi!

Carlo Alberto aveva già lasciato la Lombardia, Salasco si apprestava a firmare l’armistizio e i volontari varesini furono rimandati tutti a casa.

Nei giorni seguenti, Varese fu attraversata dalle disfatte truppe piemontesi che cercavano di raggiungere il Lago Maggiore per rientrare nei propri territori; l’atmosfera che regnava era di grande delusione, la generosità dei cittadini era andata sprecata e si aspettavano, da un momento all’altro, le rappresaglie austriache.

I patrioti, tra cui Tullio Dandolo, Giuseppe e Giulio Comolli, Domenico Adamoli, Francesco Daverio, Emilio Morosini e altri, ripresero a riunirsi clandestinamente presso i luoghi di una volta: casa Adamoli, l’albergo del Leon D’Oro e soprattutto presso il Casino, che, chiuso come sala da gioco nel 1845, era stato riaperto due anni dopo come ritrovo e sede di divertimenti.  Lo raggiungevano salendo da piazza S. Antonino verso la villa, dopo aver oltrepassato la chiesa di San Martino. A disturbare l’apparente quiete cittadina, apparve Garibaldi.

Non aveva accettato l’armistizio di Salasco e in un proclama tentò ancora di spingere all’insurrezione la Lombardia che, a suo avviso, era ancora in ebollizione e scottata da i plurimi insuccessi dei moti locali.

Giunse di sera a cavallo, seguito da molti uomini e i Varesini, che in altre occasioni, all’arrivo di patrioti, avevano preferito chiudersi in casa timorosi, uscirono invece per strada e fecero festa; prepararono spontaneamente viveri, raccolsero dai nascondigli armi e munizioni e fecero comparire anche qualche cavallo, che durante i mesi precedenti era rimasto nascosto per paura che venisse requisito.

Fu un successo personale di Garibaldi che, presi i rifornimenti, si avviò sulla strada per Arona. Giunto là, sul far della sera seguente, rubò due battelli e nove barconi e con questi mezzi, attraversò il Lago con tutti i Legionari.

Sbarcato a Luino, dove gli Austriaci tenevano i depositi del sale, coperti da dazio, il Generale nizzardo, senza indugio, s’impadronì di quanto sale poteva, fece riposare e sfamare gli uomini e dopo qualche giorno si riportò verso Varese, questa volta seguendo il normale percorso di terra.

La città era in gran festa: luci, bandiere, musica; si ballava in piazza del Podestà con la banda di Cunardo, ma il giorno dopo, finita la baldoria, i nodi vennero al pettine, allorché Garibaldi rinnovò le richieste di viveri, armi, cavalli e soprattutto soldi.

Le tasche dei cittadini si erano già ripetutamente svuotate in favore dei patrioti nei mesi precedenti ed anche l’erario comunale era tutt’altro che florido. Il Generale non si arrese al diniego e, facendo riemergere lo spirito brigantesco che occupava parte del suo animo, ordinò ai suoi di arrestare alcuni tra i nobili signori della città, con il pretesto che le loro idee fossero troppo vicine all’Austria.

L’umore dei Varesini mutò di colpo, l’entusiasmo per il condottiero si trasformò in angoscia e repulsione, tanto che una folta delegazione di cittadini, guidata dal Prevosto di San Vittore, Monsignor Crespi, si recò da lui e, offrendogli di intercedere presso la popolazione affinché facessero ancora una colletta, ottennero di scagionare gli arrestati.

Furono raccolte ben diecimila lire, l’offerta non era spontanea, il sentimento che la produsse era soltanto di pietà verso gli arrestati, ma non più di stima verso Garibaldi.

E’ curioso notare come ancora oggi, tra la gente di Varese e dintorni, sia rimasto un senso irrazionale di antipatia verso questo personaggio, quasi che il suo mal gesto avesse tramandato di generazione in generazione, l’avversione verso di lui. Eppure la maggior parte della gente non sa più perché Garibaldi risulti, localmente, così inviso.

Il Feldmaresciallo Radetzky non vedeva di buon occhio la presenza di questo imprevedibile Generale a Varese, soprattutto perché l’ubicazione della città era strategicamente importante: da un lato confinava con il Lago Maggiore e quindi il Piemonte, dall’altro aveva Milano, a Nord teneva la Svizzera, terra fertile di Patrioti, che bisognava evitare s’infiltrassero.

Senza esitazione predispose un contingente di uomini, a capo dei quali pose niente meno che il Generale D’Aspre. L’intervento fu effettuato da due Brigate che entrarono una da sud e una da est, per impedire a Garibaldi ogni movimento verso Milano o verso Como, rimaneva libera solo la via verso il Lago per un’eventuale ritirata. Questi, infatti, intuito il pericolo imminente per la superiorità numerica degli Austriaci, (gli Italiani erano solo 800 raccolti qua e là) decise di uscire dalla città e di arroccarsi nei dintorni, in modo da non precludersi la ritirata verso la Svizzera o verso Luino, dove c’erano ancora i suoi barconi.

Non tralasciò, però, di rifornirsi del necessario prima di lasciare Varese, cosa che avevano già fatto le truppe di Radetzky, cosicché i Varesini, sempre più contrariati da questo via vai di rifornimenti forzosi, tornarono a chiudersi nelle case e a mostrare ostilità sia verso gli uni che verso gli altri.

Passarono alcuni giorni, Garibaldi si spostò da un paese all’altro del circondario di Varese, mentre gli Austriaci sembravano non prendere sul serio la vicenda, ma all’improvviso, una sera, quando il Generale nizzardo stava cenando nel suo alloggio di Schianno, giunse un gran tramestio di gente, si udivano grida concitate e s’intravedevano bagliori di fiamme.

Una sentinella, trafelata e agitatissima, annunziò che gli Austriaci erano entrati in paese. La reazione garibaldina fu immediata e feroce: ” si sparò dalle finestre, dagli androni, dai tetti, dalle porte, finché il nemico fu respinto fuori del paese“, così dicono le cronache, ma dalla periferia, gli Austriaci riuscirono a sparare alcuni colpi di cannone che incendiarono due case.

Accorsero altri reparti e il combattimento, iniziato alle 20, andò avanti fino alla mezzanotte. Sopraggiunse anche il Generale D’Aspre, ma il buio, molto fitto, impedì di continuare gli scontri. Garibaldi e i suoi Ufficiali decisero di ritirarsi fuori del paese per sfuggire ad un attacco fatale che poteva verificarsi il giorno seguente.

Dicono ancora le cronache che nell’oscurità i garibaldini persero i contatti tra di loro, perché, per non utilizzare segnalazioni luminose, facilmente visibili anche al nemico, erano costretti a far retrocedere, di tanto in tanto, alcuni uomini alla ricerca di coloro che si erano dispersi nel buio.

Si dice che la legione garibaldina si fosse talmente sbandata, che ad un certo punto il Generale si ritrovò solo con 60 uomini. Non si fermò, ma costrinse il parroco di Morazzone a far da battistrada fino a Capolago, poi, dietro la guida di Francesco Daverio, giunse a Calcinate del Pesce, luogo natale del patriota e di lì, con un giro tortuoso tra le valli varesine, riuscì a riparare in Svizzera.

Degli altri legionari, che si erano salvati dal nemico e che non erano feriti, alcuni passarono in Piemonte per varie vie, altri entrarono anch’essi in Svizzera; dei patrioti varesini, Giulio Comolli si arruolò nell’esercito piemontese e fu portabandiera tra i cavalleggeri; Emilio Morosini fece parte della Divisione Lombarda; altri come Dandolo, Daverio, Paravicini e Orrigoni rientrarono mestamente in città, portando la notizia della fine dell’insurrezione varesina del 1848.

Dopo questi fatti, Radetzky impose delle inevitabili, rigide leggi, molti reparti furono lasciati a presidiare le città ed ebbe inizio la repressione.

Un certo Giuseppe Ossola, figlio maggiore di un contadino, padre di cinque figli, aveva nascosto nel proprio granaio un fucile da caccia ed uno da guerra a baionetta. Qualcuno fece la spia. Gli Austriaci trovarono le armi, processarono brevemente padre e figlio e li condannarono a morte. La sentenza capitale avvenne davanti al cimitero, ma fu eseguita solo per il figlio, perché il padre Giovanni, come dicono le cronache varesine, fu graziato per via dell’età avanzata.

In realtà, la motivazione fu diversa. Egli ebbe salva la vita, non già per una presunta vecchiaia (aveva infatti solo 46 anni), ma perché rappresentava l’unica fonte di sostentamento per una povera famiglia numerosa.

Si legge, infatti, nella sentenza:

In una perquisizione praticata a Caravate dall’Intendente regio militare il 9 gennaio 1849, nella casa di Giovanni Ossola, figlio del fu Francesco e di Rosa Ossola, nativo di Sangiano, provincia di Como, di anni 46, cattolico, ammogliato, padre di cinque figli, contadino di condizione, fu rinvenuto un fucile da caccia a lui appartenente e altro fucile munito di baionetta di proprietà del figlio Giuseppe, nativo di Caravate, provincia di Como (N.d.A. Varese non era allora provincia), di anni 20, cattolico, celibe, contadino di condizione, entrambe armi, nascoste nel granaio dal figlio Giuseppe. Essendo quindi Giovanni e Giuseppe Ossola in contravvenzione al Proclama del 29 settembre 1848 di S.E. il Maresciallo conte Radetzky, in cui si fa obbligo della consegna delle armi e delle munizioni all’Intendente regio militare, così furono entrambi, secondo di esso proclama, sottoposti al giudizio statuario e condannati a morte, da effettuarsi con la fucilazione.

La sentenza confermata è effettuata su Giuseppe Ossola e in via di grazia, condonata la pena di morte a Giovanni Ossola in riguardo alla sua numerosa famiglia, priva di altro sostegno e in braccio alla miseria.”

 

Varese 3 Marzo 1849

L’Intendente regio Militare

                                                             Colonnello   Steinger             “

 

Il clima era teso, l’intimidazione e le rappresaglie portarono ad una quiete forzata e senza speranze. Una settimana dopo, alla rottura dell’armistizio, Varese fu lasciata libera dalle truppe austriache che dovevano raggiungere il resto dell’armata per la guerra. Tentò di approfittarne un patriota comasco, Gabriele Camozzi, ma anche il suo tentativo di far sollevare le popolazioni lombarde verrà represso in breve tempo.

Nella mente dei patrioti varesini, come in quella dei bergamaschi, dei bresciani e di tante altre località minori della Lombardia si formò la convinzione che gli Austriaci non potessero essere cacciati fuori dai confini italiani, se non con l’aiuto del Piemonte.

L’idea mazziniana dell’insurrezione popolare andò man mano perdendo efficacia a favore di un intervento militare sotto l’egida dei Savoia. Così, con il rammarico per i moti spentisi nel nulla e con le nuove speranze nell’esercito del re Carlo Alberto, si giungerà alla vigilia della ripresa della guerra.

Antonio Di Paola e Irene Affede Di Paola