Varese, allora

I caffè, il gioco, le carte, il biliardo, la vita

1962, da Mondadori, esce ‘Il piatto piange’.

Clamoroso e inaspettato successo.

Per la prima volta, un narratore italiano raccontava la vita, le passioni, gli ozi, gli amori della provincia, tra le due guerre, è vero, ma in fondo di tutti quei mitici e duri tempi.

Quella del Nord Italia, la provincia che i più pensavano operosa e che lo scrittore, invece, rivelava dedita all’azzardo, alle carte, al biliardo, al sotterfugio quando non all’imbroglio, a tutto meno che al lavoro.

Occorre intervistare questo Piero Chiara, si dice l’allora direttore del Corrierone ed ecco che spedisce in quel di Varese, dove l’autore dell’imprevisto successo letterario risiede, un giornalista.

Che lo trovi e lo interroghi, perbacco.

Il desso, arrivato in una città semideserta, si aggira per il centro.

Uno o due tali incontrati sotto i portici gli dicono che ‘il Piero’, vista l’ora, dovrebbe essere al Caffè Centrale, in piazza del Garibaldino.

Entrato, il nostro si rivolge alla cassa, dove siede una signora, diciamo così, robusta, dotata di un magnifico chignon.

“Il Chiara?”, risponde alla domanda.

“E’ di là, nella saletta.

E’ quello che gioca col Rosmino”.

Col Rosmino?

Certo, allora il personaggio, l’uomo noto e apprezzato, non era il cancelliere di origini luinesi, quel perditempo, sciupafemmine, dedito costantemente alle carte e al biliardo, lo scribacchino.

Il vip era il signor Rosmino, un commerciante di peso, che tutti in città conoscevano, dovevano conoscere, e, conseguentemente, per la cassiera, la persona da indicare.

 

Il Caffè Centrale?

Un locale rustico.

Si entrava, il bancone a destra, la cassa sul lato opposto vicino alla porta, due gradini e un bel tavolo da biliardo.

Tavolini in buon numero, là e nella saletta che si apriva a sinistra.

Fumatori, bevitori, giocatori, carte o stecche in mano, dalle undici del mattino in avanti con l’intervallo del mezzogiorno e dipoi fino a notte, fin quando il buon Cesare, il proprietario, riusciva a buttar fuori gli ultimi avventori.

 

Quanto all’azzardo, il Centrale – e così il localaccio che faceva parte della agenzia ippica di via Sacco – si rivolgeva alla gente comune e non certo ai ricchi.

A quelli che giocavano pesante, ai veri amanti del rischio, alla aristocrazia del denaro era dedicato invece il Caffè Socrate di piazza Monte Grappa.

E quanto dovevano aspettare, penare, i giovani – per anni costretti in piedi a guardare – per essere ammessi ai tavoli collocati nei piani superiori.

Tavoli laddove, di notte e fino all’alba, si favoleggiava in città, industriali e grossi commercianti si erano rovinati giocandosi anche l’ultima lira.

Il Socrate, inoltre, a partire dai primi tepori primaverili e fino all’autunno, si allargava sulla piazza, verso la fontana.

In questo, subiva la concorrenza del Caffè Pini, che apriva i battenti nell’edificio posto dirimpetto – tra l’inizio del corso Matteotti e quello di via Marconi – alla costruzione della Camera di Commercio.

I tavolini all’aperto del Pini erano inondati quasi da subito dal sole, un gran bel vantaggio quanto all’ospitalità di avventori comuni, per così dire, del tutto ignari dei molti affanni e delle rare gioie che il gioco, nelle stanze illuminate dalle lampadine e dal neon, riservava ai propri adepti.

L’azzardo era ovviamente proibito nei pubblici locali, ma non di rado – direi, spesso – capitava, in particolare al bar del Tribunale, di cogliere intenti e concentrati, persi, alla bisogna non solo gli avvocati ma perfino i giudici.

Tale, dovunque, la passione, la necessità che occorreva che uno dei giocatori si rivolgesse a qualcuno tra gli astanti per dirgli “Vai tu a pisciare per me che io non posso!”

 

Gli amanti, i patiti del biliardo, avevano ampia facoltà di scelta.

All’italiana, in tutti i Caffè del centro con tavoli di peggiore o migliore fattura, e quelli collocati nelle sale superiori del Pini erano decisamente di classe.

A goriziana, se ben ricordo, in specie al bar Colomba, in viale Borri, oltre l’ospedale.

E come trascurare i Circoli?

Quelli rionali, di quartiere, affumicati, pieni fino a notte fonda di gente dedita alla scopa, al ramino pokerato, alla scala quaranta, alla pinella, sul tardi alla concia, nel mentre in locali separati e più discreti i biliardisti si sfidavano, ‘soldi in buca’, ricordando l’un l’altro il vecchio e saggio detto ‘calma e gesso’.

 

Oggi, non si trova un biliardo a pagarlo oro ed è questa la vera ragione del declino – i bravi, hanno oramai sessanta e passa anni – della comicità cabarettistica, quella che ha fatto grande non solo il Luinese ma tutto il Varesotto.

Era nelle lunghe giornate di pioggia – oh, quanto pioveva! – che i perditempo, a mille, si ritrovavano intorno ai tavoli dove due o quattro signori facevano correre le bilie.

Era in quei frangenti, che dal confronto e dallo scontro verbale continuo tra e con giocatori e spettatori nascevano battute, scenette, racconti, narrazioni poi portati in pagina, nei cabaret, sullo schermo, che adesso giovinotti impalati, soli, ognuno per proprio conto, davanti a un computer, a una macchinetta o un altro marchingegno studiato per rimbecillire neppure si sognano.

 

Le donne?

Capitava di trovarne qualcuna a Campione, al casinò.

Latitanti e certamente assolutamente obliate da tutti, invece, nei luoghi cittadini.

Chi mai, difatti, poteva pensare alla moglie, alle figlie, perfino alle amanti, nel mentre attendeva l’incastro per una scala, memorizzava le carte uscite o studiava il colpo stecca in mano?

 

Certo, parlando di Caffè, impossibile trascurare lo Zamberletti e il Pirola entrambi in corso Matteotti.

Ma erano – il secondo che si è spostato altrove – e sono – il primo – locali del tutto diversi.

Di un differente, più alto livello.

Dove, scommetterei, mai nessuno ha giocato se non, in lontani e per brevi tempi, nella sala superiore dello Zamberletti, proprio il predetto Piero Chiara.

Usava all’epoca che i camerieri servissero in frac e il futuro scrittore faceva in modo che due di loro si posizionassero dietro il solito avversario, un tale noto per la sua superstizione, acché lo innervosissero vestiti come erano “da corvacci del malaugurio”.

E non so cosa diavolo sia successo, anni Settanta declinanti e dipoi negli Ottanta.

Fatto è che a Varese e nel Varesotto – non altrove? – nei bar si smise di giocare.

Così.

Accadde e basta.

 

Sul finire dei Novanta, per iniziativa di un milanese di lontane origini meridionali costà trapiantato, di nome Guido Buono, ha preso vita il ‘Caffè Letterario’.

Da diciassette anni, seguendo le tracce di Guido, organizzo da Angela Zamberletti – vero angelo protettore dell’iniziativa per la sua liberalità – nel salone superiore del suo Caffè in corso, i miei ‘Salotti’ che ad oggi hanno visto partecipi oltre duecentocinquanta letterati, attori, cantanti, cabarettisti e chi più ne ha più ne metta.

 

Ho chiesto appunto ad Angela – e conto, alla fine, di convincerla – di mettere su una di quelle pareti una targa, una lapide, che riporti la magnifica, feroce, indicativa frase pronunciata nel mentre tirava fuori di tasca il denaro per pagare dal già citato Rosmino, esasperato per avere perso a scopa una decina di partite di fila.

Disse, dunque, quel desso al rivale:

“Vorrei avere la tubercolosi per poterti sputare in bocca!!!”

Evviva.

 

14 febbraio 2016

San Valentino

Mauro della Porta Raffo