Una riflessione sul linguaggio della poesia

Le caratteristiche peculiari della lirica moderna, come sono state individuate da autorevoli studiosi (in primis R. Jakobson), possono essere sintetizzate in: autoriflessività, autonomia, polisemia, ambiguità e deviazione dal codice.

Ciò significa che l’interesse del testo poetico è rivolto al messaggio stesso (autoriflessività), che è indipendente da ogni contenuto presupponendo solo se stesso in quanto testuale organico (autonomia), che trasferisce quindi il senso dal piano dell’espressione a quello del contenuto producendo iperconnotatività semantica (polisemia) e trasgressione alle norme codificate del linguaggio (deviazione dal codice).

Uscendo un po’ dal difficile, ciò che qui interessa sottolineare è che il linguaggio della poesia è per sua natura polisenso e ambiguo.

L’autoriflessività e l’autonomia del testo poetico, infatti, pur non eliminando completamente il riferimento, lo rendono ambiguo, con una eccedenza, un “surplus” che permette una molteplicità di letture.
Senza voler ulteriormente insistere su ciò, qui basti a comprendere come l’ambiguità e la polisemia del testo rendono il destinatario (chi legge o ascolta) più che un consumatore un “co-produttore” del testo stesso.

Al destinatario è richiesto un impegno responsabile per colmare i vuoti semantici, ridurre la molteplicità dei sensi, insomma scegliere il proprio percorso di lettura.

Come una delle città fantastiche di Calvino, Zemrude, il senso della poesia è costruito anche dal fruitore “E’ l’umore di chi la guarda che dà alla città di Zemrude la sua forma … non puoi dire che un aspetto della città sia più vero di un altro”.

La corresponsabilità del lettore nella costruzione del messaggio poetico, che proprio per la sua ambiguità coinvolge l’altro nell’interpretazione più di ogni altro tipo di discorso, rende particolarmente creativa l’opera poetica: qualcosa che si fa (poieo) continuamente pur rimanendo se stessa, un’opera aperta e infinibile.

Da ciò deriva un’altra qualità propria della poesia: la sua capacità di rivelare, esprimere e valorizzare anche la soggettività del lettore (oltre ovviamente quella dell’autore).

Sarà anche per l’impegno che richiede al lettore che la poesia oggi, più che in altre epoche, soffre di scarsa diffusione.

I media tecnologici e, in particolare, i mai abbastanza esecrati, volgari e idiotizzanti programmi televisivi abituano ad una ricezione passiva e irresponsabile, alimentano la pigrizia evasiva delle masse dei telespettatori, eliminano ogni sforzo di partecipazione intelligente.

Analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per i social-network che, nell’apparente valorizzazione della partecipazione attiva degli utenti, mascherano il più delle volte la condivisione di linguaggi e contenuti triviali e stupidamente vani.

La poesia invece richiede l’impegno di una fruizione attiva a cui molti ormai sono disabituati.

Insomma, la poesia fa pensare e pensare è faticoso; richiede tempo, impegno, cura e responsabilità, e una collettività addormentata dal dominio sottoculturale della ricezione di spettacoli mass-mediatici bassi e puerili, o dall’utilizzo di miseri e mistificanti luoghi informatizzati di pseudo-relazioni, è sempre meno disponibile a mettersi sul terreno faticoso e impegnativo di un percorso di poesia. (Ovviamente non è mia intenzione demonizzare strumenti tecnologici che contengono anche grandi potenzialità di sviluppo e crescita culturale, ma stigmatizzare l’utilizzo che ne viene comunemente fatto, nella logica di un sistema che li adopera come mezzi di bassa distrazione e di indottrinamento e controllo delle masse).
Ma, per tornare al tema del linguaggio della poesia, penso che questa debba però evitare di diventare, come qualche volta accade, un’incomprensibile insalata di parole.

Essa oggi dovrebbe anzi cercare di restaurare il senso della sua parola proprio in antitesi al mondo sempre più insensato dentro cui siamo trascinati dal tramonto, che appare interminabile e forse intrascendibile, dell’ultima feroce fase del capitalismo informatizzato e ormai globalizzato.

E’ vero che la poesia vuole dirsi al limite dell’indicibile, perché l’urto eversivo contro la gabbia della lingua appartiene da sempre alla sua ineludibile cifra rivoluzionaria, che si realizza al di là anche delle intenzioni dell’autore.

La sovversione della lingua è dunque una delle sue caratteristiche. Infatti la lingua, che è alla base dell’ordine simbolico, rappresenta il più potente strumento di ideologizzazione e asservimento al potere costituito, e la poesia ha invece la proprietà di sovvertire l’ordine e il senso del discorso comune, di usare la lingua in modi inconsueti ed eversivi, di fare balenare altri mondi, di mostrare altre possibilità di sentire e di conoscere.

Ma se il tentare l’indicibile si situa nell’incomprensibile (come accade a troppa lirica moderna) la poesia non può che subire una sconfitta epocale, negandosi ogni partecipazione all’utopia di un progetto (non importa se irrealizzabile) di radicale trasformazione e costruzione di una concreta alternativa per l’umana compagnia e il conversar cittadino.

Pierangelo Scatena