Antonio Rosmini: l’elogio della buona educazione e dell’economia civile

Antonio Rosmini è nato a Rovereto nel 1797 ed è morto a Stresa il primo luglio del 1855. Sacerdote, amico di Alessandro Manzoni, molto vicino a Pio IX, ha scritto libri, come “Le cinque piaghe della Chiesa”, che all’epoca sono stati messi nell’indice dei libri proibiti. Ma la saggezza e l’apertura al dialogo hanno con il tempo avuto il sopravvento e Rosmini non sono è stato riabilitato, ma è stato proclamato beato sotto il Pontificato di Benedetto XVI nel 2007. Ma già Paolo VI negli anni ’60 ebbe a dire  “i suoi libri sono pieni di pensiero, un pensiero profondo, originale che spazia in tutti i campi: quello filosofico, morale, politico, sociale, soprannaturale, religioso, ascetico; libri degni di essere conosciuti e divulgati”.

E’ significativo pensare a come si sarebbe posto oggi Rosmini di fronte ad una crisi economica come quella attuale, una crisi che gli economisti non hanno saputo prevedere e che stentano ancora a comprendere fino in fondo. E allora emerge con chiarezza il giudizio secondo cui ogni squilibrio è determinato da una perdita di valori della società. E c’è un significativo anello di congiunzione tra economia ed educazione: per Rosmini ogni male sociale ha la sua origine nella carenza morale del vivere civile. A questa carenza vi è un solo rimedio: l’educazione. Tuttavia non vi può essere educazione dove domina la povertà e l’emarginazione; e non si può vincere la povertà se non si punta decisamente sull’educazione. Il cammino della cultura, delle scoperte e delle innovazione scientifiche e tecnologiche possono far crescere la società solo come fine si pongono il bene morale delle persone.

Rosmini visse in un periodo in cui la rivoluzione industriale iniziò a segnare la dimensione sociale. La sua famiglia possedeva a Rovereto una manifattura e filatura di seta che arrivò ad occupare quattromila persone: una grande impresa, soprattutto per quei tempi, un’azienda in cui si vedeva tutti i problemi legati alla condizione operaia, al lavoro manuale e ripetitivo, alla variabilità delle condizioni di mercato.

Anche per questo Rosmini, pur non dedicando nessuna opera specifica all’economia, ha dimostrato di avere una sensibilità particolare verso i temi dell’economia, sia negli aspetti generali della supremazia dell’economia di mercato, sia in quelli particolari come la lotta alla povertà e l’integrazione, ora di grande attualità, tra le logiche di mercato e quelle non profit, come afferma con chiarezza l’enciclica Caritas in veritate.

Rosmini è stato forse uno dei pochi filosofi dell’Europa continentale ad aver guardato al nuovo sviluppo economico con un atteggiamento sostanzialmente positivo pur tenendo conto dei costi umani e sociali che la rivoluzione industriale stava facendo emergere. E infatti una delle sue maggiori preoccupazioni era il pericolo che l’Europa moderna fosse attirata sulla strada del progresso economico perdendo di vista i propri valori etici e soprattutto la propria identità spirituale. Se pensiamo al dibattito di questi ultimi mesi sulle radici cristiane dell’Europa non possiamo dimenticare come Rosmini pensasse che la perdita dell’anima europea avrebbe infine portato al deperimento dell’economia in se stessa.

E proprio partendo dal concetto di radici, e quindi di identità, si può comprendere come al centro della società non ci possono essere le ideologie, ma si deve ritrovare sempre e unicamente il valore della persona.

Con un elemento in primo piano, quello della libertà intesa come “esercizio non impedito dei propri diritti, diritti che sono anteriori alle leggi civili”. E uno dei primi diritti è quello della libertà d’insegnamento.

C’è in questa posizione estremamente chiara una precisa denuncia di un rischio che, soprattutto nella società attuale, sembra crescere e approfondirsi: il rischio che, alla luce di una malintesa volontà di non discriminare nessuno, lo Stato si arroghi il diritto di essere l’unico titolare del diritto di educare.

L’istruzione resta una delle maggiori risorse per migliorare l’uomo. Ed è significativo che proprio una delle cinque piaghe della Santa Chiesa sia stata indicata da Rosmini nella scarsa formazione del clero con l’abdicazione dei vescovi dal loro primario ufficio di maestri.

La formazione deve partire dall’educazione alla giustizia, alla bellezza e alla bontà; in altre parole, i giovani vanno educati alla “libertà” e alla costante applicazione dei criteri di giudizio morale per giudicare la realtà. L’uomo può e deve tendere alla perfezione, ma il perfettismo (così come l’utopia) non è di questo mondo: ma non per una incapacità umana, quanto per quella dimensione del peccato originale che solo l’incontro con il Cristo può affrontare e sciogliere.

È libero, secondo Rosmini, colui che esercita la virtù, colui che sviluppa tutte le proprie capacità e potenzialità ricercando sempre e solo il bene morale. È il bene morale che consente ad ogni soggetto umano di avere il massimo rispetto di sé stesso, rifiutando ogni eccesso e evitando atti o parole che possano ostacolare la libertà altrui (ingiustizie, disuguaglianze, soprusi).

E proprio dal profilo economico viene un’altra importante lezione dal pensiero rosminiano. Sicuramente Rosmini aveva studiato e approfondito gli scritti degli economisti classici, da Adam Smith a Jean-Baptiste Say, grandi teorici dell’economia di mercato. Ma molti passaggi dei suoi scritti, senza dimenticare la sua esperienza concreta alla Parrocchia di San Marco nel centro storico di Rovereto, lasciano intravedere una forte influenza dei pensatori italiani che nel Settecento fondarono quella che venne chiamata l’economia civile: quando nel 1753 l’Università di Napoli istituisce la prima cattedra al mondo di economia, chiamandovi a ricoprirla l’abate Antonio Genovesi, la denominazione adottata è proprio “economia civile”. E d’altro canto, l’opera fondamentale del Genovesi ha per titolo “Lezioni di economia civile”, con una nozione che ora è stata riportata in primo piano soprattutto grazie alle opere di Stefano Zamagni e Luigino Bruni.

In questa visione, che peraltro ha trovato una convinta adesione dell’enciclica “Caritas in veritate”, si guarda alla positività del mercato, come strumento di regolazione degli scambi e di tensione al miglioramento dell’efficienza dell’economia, ma si guarda come complemento necessario alla possibilità di introdurre non a fianco, ma all’interno delle logiche di mercato, elementi di gratuità che possano rendere sempre più umana la dimensione economica.

C’è un legame continuo negli scritti di Rosmini tra la condizione umana e la possibilità di un progressivo miglioramento attraverso un’educazione che faccia raggiungere a ciascuno il massimo potenziale delle proprie capacità. E il più grande vantaggio che può essere offerto all’uomo non è di dargli il bene, ma di rendere possibile che egli stesso sia l’autore di questo bene. L’intervento dello Stato, doveroso per affrontare i casi più clamorosi di ingiustizia sociale, deve comunque restare limitato, temporaneo ed eccezionale: un intervento che va esercitato “con prudenza” e affiancato comunque sia a un coerente sostegno alla beneficenza privata, sia ad azioni che stimolino ciascuno a mettere a frutto le proprie capacità.

La difesa del diritto di libertà quindi, ma insieme il solido ancoraggio dei principi morali; il valore della concorrenza e del mercato, ma insieme un ruolo dello Stato per garantire regole certe e l’uguaglianza di fronte alla legge; una forte critica allo statalismo, al dirigismo, al collettivismo, ma insieme il sostegno a una politica economica capace di fondare un equilibrio dinamico tra i fattori materiali e quelli culturali e morali. Lo Stato non può avere come obiettivo quello di un’uguaglianza attraverso la ridistribuzione delle ricchezze: “La beneficenza governativa, ha scritto Rosmini, può riuscire, anziché di vantaggio, di grave danno, non solo alla nazione, ma alla stessa classe indigente che si pretende beneficiare: nel qual caso invece di beneficenza è crudeltà”.

Il sistema di riferimento culturale dell’informazione italiana si muove proprio lungo i parametri dei “diritti civili” e della “laicità”: e questo è vero per la stampa, ma è ancora più vero per un’informazione televisiva in cui prevale quell’effetto spettacolo che rende del tutto naturale la violenza, che giustifica la mancanza di regole e di principi morali, che sacrifica ad una estetica formale quello che viene considerato un ingombrante richiamo dei valori etici.

All’insegna della superficialità e dell’evasione la televisione di oggi si trasforma in esaltazione del relativismo individualistico. Se Rosmini scrivesse ora le cinque piaghe dell’Italia sicuramente metterebbe tra i più gravi problemi sociali quello della televisione e non solo per il conflitto di interessi che nel sistema televisivo ha la sua massima evidenza.

L’Italia è diventata la dimostrazione più palese di come fosse drammaticamente profetica l’analisi di Karl Popper su come la televisione potesse trasformarsi in una cattiva maestra soprattutto dove la competizione portasse ad abbassare sempre di più la qualità dei programmi e la dose di violenza da gettare in pasto ad un pubblico indifferenziato. Molto del disagio sociale di questa nostra Italia va addebitato al piccolo schermo e a chi lo governa: se manca l’ancoraggio sui valori della persona allora tutto diventa possibile. Come diceva il card. Giacomo Biffi: quando non si crede in Dio si è disposti a credere a tutto.

Gianfranco Fabi