La rivoluzione americana
Il rapporto tra gli Stati Uniti e la tradizione anarchica

1° Parte

La costruzione della nazione

 

La società è prodotta dai nostri bisogni, il governo dalla nostra malvagità; la prima promuove la felicità positivamente unendo i nostri sentimenti di amicizia, il secondo negativamente reprimendo i nostri vizi.

La prima incoraggia i rapporti, il secondo crea distinzioni.

La prima è un patrono, il secondo è un punitore.

In qualsivoglia condizione la società è sempre una benedizione; il governo, persino al suo meglio, non è altro che un male necessario. […]

Per ottenere una visione chiara e giusta del progetto e del fine del governo, supponiamo che un piccolo numero di persone si sistemi in qualche luogo molto isolato della Terra, staccato dal resto […].

In questa condizione di libertà naturale, la società sarà il loro primo pensiero. […]

La benedizione reciproca [della società] renderebbe superfluo e non necessaria l’obbligazione della legge e del governo sin tanto che essi restano perfettamente giusti uno verso l’altro”.

 

Queste frasi aprono il più popolare libello prodotto nel corso della Rivoluzione americana: Common Sense, pubblicato il 10 gennaio 1776 a Filadelfia, pochi mesi dopo i primi scontri militari tra i ribelli e le forze inglesi, e scritto dall’emigrato inglese Thomas Paine, spesso contato tra i ‘Padri fondatori’ della nuova nazione.

L’opera sembra cogliere (e indirizzare) gli umori di buona parte della popolazione in armi contro il re tiranno d’oltreoceano.

Tra i suoi motivi conduttori troviamo un elemento centrale dell’immaginario politico delle colonie britanniche, appunto quello indicato nelle considerazioni sopra citate: una diffusa sensazione di sospetto nei confronti dei poteri costituiti e l’idea che l’associazione civile fondata sulla libertà naturale (come quella della società ‘secessionistica’ immaginata da Paine) sia sempre superiore a qualsivoglia governo.

A ciò va aggiunta una forte enfasi sull’individuo autonomo e responsabile: non a caso, nella bozza iniziale della Dichiarazione d’indipendenza Thomas Jefferson pone tra le verità ‘sacre e innegabili’ quella secondo cui «tutti gli uomini sono creati eguali e indipendenti [equal & independant]» (il Congresso casserà poi il secondo aggettivo dalla versione definitiva, ritenendolo pleonastico, o forse ‘pericoloso’), con una locuzione che avrà un certo successo (per esempio, il primo articolo della Declaration of Rights della Costituzione del Massachusetts, opera di John Adams, si apre con la dichiarazione che “tutti gli uomini sono nati liberi e indipendenti [free and independent]”).

Insomma, sin dall’atto costitutivo della nazione alcuni americani si segnalano, come aveva notato Diderot, per porre a valore centrale costitutivo del loro ‘esperimento’ un particolare tipo di libertà, in cui il linguaggio del liberalismo lockiano e giusnaturalistico si innesta su una vicenda storica fondata sul principio dell’autogoverno, su una concezione egualitaria della cittadinanza, sulla valorizzazione della dimensione individuale, su uno scetticismo di fondo nei confronti delle autorità costituite e del potere che esse gestiscono ‘necessariamente’.

In altri termini, una cultura antigerarchica, individualistica e prepotentemente anti-istituzionale, capace strutturalmente di creare le premesse per far slittare i presupposti del liberalismo in una direzione libertaria.

E infatti il rapporto tra gli Stati Uniti e la tradizione anarchica è originale in senso assoluto: una vera e propria continuità nella discontinuità.

In sostanza, ogni paio di generazioni gli americani hanno riscoperto, a volte (soprattutto nel Novecento) senza alcun legame diretto con le esperienze precedenti, le idee portanti dell’ethos libertario, adattandole a nuovi contesti e nuove situazioni.

Tra gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento alcuni abolizionisti estremisti del Nord (in particolare della Nuova Inghilterra), ancora fortemente influenzati da una ricca tradizione religiosa d’opposizione dalle forti sfumature antinomiane e anti-istituzionali, giungono alla conclusione che tutti i governi, anzi tutte le forme di autorità politica, sono in sé illegittime, violente e coartanti nei confronti del vero cristiano.

Da questi ambienti si ramificano, negli anni Cinquanta, gruppi e individui che creano comunità, propagandano idee ‘eretiche’ (per esempio il free love) e cominciano a elaborare una via ‘americana’ all’anarchismo, gradualistica e individualistica.

Dopo la Guerra Civile (1861-1865), che accelera i processi di accentramento statali e federali, questa tradizione prende una coloritura consapevolmente anarchica, che da un punto di vista precocemente antitotalitario fa i conti anche con le varianti europee di orientamento comunistico.

Tale corrente ‘indigena’ sembra davvero esaurirsi – anche a causa della penetrazione in America dell’anarco-comunismo europeo – tra fine Ottocento e inizio Novecento.

Ma, ed è questo l’elemento che colpisce, nel corso del Novecento viene periodicamente rivitalizzata, se non riscoperta: nel secondo decennio del secolo dal radical-democratico deweyano Randolph Bourne; negli anni Quaranta dagli intellettuali newyorchesi radunati intorno alla rivista politics (soprattutto Dwight MacDonald e Paul Goodman); negli anni Sessanta dagli adepti della controcultura, alcuni dei quali si riterranno poi esponenti di un ‘anarchismo intuitivo’, nonché dal gruppo dei libertarians, che, provenienti dall’ala individualistica e liberistica del partito repubblicano, proporranno una loro originale mistura tra le correnti ‘indigene’ e le intuizioni economiche della Scuola Austriaca, una mistura divenuta nota come anarco-capitalismo.

Questo particolare rapporto tra l’immaginario statunitense e la tradizione libertaria trova spiegazione nella natura della cultura americana e nella stessa ‘fondazione’ della nazione: agli inizi del Novecento la polemista anarchica Voltairine de Cleyre sostiene che i padri fondatori “presero come punto di partenza per trarre [il principio del] minimo di governo le stesse basi sociologiche dai quali gli anarchici moderni traggono la teoria del nessun-governo: ovvero, che la libertà eguale è l’ideale politico”; mezzo secolo dopo Paul Goodman, riflettendo sulla concezione americana della libertà, la trova consonante con quella “piuttosto specifica ipotesi social-psicologica” che è alla base dell’anarchismo: ovvero, “che una condotta forte, aggraziata e intelligente si verifica solo quando abbiamo una risposta diretta e non coartata all’ambiente fisico e sociale; che nella maggior parte delle cose umane, la costrizione, le direttive dall’alto verso il basso, la pianificazione burocratica, i curricoli pre-ordinati, le prigioni, la coscrizione e gli stati producono più male che bene”.

“Penso che questa ipotesi sia vera, ma che lo sia o no”, continua il ‘patriota’ Goodman un po’ scherzosamente, “sarebbe certamente anti-americano negarlo”.

 

Torniamo alle origini.

Alla radice del popolamento britannico del nord America troviamo di fatto un protestantesimo del dissenso: prima i separatisti provenienti dalle Province Unite; poi l’esodo puritano; infine, dopo la Restaurazione, i ‘settari’ indipendenti, battisti e quaccheri.

La ragion d’essere di alcune delle tredici colonie (in particolare quelle della Nuova Inghilterra, la Pennsylvania, persino il ‘cattolico’ Maryland) è strettamente legata a motivi di ordine religioso che rimandano a un’identità da custodire e difendere.

Per buona parte del Seicento tale identità sembra riassumersi, per gli abitanti della Nuova Inghilterra, in un sistema di governo che potremmo definire di democrazia comunale elitaria: all’esercizio del potere partecipano, in forma di democrazia diretta, tutti i maschi adulti che fanno parte della Chiesa.

Nel 1631, il Massachusetts riserva la piena cittadinanza e il godimento dei diritti politici ai soli ‘santi’, i quali, separatisi dal mondo ‘corrotto’, hanno costituito una ‘società’ fondata su un patto esplicito: i dirigenti della colonia si assicurano così che la comunità politica coincida con la Chiesa, costruendo un regime che, pur fondato su basi strutturalmente democratiche, aspira a esercitare un potere ‘totale’ sia sui cittadini sia sui non-cittadini.

Tuttavia, già nella seconda metà del secolo, nelle zone settentrionali comincia a registrarsi l’impatto delle nuove idee provenienti dalla madrepatria, con la diffusione (se non l’accettazione) di concezioni più ampie della vita religiosa e della tolleranza; i nuovi arrivati (spesso di orientamento ‘settario’) propongono stili di vita differenti; sul tema del ‘patto’ si innestano suggestioni contrattualistiche e giusnaturalistiche, che permettono di universalizzarne le premesse egualitarie nella sfera della politica.

Verso la fine del secolo molte chiese della Nuova Inghilterra adottano un sistema di open communion, svuotando di fatto i presupposti elitari del loro stesso esperimento ‘secessionistico’ e valorizzandone, nel contempo, i contenuti sperimentalistici: un cinquantennio dopo la Rivoluzione Alexis de Tocqueville può così descrivere il comune della Nuova Inghilterra come il perno di una civiltà disegnata dall’istanza congiunta di libertà e autonomia, notando che “per tutto ciò che riguarda loro stessi, i comuni sono rimasti corpi indipendenti; e tra gli abitanti della Nuova Inghilterra non se ne trova uno che riconosca al governo dello Stato il diritto d’intervenire nella direzione degli affari puramente comunali”.

È questo l’intreccio che costituisce l’eredità del protestantesimo – puritano e dissenter – alla cultura nazionale.

A metà del diciottesimo secolo, quando gli americani cominciano a formulare una concezione della cittadinanza in termini di identità e diritti contro le nuove forme autocratiche che va prendendo il dominio britannico, le loro argomentazioni hanno riferimenti antropologici, politici e religiosi alquanto diversi (il contrattualismo giusnaturalistico; il repubblicanesimo dei primi whigs; l’etica e l’epistemologia dei pensatori scozzesi; l’appello illuminista alla raison), ma si innestano comunque su una sensibilità, una fisionomia culturale, un ethos plasmati dall’esperienza del dissenso protestante: il riconoscimento del primato della ‘coscienza’; la valorizzazione etica della formula dell’autogoverno; il principio della tolleranza come regola della convivenza civile; la consapevolezza dell’antitesi tra le istituzioni positive e lo sviluppo autonomo dell’individualità.

Non a caso, la questione della piena libertà religiosa – intesa come eliminazione di ogni rapporto tra Chiesa e Stato – sarà uno dei fili conduttori del dibattito nell’età della Rivoluzione.

La letteratura, i diari, i personal papers, le opere di storia e di politica, i documenti istituzionali testimoniano – tra Sei e Settecento – una presenza decisiva di linguaggi, topoi e tematiche legati a questa tradizione: anche nelle colonie del Sud, modellate da una cultura marcatamente più gentilizia e più simile a quella della madrepatria, assistiamo all’affermazione di paradigmi analoghi a quelli dominanti nelle zone settentrionali.

Si pensi al seguente brano di Thomas Jefferson, costruito sull’incrocio tra l’argomentazione fallibilistica, il rimando all’esperienza storico-culturale del cristianesimo protestante e la consapevolezza del ‘pericolo’ che le istituzioni costituiscono per l’individualità:

“La ragione e la libera ricerca sono i soli agenti efficaci contro l’errore.

Date loro campo libero e sosterranno la vera religione portando tutte quelle false di fronte al loro tribunale, mettendole alla prova della loro capacità d’indagine.

Esse sono i mortali nemici dell’errore, e solo dell’errore.

Se il governo di Roma non avesse permesso la libera ricerca, il Cristianesimo non avrebbe mai avuto successo.

Se all’epoca della Riforma la libera ricerca non fosse stata tollerata, le corruzioni del Cristianesimo non sarebbero mai state eliminate.

Se fosse repressa ora, le corruzioni attuali verrebbero protette e ne sarebbero incoraggiate di nuove.

Se il governo ci prescrivesse medicine e diete, i nostri corpi sarebbero nella stessa condizione in cui si trovano ora le nostre anime”.

 

È stato l’inglese Edmund Burke, nel suo celebre discorso sulla necessità di conciliazione con le colonie del 22 marzo 1775, a cogliere con grande potenza retorica la presenza di tale elemento nell’immaginario americano e a indicarne la matrice:

“In questo nuovo popolo la religione, sempre un principio di energia, non è affatto consumata o danneggiata, e questo loro modo di professarla è anche una delle cause principali del loro libero spirito.

Il popolo [delle colonie] è protestante, e di quel genere che è più avverso a ogni implicita sottomissione della mente e dell’opinione. Questa persuasione non è solo favorevole alla libertà, ma è costruita su di essa. […]

Tutto il protestantesimo, anche il più freddo e passivo, è una specie di dissenso.

Ma la religione prevalente nelle nostre colonie del Nord è un raffinamento del principio della resistenza: è la dissidenza del dissenso, è il protestantesimo della religione protestante”.

Lo scoppio della Rivoluzione mette in moto una riflessione collettiva sul senso e la natura della costruzione della nazione e dello Stato federale, una riflessione che riflette da presso la preoccupazione dominante degli americani per le modalità di preservazione e protezione della libertà.

Si tratta di una dinamica a tutto campo: non solo le differenti élite del Paese propongono soluzioni diverse, quasi antitetiche, del problema Stato, ma lo fanno in presenza di gruppi e ceti ‘subordinati’ che spesso sono in grado di far sentire la propria voce e di proporre a loro volta concezioni della cittadinanza e del potere politico che riflettono le ansie, le consuetudini e le esigenze di quei tocquevilliani ‘corpi indipendenti’ – comunità urbane e di frontiera – abituati a una misura di autonomia e libertà cui non si intende rinunciare.

A partire dagli anni Quaranta del Settecento l’Atlantico sembra allargarsi sempre più: l’opinione pubblica delle colonie e il governo britannico cominciano ripetutamente a dividersi su questioni politiche, economiche, fiscali e militari.

Sino a questo momento il sistema coloniale si è retto sulla convivenza tra gli organi del governo di Londra (governatori con potere esecutivo, consigli provinciali di nomina regia, apparati burocratici) e le assemblee locali (ovvero le istituzioni previste nelle iniziali concessioni regie alle compagnie o ai privati che avevano fondato le colonie), elette con suffragio molto ampio, che spesso si attribuiscono funzioni di rappresentanza e compiti legislativi influenzando le politiche economiche e fiscali, sia pure in un sistema commerciale complessivo di carattere mercantilistico che favorisce la posizione della madrepatria (gli americani, in sostanza, possono importare solo dall’Inghilterra o tramite mercanti inglesi; possono esportare solo in Inghilterra; devono limitare le manifatture interne).

Tutto ciò muta con il governo Pelham (in carica dal 1742): l’Inghilterra, alle prese con le nuove esigenze di uno scenario mondiale imperniato sulle colonie, con gli impegni della costruzione di una adeguata struttura imperiale e con la concorrenza francese, cambia indirizzo, passando da una politica di compromesso con le élite americane a una politica di rigida affermazione della superiorità legislativa ed esecutiva britannica, creando nuove cariche ed uffici per controllare più efficacemente i riottosi sudditi d’oltre Atlantico.

Tale indirizzo si inasprisce dopo la Guerra dei Sette Anni (1756-1763, combattuta ferocemente in Nord America): l’amministrazione Grenville, conquistato il Canada, riorganizza l’assetto dei possedimenti d’oltremare bloccando l’espansione a Ovest delle tredici colonie; rafforza i controlli doganali, crea nuovi tribunali, ostacola ancor più la possibilità di commerciare; infine, impone nuove tasse, una delle quali, il famoso Stamp Act (tassa sul bollo), innesca una prima presa di posizione, piuttosto vivace, dell’opinione pubblica americana, che comincia a porre domande – o meglio, a porsi domande – sul senso dell’esperienza delle colonie e a rivendicare un ruolo meno subordinato rispetto alla madrepatria. E tuttavia i governi britannici che si susseguono al potere tra gli anni Sessanta e Settanta (Bute, Chapman, Grafton e North), pur seguendo una politica ondeggiante, insistono nel tentativo di ‘domare’ le colonie con tasse, imposizioni e impopolari provvedimenti coercitivi (per esempio, il ridisegnamento della struttura del governo in Massachusetts dopo il famoso Boston Tea Party): una escalation che alla fine del 1774 porta gli americani a convocare un congresso e gli inglesi a proclamare lo stato di rivolta, con i primi scontri tra esercito regolare e milizie locali agli inizi del 1775.

Le successive vicende – la Dichiarazione d’Indipendenza (1776), la vittoria a Saratoga (1777), la resa inglese a Yorktown (1781), il trattato di pace di Parigi (1783) – sono quasi leggenda.

Nel momento in cui l’autorità della madrepatria viene a mancare, le colonie costruiscono propri organi di autogoverno, spesso prodotti da un’aspra lotta tra chi insiste per soluzioni istituzionali marcatamente democratiche (in genere una sola camera di breve durata, con rappresentanti immediatamente responsabili di fronte agli elettori) e chi invece desidera una soluzione più equilibrata (due camere con poteri ampi e per certi versi sottratti al controllo del ‘popolo’, come la facoltà da parte del corpo più ristretto di esercitare il veto, cariche più stabili, giudici nominati dal legislativo, eccetera).

Prevale in genere il secondo approccio (con l’eccezione della Pennsylvania, che diventa il modello dei democratici più radicali).

I due orientamenti riflettono diverse concezioni della libertà: per i ‘democratici’, scrive nel 1776 l’autore di un anonimo The People the Best Governors, “per quanto esiste un potere sui diritti del popolo, per tanto il popolo ne risulta spogliato”; un corpo ristretto con diritto di veto “ha un peso tale nel legislativo da essere un sine qua non”, sostituendosi, di fatto, al popolo stesso; per i fautori di un governo più elitario il pericolo sta invece nel ‘popolo’ stesso, nota per esempio John Adams nello stesso anno: “Un popolo il cui governo sta in una sola assemblea non può restare a lungo né libero né felice”, scrive, poiché una singola assemblea è facilmente influenzabile, tende a esonerare se stessa dagli oneri cui sottopone i cittadini, non è adatta a esercitare il potere esecutivo e quello giudiziario, è propensa a promulgare leggi arbitrarie.

I democratici sembrano così rappresentare le istanze di quelle comunità – rurali e di frontiera, ma non solo – che vedono minacciate la loro autonomia da un forte governo centrale, mentre gli elitari, in nome di un governo forte ed efficace che possa impedire rivolgimenti sociali e/o politici, non intendono concedere più spazi di autonomia del necessario.

Il confronto tra queste due tendenze è scandito da una serie di episodi rivelatori: l’insurrezione prerivoluzionaria dei Regolatori della Carolina del Nord (1769-1770), il successo politico dei ‘costituzionalisti’ (cioè i democratici) in Pennsylvania (1776), la cosiddetta ribellione di Shays, in cui gruppi organizzati di farmers marciano su Boston (1786), sino alla rivolta – meno pittoresca di quanto si possa pensare – dei fabbricanti di whiskey delle zone occidentali della Pennsylvania, del Maryland, della Virginia e del Kentucky (1794), una rivolta schiacciata da Washington in persona, alla guida di un esercito numeroso quasi quanto quello che aveva guidato nel corso della Guerra d’Indipendenza.

Negli anni Ottanta questo confronto acquista un peculiare respiro politico-istituzionale, quando parte dell’opinione pubblica comincia a ritenere insufficienti gli Articoli della Confederazione firmati nel 1781.

Il documento prevede un federalismo debole: al governo centrale – e forse ‘governo’ è un termine troppo forte per le istituzioni federali di questo periodo – spetta decidere in materia di politica estera, di conio della moneta, di servizio postale e di gestione (limitata dalle prerogative dei singoli Stati) dell’esercito federale.

Tale soluzione lascia ampio spazio di manovra ai diversi Stati e, al loro interno, agli stessi democratici, che possono fare leva su istituzioni consolidate a livello locale: chiese protestanti, assemblee comunali, ‘parlamenti’ provinciali e statali.

Paul Goodman ha scritto una pagina acuta sull’argomento:

“Tra tutti i popoli politicamente avanzati, gli americani sono gli unici a esser partiti da un’età d’oro storica dell’anarchia.

Dopo essersi liberati del Re […] non ebbero fretta alcuna di trovarsi un altro sovrano o anche di ricostruire una concezione di sovranità. […]

In teoria la sovranità risiedeva nel Popolo.

Ma […] non si ha l’impressione, in questa congerie di famiglie, comunità costruite sul faccia-a-faccia e relazioni sociali pluralistiche, che ci fosse qualcosa di simile a una Volontà generale, eccetto quella di essere lasciati in pace.

Nondimeno, un tipo particolare di sovranità c’è – è chiaro dal comportamento degli americani.

È quella costituita da persone politiche che vanno avanti, da una serie continua di atti costituzionali esistenziali, come si evince dall’invenzione della Dichiarazione, degli Articoli e della Costituzione, che ovviamente pensavano di poter continuare a riscrivere”.

Il termine ‘anarchia’ sta quindi a indicare, nell’originale rilettura goodmaniana dell’esperimento americano, un’organizzazione sociale fondata sui principi del decentramento e dell’autonomia e sostenuta da una forte enfasi sulla sperimentazione: in un certo senso, l’accezione sarà accettata nei lustri successivi dai sostenitori della necessità di un forte governo centrale dalle strutture rigide, che spesso definiranno la condizione prodotta dagli Articoli della Confederazione in negativo, appunto come ‘anarchia’.

In questo contesto l’’invenzione’ della Costituzione sembra però mirare non al consolidamento di questo vivace ‘esistenzialismo’ costituzionale, ma piuttosto a metter fine alla situazione di ‘anarchia’ che lo presuppone.

È questa l’interpretazione che per esempio propone Alexander Hamilton, destinato a divenire uno dei massimi portavoce delle istanze federali, nel settembre del 1787, quando viene presentato ufficialmente il progetto della nuova Costituzione (che lui stesso, in qualità di delegato del New York, ha contribuito a stilare): a suo parere il documento si fonda sulla “buona volontà dei gruppi commerciali [commercial interest] in tutti gli Stati, che si sforzeranno in tutti i modi di stabilire un governo capace di regolare, proteggere ed estendere il commercio dell’Unione” e sulla “buona volontà di parecchi proprietari [men of property] in molti Stati, che vogliono un governo dell’Unione capace di proteggerli dalla violenza domestica e dalla depredazioni che lo spirito democratico è propenso a usare nei confronti della proprietà”, mentre tra le ragioni degli oppositori della nuova Carta si registrano sia “la refrattarietà [disinclination] del popolo alle tasse e ovviamente a un governo forte”, sia la democratic jealously dello stesso popolo a fronte della “comparsa di istituzioni che sembrano calcolate per riporre il potere della comunità in poche mani”.

Le opinioni di Hamilton riecheggiano in molti dei suoi contributi ai Federalist Papers, un insieme di articoli scritti tra l’ottobre del 1787 e il giugno del 1788 in collaborazione con John Jay e il futuro quarto presidente James Madison.

In uno di questi contributi il leader federalista, che nel corso della Convenzione si dichiara addirittura favorevole all’istituto monarchico e che negli anni successivi diverrà il leader di quel ‘partito anglo-monarchico-aristocratico’ (termine di Jefferson) pronto a potenziare sino in fondo i poteri dello Stato federale, lamenta la mancanza, negli Articoli della Confederazione, di una ‘garanzia’ che permetta agli Stati di intervenire nel caso in uno di essi si verifichino disordini: “Una fazione che ha successo potrebbe erigere una tirannia sulle rovine dell’ordine e della legge, mentre dall’Unione non potrebbe costituzionalmente venire alcun soccorso agli amici e ai sostenitori del governo.

La tempestosa situazione da cui è appena emerso il Massachussetts mostra che i pericoli di questo genere non sono puramente teorici”. Il riferimento è alla ribellione di Shays, che tra l’estate e l’inverno del 1786 porta i farmers del Massachussetts occidentale, privati del diritto di voto e della possibilità di essere eletti a cariche pubbliche dalla Costituzione elitaria del 1780 e minacciati di sequestro delle loro proprietà per non aver pagato le tasse, a marciare su Boston: per molti l’episodio è il paradigma del ‘disordine’ democratico.

La Costituzione si rivelerebbe quindi un mezzo per evitare altri episodi dello stesso genere.

È questo il parere di Washington, per il quale “non c’è alternativa tra l’adottarla e l’anarchia”: l’accezione del termine è quella tradizionale (estrema confusione), ma Goodman l’avrebbe certamente trovata particolarmente esplicativa del contesto degli anni Ottanta.

Lo stesso Madison, in seguito uno dei più efficaci portavoce del repubblicanesimo democratico jeffersoniano, nel Federalist n. 10 offre una celebre apologia del ruolo del pluralismo in una società complessa, sostenendo che la pluralità delle opzioni sociali, politiche e religiose garantisce che nessuna di questa possa riuscire a monopolizzare l’orientamento del governo e che una grande repubblica, proprio in virtù dell’esistenza al suo interno di una “più grande varietà di partiti e di interessi”, offre la migliore garanzia possibile contro tale pericolo.

Ma Madison chiarisce anche, all’unisono con Hamilton, che in tale ‘varietà’ alcune opzioni vanno condannate e che la Costituzione è proprio lo strumento per impedire che esse tracimino da uno Stato all’altro: “La mania per la cartamoneta, per l’abolizione dei debiti, per la divisione equa della proprietà, o altri progetti altrettanto impropri e malvagi”.

In altri termini, la posizione di Madison illustra al meglio la strategia del liberalismo settecentesco: condizione essenziale per la libertà di sperimentare è una quanto mai opportuna limitazione di questa stessa libertà, in un’ottica che prevede l’imposizione di una specifica gerarchia di valori.

Pietro Adamo