«Il loro unico obiettivo era umiliarci»

Pubblichiamo in italiano l’articolo scritto dall’ex ministro greco Yanis Varoufakis pubblicato su “Le Monde Diplomatique”, edizione Agosto 2015 – MdPR

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« Il loro unico obiettivo era umiliarci »

Racconto dell’ex-ministro delle finanze greco.

Per sei mesi, sola contro tutti, la Grecia è stata inchiodata al palo dai suoi partners durante innumerevoli e interminabili riunioni. L’Unione europea ha svelato, in tali occasioni, un volto intrattabile, vendicativo che a volte ha sorpreso. Yanis Varoufakis, ministro greco delle finanze durante questi contrasti Bruxelles, Berlino e Atene, torna sui vari episodi della guerra dei nervi che ha vissuta.

 

Yanis Varoufakis, agosto 2015

Nel 2010, lo Stato greco ha perso la sua capacità di onorare i debiti. In altre parole, è diventato insolvente e si è visto privare dell’accesso ai mercati dei capitali.

Preoccupata di evitare il default di banche francesi e tedesche già fragili, che avevano prestato miliardi ai governi greci dimostratisi altrettanto irresponsabili, l’Europa ha deciso di accordare ad Atene il piano di aiuti più importante che la storia ricordi. Ad una condizione: che il paese proceda ad una consolidazione del budget (fenomeno meglio conosciuto con il nome di austerità) di una ampiezza mai immaginata in precedenza. Non è stata una sorpresa che l’operazione abbia provocato un crollo del reddito nazionale senza precedenti dai tempi della Grande Depressione. In tal modo si è instaurato un circolo vizioso: la deflazione (1), conseguenza diretta dell’austerità, ha reso più pesante il fardello del debito e proiettato l’ipotesi di un suo rimborso nella dimensione delle chimere, aprendo di fatto la porta ad un aggravamento della crisi.

Per cinque anni, la « troïka » dei creditori —il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca centrale europea (BCE) e la Commissione europea che rappresenta gli Stati membri che avevano fatto prestiti ad Atene – si è intestardita in questa impasse, alla quale gli specialisti hanno anche dato nome: extend and pretend, o strategia del « come se ». Ciò consiste nel prestare sempre più soldi ad un debitore  insolvibile esattamente come se non lo fosse, in modo da non dover registrare perdite sui suoi titoli. Più si ostinavano i creditori, più la Grecia sprofondava nella crisi economica e sociale, e meno diventavano possibili le riforme. Nel frattempo le perdite potenziali dei creditori gonfiavano e gonfiavano in modo inarrestabile.

E’ questa la ragione della vittoria del nostro partito, Syriza, alle legislative dello scorso gennaio (2015). Se la popolazione fosse stata davvero convinta che la Grecia poteva farcela, noi non saremmo stati eletti.

Il nostro mandato era molto chiaro: finirla con la strategia del “come se” e con la conseguente austerità, un cocktail che aveva già fatto mordere la polvere al settore privato greco; dimostrare che, con l’assenso popolare, potevamo operare le riforme profonde di cui il paese necessita.

Durante la mia prima riunione all’Eurogruppo (2), l’11 febbraio, ho lasciato ai miei interlocutori un messaggio semplice: « Il nostro governo vuole essere un partner degno di fiducia. Faremo tutto ciò che occorre per trovare un terreno d’intesa con l’Eurogruppo basandoci su di una strategia in tre punti per rispondere alle difficoltà economiche della Grecia: 1. Una serie di riforme profonde miranti al miglioramento dell’efficacia delle nostre istituzioni nella guerra alla corruzione, all’evasione fiscale, l’oligarchia e la rendita; 2. il risanamento delle finanze dello Stato grazie ad un’ eccedenza primaria (3) modesta ma valida, che non richiede sforzi eccessivi al settore privato; 3. una razionalizzazione, o un nuovo profilo, della struttura del nostro debito, in modo da ottenere questo eccedente primario e il tasso di crescita richiesto per ottimizzare il rimborso dei nostri creditori. »

Qualche giorno prima, il 5 febbraio, avevo reso la mia prima visita a Wolfgang Schäuble, il ministro delle finanze tedesco. Avevo cercato di rassicurarlo; poteva contare su di noi per formulare delle proposte in direzione non solo dell’interesse del popolo greco ma di tutti i popoli europei – tedeschi, francesi, slovacchi, finlandesi, spagnoli, italiani, ecc.

Ahimè, nessuna delle nostre nobili intenzioni suscitava il minimo interesse dei signori alla guida dell’Unione. Ne abbiamo fatto duramente esperienza nei cinque mesi di negoziati che seguirono…

Il 30 gennaio, qualche giorno dopo la mia nomina a ministro delle finanze, venne a trovarmi Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo. Erano passati pochi minuti e subito mi chiese cosa pensavo di fare a proposito del memorandum, l’accordo che il precedente governo greco aveva firmato con la « troïka ». Gli ho risposto che il nostro governo era stato eletto proprio per rinegoziare; in breve, che avremmo sollecitato la revisione, a grandi linee, delle politiche budgetarie e delle misure che avevano causato tanti disastri nel corso degli ultimi cinque anni: caduta di un terzo del reddito nazionale e mobilitazione della società contro l’idea stessa di riforma.

La risposta di Dijsselbloem fu tanto immediata quanto categorica: « Non funzionerà. O il memorandum o il fallimento del programma. » In altri termini: o accettare le politiche imposte ai governi precedenti (anche se eravamo stati eletti per rimetterle in discussione dato che avevano miseramente fallito), o le nostre banche sarebbero state chiuse. Ecco, in termini concreti, cosa implica un “fallimento di programma” per uno Stato membro che si ritrova escluso dai mercati:  la BCE taglia qualsiasi finanziamento alle sue banche  che non possono perciò far altro se non chiudere le loro porte e mettere fuori servizio gli impianti di distribuzione dei contanti.

Questo non è stato l’unico “vago” tentativo di esercitare un ricatto presso un governo appena eletto – e eletto democraticamente. Durante la riunione dell’Eurogruppo undici giorni più tardi, Dijsselbloem ha confermato il suo disprezzo per i più elementari principi democratici. Ma Schäuble lo ha addirittura superato. Il francese Michel Sapin, ministro delle finanze, aveva appena preso la parola per invitare ognuno a trovare una modalità che conciliasse la validità dell’accordo in vigore con il diritto del popolo greco a conferirci mandato per rinegoziarne aspetti importanti. Intervenendo subito dopo di lui, Schäuble non ha perso un attimo nel rimettere Sapin a quello che lui evidentemente stimava essere il suo posto: « Non possiamo permettere a delle elezioni di cambiare le cose », ha tagliato corto benché una larga maggioranza dei ministri presenti  dissentisse.

Al termine di quella stessa riunione, mentre preparavamo la dichiarazione comune per la pubblicazione, ho chiesto che affiancassimo il termine “emendato” ad un riferimento al memorandum. Si trattava di una frase in cui il nostro governo si impegnava a rispettarne le condizioni. Schäuble ha subito posto il veto alla mia proposta, argomentando che non era possibile rinegoziare l’accordo col solo pretesto del nuovo governo eletto. Dopo qualche ora passata a cercare di uscire da questa impasse, Dijsselbloem mi ha messo in guardia contro un« naufragio imminente del programma», cosa che si sarebbe tradotta nella chiusura delle banche il 28 febbraio, se avessi insistito nel voler aggiungere “emendato” accanto a quel passaggio nel testo del memorandum. Il primo ministro Alexis Tsipras mi ha invitato a lasciare la riunione senza che ci fossimo messi d’accordo su un comunicato, preferendo ignorare la minaccia di Dijsselbloem, che non ebbe poi effetti pratici immediati. Ma fu solo una questione di tempo.

Ho perso il conto di quante volte sia stato agitato davanti a noi lo spettro della chiusura delle nostre banche quando ci rifiutavamo di accettare un programma che aveva largamente dimostrato la propria inefficacia. I creditori e l’Eurogruppo rimanevano sordi alle  nostre argomentazioni di tipo economico. Esigevano la nostra capitolazione. Mi hanno perfino rimproverato di aver osato “ far loro la lezione”…

Ecco, nei fatti, l’atmosfera nella quale si sono svolti i negoziati con i creditori: la minaccia. E avevamo velocemente capito come non si trattasse certo di parole al vento. Ma non eravamo disposti ad abbassare lo guardia o ad abbandonare la speranza che l’Europa potesse cambiare atteggiamento.

Un mese prima della nostra elezione, il precedente governo, in combutta con il governatore (già ministro delle finanze dello stesso governo) della Banca di Grecia, aveva scatenato, a titolo d’avvertimento, un mini-panico bancario.

Qualche settimana dopo la nostra entrata al governo, la BCE moltiplicava gli avvertimenti in merito alla chiusura dei rubinetti che regolavano i finanziamenti al sistema bancario greco. Nel momento meno opportuno per l’Eurogruppo, non faceva che incentivare la fuga dei capitali, fatto che avrebbe “giustificato” la chiusura degli sportelli, proprio come ci aveva avvertiti Dijsselbloem.

L’entrata dei tecnocrati nel giro delle negoziazioni non ha fatto che confermare i nostri timori. In pubblico i creditori si auguravano di recuperare il proprio denaro e che la Grecia attuasse le riforme. In realtà non avevano che un obiettivo: umiliare il nostro governo e obbligarci a capitolare, anche se ciò determinava per loro stessi, e definitivamente, l’impossibilità di recuperare le somme prestate o anche il fallimento del programma di riforme che noi soltanto potevamo convincere i Greci ad accettare.

A più riprese abbiamo proposto di concentrare i nostri sforzi legislativi su tre o quattro aree, in accordo con le “istituzioni”: misure miranti a limitare l’evasione fiscale, a proteggere il fisco dalle pressioni dei poteri politici ed economici, a lottare contro la corruzione per l’attribuzione dei contratti pubblici, a riformare il sistema giudiziario, ecc. Ogni volta la risposta è stata la medesima: “certamente no!” Non potevamo votare per alcuna legge prima che fosse terminato l’esame approfondito della nostra situazione. Durante le negoziazioni in seno al “gruppo di Bruxelles (4)”, ci veniva chiesto, per esempio, di presentare il nostro piano di riforma dell’IVA; bene, ancor prima che potessimo giungere ad un accordo su questa questione, i rappresentanti della « troïka » decidevano di passare alla riforma delle pensioni. Appena avevano finito di ascoltare le nostre proposte che stimavano ottime per il cestino della carta, passavano, altro esempio, al diritto del lavoro. Sbarazzatisi della nostra offerta anche in questo settore, bisognava affrontare il tema delle privatizzazioni; e così di seguito. In tal modo le discussioni passavano da un tema all’altro senza che potessimo metterci d’accordo su alcunché e men che meno negoziare seriamente. Per lunghi mesi, i rappresentanti della « troïka » si sono impegnati nel fare ostruzionismo al buon andamento dei colloqui, insistendo perché coprissimo l’insieme dei temi, ottenendo che non ci si impegnasse concretamente su nulla. Un gatto che avesse inseguito la propria coda non avrebbe potuto far meglio.

Intanto, senza mai formulare alcun progetto e minacciandoci di interrompere le discussioni se ci fossimo azzardati a pubblicare i nostri propri documenti, organizzavano la fuga delle loro “confidenze” con la stampa, sostenendo che le nostre proposte fossero deboli, concepite malamente, poco credibili. Con la speranza che prima o poi avrebbero accettato di entrare nella situazione reale e ci sarebbero venuti incontro a metà strada, abbiamo comunque acconsentito a questa burla.

Bisogna anche dire che perché le negoziazioni potessero svolgersi nelle migliori condizioni sarebbe stato necessario che i nostri interlocutori fossero stati meno divisi. La posizione del FMI raggiungeva la nostra sulla questione della ristrutturazione del debito ma insistendo perché distruggessimo ciò che rimaneva del diritto del lavoro e sopprimessimo tutto ciò che proteggeva le professioni liberali. La Commissione invece si rivelava più elastica sulle questioni sociali ma non voleva neanche sentir parlare della ristrutturazione del debito. La BCE aveva anch’essa la sua idea su cosa convenisse fare. In breve, ciascuna delle istituzioni tracciava le proprie linee rosse finendo per tessere una tela della quale eravamo prigionieri.

In sovrappiù toccava subire la “frattura verticale” dei nostri interlocutori: mentre i dirigenti del FMI e della Commissione avevano priorità diverse da quelle dei loro scagnozzi, i ministri delle finanze tedesco e austriaco difendevano percorsi in contraddizione con gli obiettivi fissati dai loro rispettivi cancellieri.

La cosa più insopportabile è stata senz’altro l’aver dovuto assistere all’umiliazione della Commissione e dei rari ministri delle finanze benevolenti nei nostri riguardi. Sentirmi dire, da persone in alto nella Commissione e in seno al governo francese che “ la Commissione deve sottostare alle conclusioni del presidente di Eurogruppo”, o che “ la Francia non è più ciò che era”, mi ha portato sull’orlo del pianto. Senza parlare della mia delusione allorquando il ministro delle finanze tedesco mi ha spiegato, l’8 giugno (2015) nel suo ufficio, che non aveva il benché minimo consiglio da darmi sul modo migliore di evitare un tale accidente come l’uscita dall’euro, anche se si sarebbe rivelato estremamente costoso per l’Europa.

Alla fine di giugno avevamo oramai abdicato e accettato la maggior parte delle esigenze della « troïka » con una eccezione: insistemmo per ottenere una leggera ristrutturazione del nostro debito, senza svalutare beni mobili o immobili, tramite uno scambio di titoli.

Il 25 giugno ho partecipato al mio penultimo Eurogruppo e mi è stata presentata l’ultima offerta della « troïka », « prendere o lasciare ». Avevamo ceduto sui nove decimi delle esigenze dei nostri interlocutori e ci aspettavamo che avrebbero fato uno sforzo affinché potessimo giungere a qualcosa che potesse somigliare ad un accordo onorevole. Hanno scelto, al contrario, di indurire i toni, come, per esempio, sull’IVA. Non vi erano più dubbi. Se avessimo accettato di firmare, questo testo avrebbe distrutto le ultime vestigia dello Stato sociale greco. Si pretendeva da noi una capitolazione da gran spettacolo che ci mostrasse in ginocchio al mondo intero.

Il giorno seguente, il primo ministro Tsipras annunciava che avrebbe sottoposto a referendum l’ultimatum della « troïka ». Ventiquattr’ore dopo, sabato 27 giugno, ho partecipato alla mia ultima riunione di Eurogruppo, quella che ha scatenato il processo di chiusura delle banche greche; un modo di punirci per aver avuto l’ardire di consultare il popolo del nostro paese.

Durante questa seconda riunione, il presidente Dijsselbloem ha annunciato che avrebbe convocato un secondo incontro per la sera stessa, ma senza di me. Senza che la Grecia fosse rappresentata. Ho protestato, facendogli notare che non aveva il diritto, lui solo, di escludere il ministro delle finanze di uno Stato membro della zona euro e, al riguardo, ho preteso una chiarificazione giuridica. Dopo una breve pausa, il segretario ci ha risposto: « L’Eurogruppo non ha esistenza legale. Si tratta di un gruppo informale e, di conseguenza, alcuna legge scritta limita l’azione del suo presidente ». Queste parole hanno risuonato in me come l’epitaffio dell’Europa che Konrad Adenauer, Charles de Gaulle, Willy Brandt, Valéry Giscard d’Estaing, Helmut Schmidt, Helmut Kohl, François Mitterrand et tanti altri avevano cercato di creare. Di un’Europa che avevo sempre considerato, da quando ero adolescente, una sorta di bussola personale.

Qualche giorno dopo, malgrado la chiusura delle banche e della campagna di terrore messa in atto dai media corrotti, il popolo greco ha fatto sentire ben forte il suo « no». Durante il seguente summit dei capi di Stato della zona euro, il primo ministro Tsipras si è visto imporre un accordo che non è altro che una resa. L’arma utilizzata? La prospettiva, illegale, di una espulsione dalla zona euro.

Che importa l’opinione che ciascuno si fa del nostro governo: questo episodio resterà nella storia come il momento in cui i rappresentanti ufficiali dell’Europa hanno utilizzato le istituzioni (l’Eurogruppo, il summit dei capi di Stato della zona euro) e metodi che nessun trattato doveva legittimare per rompere l’ideale di un’unione veramente democratica.

La Grecia ha capitolato, ma è il progetto europeo che si è infranto. Nessun popolo della regione europea deve mai negoziare nella paura.

Yanis Varoufakis

Ex ministro delle finanze greco, deputato di Syriza

 

(Traduzione di Chiara Del Nero)

 

Tutte le note sono della redazione.

(1) Abbassamento generale dell’attività, dei prezzi, dei salari e degli investimenti.

(2) Riunione dei ministri delle finanze dei diciannove paesi della zona euro.

(3) Situazione budgetaria positiva di uno Stato, prima del pagamento del rimborso del debito.

(4) Quintetto composto dal governo greco, dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea (BCE), dal Meccanismo europeo di stabilità (MES) e dal Fondo monetario internazionale (FMI).