Si fa presto a dire America

(vista da lontano e da vicino)

L’America è sempre un Paese che fa le cose in grande

ma il troppo grande spesso sfugge di mano

Il tutto per indicare una parte.

Si dice America e si intende parlare degli Stati Uniti.

Si dice America e si guarda a un mondo che è un’immagine dei grandi contrasti, delle enormi ricchezze e dalla triste povertà quotidiana, del futuro che si può toccare con mano e di un potere che non sa più essere grande potenza.

Ci sono due ricordi lontani della mia America.

Il primo è del 1968 quando al primo anno di Università, in quel vulcano di contestazione che era il corso di laurea in scienze politiche dell’Università statale di Milano, invece di sventolare per le strade il libretto rosso si Mao, mi soffermavo in biblioteca a leggere ‘La sfida americana’ di Jean Jacques Servan Schreiber, il mitico direttore dell’Express.

Un libro in cui si prevedeva la progressiva invasione finanziaria e industriale dell’Europa da parte degli Stati Uniti anche per l’incapacità delle classi dirigenti europee di affrontare le sfide di un mondo in rapido cambiamento.

In quel periodo l’America, invischiata nella guerra del Vietnam, ancora sconvolta per gli assassini dei Kennedy, appariva come il gigante delle multinazionali intento a portare il proprio dominio con le armi e con le spregiudicate politiche commerciali.

La gran parte degli studenti di allora non amava i libri: si fermava alle copertine.

Eppure quel libro avrebbe potuto aprire gli orizzonti ad una contestazione che invece da una parte si è fermata agli slogan e dall’altra ha imboccato il tunnel del terrorismo.

L’impatto diretto con l’America è avvenuto qualche anno più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, quando giornalista al ‘Sole 24 ore’ sono stato mandato a New York per seguire l’inaugurazione della nuova sede (in verità un piccolo ufficio in un palazzo anonimo) di una grande banca italiana.

Due cose mi sono rimaste impresse nella memoria a più di trent’anni di distanza: i manovratori negli ascensori e il divieto di entrare con i blue jeans nei ristoranti di medio/alto livello.

La lettura della sfida americana, più di dieci anni prima, aveva infatti sedimentato in me l’idea che gli States fossero i più moderni per definizione in ogni campo: ed era inconcepibile che ci fosse ancora qualcuno che avesse come lavoro quello di schiacciare per gli altri i tasti degli ascensori e che non si accettasse nei ristoranti che vestiva con i pantaloni da lavoro come erano considerati i blue jeans.
Ho poi scoperto, tornando spesso e per vari motivi dall’altra parte dell’Atlantico che la forza dell’America è in una tolleranza che non è mai irrispettosa degli altri, in un formalismo che non è imposizione, in una capacità di iniziativa che non contraddice il rispetto delle regole.

Ed è proprio nella capacità di iniziativa, tornando al libro di di J.J. Servan Schreiber, che si trovano le maggiori potenzialità di quel grande Paese.

La sfida americana era basata sulla previsione che le grandi multinazionali americane avrebbero presto dominato il sistema industriale mondiale.

E questo grazie a un progresso tecnologico che, in quegli anni, aveva solo percorso un piccolo cammino nei campi dell’elettronica, dell’informatica e delle telecomunicazioni.

Ma l’innovazione e la tecnologia non sono tutto e infatti negli anni Settanta la crescita più forte fu quella del Giappone ed iniziarono a farsi avanti le produzioni cinesi nei beni di largo consumo.

Ma poi gli Stati Uniti hanno saputo cavalcare l’innovazione molto meglio degli altri riuscendo ad unire la capacità creativa alle tecniche produttive che avevano fatto da base allo sviluppo giapponese.

E le multinazionali americane hanno saputo cambiare pelle sull’onda dei grandi cambiamenti del mercato e quelle che non sono riuscite a cambiare in tempo (si pensi alle grandi compagnie aeree come Twa e Pan american) sono state rapidamente sostituite da altre e più efficienti società.

Le leggi del mercato sono peraltro applicate in modo molto pragmatico: gli interventi dello Stato sono prevalentemente finalizzati a spingere le iniziative dei privati oltre che ad evitare le eventuali pesanti ricadute sociali dei fallimenti.

L’industria americana è riuscita negli ultimi anni del secolo scorso ad applicare i metodi della qualità, della riduzione dei costi, della flessibilità operativa che hanno dato forte competitività ai settori che potevano beneficiare anche delle ricadute positive della ricerca e sviluppo del settore pubblico, in particolar modo quello aerospaziale.

E così sono tornate ad essere competitive le grandi imprese nei settori dell’automobile, della meccanica strumentale, dell’aeronautica, del’informatica, della chimica.

Ma a fianco ed insieme a queste hanno avuto una forte impennata imprese in settori fortemente innovativi come quello delle biotecnologie, della farmaceutica, del software, dell’elettronica di base.

Per arrivare poi negli ultimi anni a dominare il sempre più grande mondo delle comunicazioni: dai prodotti ai sistemi, dai programmi alle piattaforme, dai contenuti alle reti sociali.

Gli Stati Uniti hanno preso il volo perché hanno saputo unire le potenzialità pubbliche, l’apertura della finanza, la capacità dei centri di ricerca e la fiducia nelle idee nuove dei pionieri.

E ora la profezia di Servan Schreiber sembra compiuta e la sfida dell’industria americana è sicuramente vinta.

L’era dell’I-Phone e di Facebook, la nostra era, è targata Usa.

Ma non si può dimenticare che gli americani hanno saputo esportare anche il loro modello di crisi finanziaria.

Il fallimento di Lehman Brothers ha tristemente provocato molti più danni nel nostro Vecchio continente, con la recessione, l’instabilità e gli scossoni finanziari, di quanti ne abbia creati da loro.

L’America è sempre un Paese che fa le cose in grande, ma il troppo grande spesso sfugge di mano.

Gianfranco Fabi