Operazione Quirinale a due facce per il premier

Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’editoriale che il direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno, Giuseppe De Tomaso,
ieri 23 giugno ha dedicato alla situazione politica italiana – MdPR

Il presidente del Consiglio non è un viso pallido facile alla resa. Ma, forse, in questi giorni, alcune notizie mettono a dura prova la sua tempra. Il caso Roma. L’immigrazione. La scuola. La crisi greca. La crescita bloccata. E ora i sondaggi. Sondaggi ritagliati proprio sull’Italicum, cioè sulla riforma elettorale vergata da Renzi, e risultati a dir poco inattesi. Ecco. Secondo lo studio realizzato da Nando Pagnoncelli, se si votasse oggi, in un ballottaggio, il Pd batterebbe di molto la Lega di Matteo Salvini, di poco i Cinque Stelle di Beppe Grillo, ma perderebbe di fronte a una lista unica del centrodestra. Bum.
Ora. È vero che i sondaggi, specie in Italia, contendono alle statistiche il primato nella classifica delle grandi bugie, ma è altrettanto vero che, solo poche settimane addietro, uno scenario come quello ipotizzato da Pagnoncelli sarebbe apparso più inverosimile di una conversione del mullah Omar. Invece, tutto è in movimento nella politica italiana. Renzi, che pareva destinato a segnare il nuovo ventennio nella nostra storia politica (caratterizzata, tendenzialmente, da cicli lunghi quattro lustri), dovrà mettere in conto parecchie quaresime e resurrezioni, sulla scia della biografia dell’aretino Amintore Fanfani (1907-1999), il capo storico dc cui il fiorentino Matteo sembra somigliare di più.
Il momento topico della Renzi-story si è registrato in occasione dell’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Un capolavoro politico che ha spiazzato alleati, rivali e avversari. Pareva che il giovane premier fosse diventato più irresistibile di Lionel Messi. Invece, la discesa renziana è cominciata proprio all’indomani del riuscitissimo blitz per il Colle. Renzi aveva fondato la sua avanzata nell’arengo politico nazionale su due punti-chiave: la rottamazione della vecchia guardia piddina, il depotenziamento del berlusconismo attraverso il Patto del Nazareno sulle riforme. E per quasi un anno, il timoniere della nave di governo ha viaggiato con il vento in poppa. In parlamento (grazie al soccorso berlusconiano). Nel Paese (grazie alla benevolenza da parte degli elettori moderati che vedevano in Matteo il vero erede di Silviuccio).
La virata sul Quirinale, però, non è senza conseguenze. Renzi perde l’esercito di riserva berlusconiano, ma non guadagna né l’appoggio, o perlomeno la neutralità della minoranza Pd, né la non belligeranza dello schieramento grillino. Nessuno gli fa sconti, anche perché il Presidente del Consiglio si lascia scappare più di un’occasione da gol, a partire dalla presidenza del semestre europeo, trascorso senza infamia e senza lode, quando invece, la cattedra continentale avrebbe potuto trasformarsi, per lui, nel trampolino decisivo per l’approdo sull’Olimpo della politica internazionale.
Insomma. Il Renzi tentennante è figlio, paradossalmente, del suo successo quirinalizio. Invece, il mini-recupero berlusconiano è frutto della rottura sul Nazareno. Ma il capo del governo aveva mille opportunità per ricucire con il Magnate di Arcore e riprendersi quei voti di sicurezza che, al Senato e alla Camera, gli servivano e gli servono come il pane. Avrebbe dovuto osservare, Renzi, che il suo raid sul Quirinale costituiva un’eccezione e che mai si sarebbe sognato di colpire a fondo l’accampamento forzista. Viceversa, il Royal Baby, dopo la risentita reazione di Berlusconi, ha rincarato la dose sottolineando l’irrilevanza dell’interlocutore e manifestando la volontà di cambiare verso anche a costo di bussare a casa Grillo.
Morale. Pur se nel cerchio magico silviesco non sono pochi i nostalgici dell’asse con Renzi, di fatto oggi, ad eccezione di Denis Verdini, non sono molti, tra i forzisti, coloro che vorrebbero rifare pace con l’ex sindaco di Firenze, anche se sotto sotto la cosa non dispiacerebbe allo stesso ex Cavaliere. Il che, come si vede, non giova al piano di Renzi che vorrebbe presentarsi davanti agli elettori, nel 2018 o anche prima, con un consuntivo sostanzioso, in grado di stupire gli elettori di tutte le casacche politiche. Obiettivo, quest’ultimo, assai aleatorio adesso, come viene rilevato dai nuovi sondaggi che, pur non essendo dogmi infallibili, non danno per assodata né l’invincibilità del premier-leader né l’eutanasia dell’ex premier-leader che, pur trovandosi distante anni luce dai bottini elettorali del passato, non è ancora uscito del tutto fuori orbita. Se solo, Berlusconi, si rassegnasse a fare lo zio Silvio, spendendosi fino allo stremo per rimettere assieme gli strumenti e i musicisti del centrodestra sotto la guida di un nuovo direttore d’orchestra, beh di certo l’attuale titolare di Palazzo Chigi non farebbe salti di gioia. Ma il centrodestra è così diviso, tra mille ambizioni e rancori (senza contare la corsa personale di Salvini), che solo un papa straniero (ma straniero davvero) forse riuscirebbe a compiere il miracolo. Prospettiva, quest’ultima, che a Palazzo Grazioli deve suonare più blasfema di una bestemmia in chiesa, dal momento che Berlusconi non dispera di ritornare in campo con i gradi di capitano, allenatore e presidente.
Ultima riflessione. Le possibili sorprese elettorali dell’Italicum non devono meravigliare. Da sempre i modelli del voto cambiano sia l’offerta che la domanda politica. E quasi sempre le riforme delle regole del gioco non giovano ai loro autori o ispiratori.

Giuseppe De Tomaso