Gli italiani d’America e la Seconda Guerra Mondiale

Quando, dopo Pearl Harbor, entrammo in guerra con gli Stati Uniti, gli americani di origine italiana colà residenti erano ben sei milioni. Per non parlare dei fuoriusciti antifascisti. Nel complesso, durante il conflitto, tutti, americani, italoamericani e fuoriusciti, agirono con accortezza e spirito civile. Forse fu per questo che, nella resa dei conti con Mussolini e il fascismo di Salò, si fecero giocare dagli uomini di Churchill.

Fin dall’inizio della guerra tra Stati Uniti e Italia, dopo il proditorio attacco giapponese di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, il governo del presidente Roosevelt si era trovato in difficoltà con la vasta comunità di origine italiana che pure lo aveva sostenuto durante la campagna elettorale del precedente anno.

Questa comunità era infatti, in grandissima maggioranza, di sentimenti fascisti e ammirava sinceramente Mussolini, l’uomo che aveva saputo trarre l’Italia – il loro Paese e il Paese dei loro padri – da una condizione di serie B per innalzarlo al ruolo di potenza mondiale.

Oltre ai ben sei milioni di votanti di origine italiana, si erano stabiliti negli Stati Uniti numerosi fuoriusciti antifascisti, alcuni di essi uomini di grande prestigio, come il musicista Arturo Toscanini, lo scienziato atomico Enrico Fermi, lo storico Gaetano Salvemini, il fondatore del Partito Popolare (cattolico) don Luigi Sturzo, l’ex ministro degli Esteri Carlo Sforza, l’ex comandante delle Brigate Internazionali in Spagna Randolfo Pacciardi.

Per un certo periodo questi fuoriusciti, riuniti nella ‘Mazzini Society’, accarezzano l’idea, lanciata da Max Ascoli, presidente della Società, di dar vita ad una Legione italiana di combattenti da impiegare a fianco dell’U.S. Army.

Candidato a comandarla è Randolfo Pacciardi, date le sue indubbie capacità militari.

Ben presto, però, l’idea decade, anche perché, su pressione del Dipartimento di Stato, Max Ascoli viene convinto ad accettare nell’organizzazione alcuni esponenti moderati della comunità italo-americana, che non hanno alcuna intenzione di prendere le armi per sparare contro soldati italiani.

Un documento della Foreign Nationalities Branch dell’OSS datato 3 agosto 1943[1] distingue, all’interno della comunità italiana, una destra, una sinistra e un centro.

Decisamente maggioritaria è la destra, che fa capo all’’American Committe for Italian Democracy’, presieduto dal giudice Ferdinando Pecora e conta fra i suoi aderenti il giudice Felix Forte di Boston, animatore dei ‘Sons of Italy’ (cinquecentomila aderenti), il famoso giornalista Generoso Pope, editore e direttore del quotidiano ‘Il Progresso italo-americano’, il quale – tra l’altro – non ha mai nascosto la sua aperta ammirazione per il Fascismo, Charles Fama, presidente dell’Ordine dei Medici di New York, e così via.

Portavoce privilegiato del Comitato è il giornalista Drew Pearson, della catena editoriale Hearst.

Al Comitato aderiscono altresì una figura internazionale come Amedeo P. Giannini, fondatore e presidente della Bank of America, il colonnello Charles Poletti, che diventerà governatore prima di Palermo, poi di Roma e di Milano, e il parlamentare Thomas D’Alessandro.

“Insomma, il fior fiore dell’antica colonia fascista che, per le elezioni italiane del 1948, si impegnerà in una furibonda campagna contro il Fronte Popolare”[2].

Delusi dalle remore del Dipartimento di Stato e dalle sue paure di perdere l’appoggio elettorale della stragrande maggioranza degli oriundi italiani, alcuni fuorusciti decidono di allearsi con gli inglesi e di mettersi al loro servizio.

È il caso di Alberto Tarchiani, “circondato e dominato”, si legge in un rapporto segreto del marzo 1945 firmato da Earl Brennan, capo del Secret Intelligence, e diretto al Dipartimento di Stato, “da un pugno di personaggi pagati dagli inglesi o sotto la loro diretta influenza, come Gentili, Max Salvadori, Emilio Lussu, Alberto Cianca, la maggior parte dei quali sono leaders e attivi ai vertici del Partito d’Azione e almeno due dei quali (Gentili e Salvadori) è risaputo essere membri dei servizi segreti inglesi”[3].

Peraltro, è di tutta evidenza che gli interessi americani e quelli britannici, nei confronti del futuro della penisola, non coincidevano affatto.

Già in un rapporto OSS datato 14 agosto 1944 e riportato nel libro ‘Gli Americani in Italia’, si poteva leggere:

“La Gran Bretagna mira all’eliminazione di ogni minima minaccia italiana sulle vie di comunicazione dell’impero britannico che collegano il Mediterraneo al Mar Rosso e all’Oceano Indiano, e alla completa dipendenza economica e politica dell’Italia rispetto all’Inghilterra.

La Gran Bretagna perciò vuole in Italia un regime conservatore che garantisca l’esecuzione del trattato di armistizio, blocchi la minaccia comunista e tenga una linea favorevole agli interessi inglesi”.

Tra le clausole del trattato di armistizio vi era la consegna di Mussolini vivo al comando del XV Gruppo d’Armate dipendente dal generale americano Mark Clark, che, verso la fine del mese di aprile 1945, aveva posto la sua base a Siena.

Ma i servizi speciali britannici non erano d’accordo.

E si mossero con straordinaria efficienza e rapidità non appena si diffuse la notizia che Mussolini, nel primo pomeriggio del 27 aprile, era stato fatto prigioniero dai partigiani della 52.a Brigata Garibaldi sulla piazza di Dongo.

Come veramente andarono le cose, lo raccontai nel mio libro ‘La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?’, pubblicato nel 2002 e tradotto negli Stati Uniti da ‘Enigma Books’ di New York con il titolo ‘Mussolini: the secrets of his death’.

In sintesi?

Ammazzato (ammazzati) dagli inglesi, non dagli scalzacani del ‘colonnello Valerio’.

Luciano Garibaldi

[1]Roberto Faenza e Marco Fini, ‘Gli Americani in Italia’, Feltrinelli, Milano, 1976, pag. 14.

[2] Ibidem, pag. 15.

[3] Ibidem, pag. 23.