Liberazione, ma non per tutti

Verso la fine del gennajo 1945 nel lager di K. cominciò a circolare, prima bisbigliata poi quasi proclamata ad alta voce, una notizia che all’inizio sembrava incredibile.

Si era in guerra ed entro le mura ed i reticolati ciò che avveniva al di fuori del campo e nel resto del mondo giungeva a spezzoni, spesso deformati dai vari passaggi da una bocca – sincera, interessata? – ad un orecchio e così via.

Ne erano circolate tante di informazioni rivelatesi sbagliate o ingannevoli, troppo spesso modificate e stravolte dal desiderio o dalla speranza.

Quella volta però la novità era troppo bella, troppo incoraggiante, troppo esaltante perché fosse scartata come una delle tante notizie che avevano fatto nascere   aspettazioni sempre puntualmente deluse.

La voce che circolava assicurava che un altro lager era stato aperto ed i prigionieri erano stati lasciati liberi.

Si diceva che addirittura essi fossero stati nutriti (molti erano divenuti quasi dei cadaveri), rivestiti, addirittura condotti nelle loro case, se esse ancora esistevano, o altrimenti alloggiati.

Come non immaginare che a quella prima apertura dei cancelli di un lager sarebbero seguite tutte le altre, compresa quella di K.?

Si parlava di migliaja di persone liberate dopo aver sofferto anni di prigionia, di lavoro forzato, uomini e donne, cittadini russi, polacchi, tedeschi, ucraini, di tanti altri paesi europei, molti di loro ebrei.

Esattamente come i prigionieri di K.

Anch’essi attendevano ormai il momento della prossima liberazione quasi con impazienza; la condizione di schiavitù ormai annosa diventava per essi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, meno sopportabile da quando si sapeva che essa era quasi giunta al termine.

Si trattava soltanto di attendere ancora un po’, ma proprio quell’attesa era ormai divenuta troppo snervante.

Era certo che la liberazione era prossima, perché non era concepibile che un campo fosse smantellato e gli altri mantenuti, ci doveva essere una ragione unica e generale perché fosse stata adottata quella misura.

La guerra – a quanto si diceva – non era ormai giunta alla fine?

Non era questo un buon motivo perché lo stato restituisse una vera vita a chi ne era stato privato, a chi era stato rinchiuso tanti anni in un lager per ragioni politiche spesso inesistenti o incomprensibili, magari per essere figlio padre o amico di un presunto oppositore o di un dissidente o di un seguace troppo tiepido?

Tra poco tutto ciò sarebbe finito e si sarebbe potuto festeggiare e tornare alla vita normale.

Tuttavia sembrava che i guardiani ignorassero – o forse fingessero di ignorare – quella notizia e si mostrassero non meno duri che nel passato nell’imporre il rispetto delle norme di lavoro e che perfino le ore di fatica fossero aumentate e le pause sempre più ridotte.

Finalmente un mattino di febbrajo i prigionieri udirono un rumore di autocarri; erano forse i mezzi mandati per liberarli e condurli fuori da quell’inferno?

Ne scesero alcune centinaja di uomini, non meno denutriti degli abitanti del lager di K.

Essi furono fatti schierare dai guardiani che, dopo l’appello, li sistemarono nelle baracche esistenti: che stessero tutti quanti più stretti e si nutrissero dello stesso rancio disgustoso, in razioni ora più ridotte per tutti.

Ma allora non era vera la notizia dell’apertura dei campi di concentramento?

E chi aveva voluto diffonderla, e perché?

Chi aveva così ingannato i prigionieri, visto che addirittura altri ne venivano aggiunti?

Furono questi ultimi che chiarirono l’equivoco: i Lager erano stati veramente aperti, ma si trattava di quelli tedeschi, perché il Terzo Reich era ormai agonizzante e le troppe sovietiche, penetrate profondamente nel suo territorio ed in quello dei paesi che esso aveva occupato, avevano aperto quegli infami campi e liberati i prigionieri.

Ma non avevano liberato i nuovi venuti, tutti cittadini sovietici, che erano stati rinchiusi nei campi tedeschi quando erano caduti prigionieri.

Ad essi l’Armata Rossa aveva riservato un trattamento speciale perché per Stalin il fatto che fossero stati catturati dal nemico era considerata una diserzione.

Prelevati dai Lager tedeschi essi erano stati mandati direttamente in quelli sovietici.

Anche il figlio di Stalin, raccontò uno di loro, era stato rinnegato dal padre che   aveva rifiutato di scambiarlo con un generale tedesco .

Egli tuttavia non era più tra i prigionieri perché era stato ucciso dalle sentinelle tedesche mentre cercava di fuggire dalla prigionia.

Se fosse sopravvissuto sarebbe stato anch’egli rinchiuso a K. o in un altro lager sovietico.

In quelle prime settimane del 1945 poté essere celebrata la fine della schiavitù di milioni di persone in molti campi di concentramento dell’Eurasia.

Ma non in tutti.

 

Nota: Il termine GULAG è un acronimo di Glavnoe upravlenie ispravitel’no-trudovykh lagerei , in cui la parola più importante è l’ultima, adattamento del termine tedesco LAGER, di cui perciò è un sinonimo.

Alberto Indelicato