Sciura maestra

Jerago con Orago, anni Trenta. ‘Figli della Lupa’ e ‘Piccole Italiane’ alle elementari

Correva il tempo che pellagra, parti casalinghi e mortalità infantile, peritoniti, epatiti e tubercolosi mantenevano stabile la popolazione sui quarantadue milioni di italiani, comunque sufficienti a mantenere alta la percentuale di disoccupazione nonché a popolare le terre d’oltre mare.

Le Scuole erano ben lungi dall’essere sovraffollate, tant’è che al villaggio era sufficiente una Maestra per le prime tre classi elementari riunite in una sola aula per una trentina di scolari disposti su banchi biposto in tre file: a sinistra la prima, al centro la seconda, a destra la terza.

Nel mentre che due classi venivano impegnate con un compito scritto, la terza seguiva la lezione orale: una strategia produttiva tanto semplice quanto efficace.

La cattedra si erigeva su un pianale di legno, altura che consentiva allo sguardo della Maestra di arrivare dappertutto, in particolare dove il banco biposto era occupato dai generi opposti; l’inchiostro, per quanto in un calamaio (parola ormai in disuso) incastrato nel banco, schizzava sui colletti bianchi delle ragazze.

Gli alunni erano disposti per gradualità fisica: i più cresciuti occupavano gli ultimi posti ed il profitto diminuiva con l’aumentare della massa ed altezza ad eccezione della voluminosa Luisa che aveva sì un doppio banco tutto per lei, ma sapeva sempre di più di quanto dovesse.

Il maggior impegno di studio non era tanto per l’Aritmetica, bensì per l’Italiano che si studiava come se fosse una Lingua straniera e per questo lo si scriveva in giusta ortografia e disastrosa oralità e prosa; il dialetto era il linguaggio di sempre mentre l’Italiano era limitato alle risposte d’interrogazione della Maestra con tanti “stravac” che stupivano lei soltanto: l’imbuto diventava “pidriolo” (da pidrieu); la buccia degli acini d’uva “tagaccia” (da tagascia); la pala del camino “barnascio” (da barnasc), e così via.

Il Tema in classe “Il temporale”, qualcuno l’ha svolto così:

“La luna si sparpagliava tra le foglie dei rami e le nuvole si tiravano presso.

Le saette tronavano incielo e la sluscia veniva giù che dio la mandava…”

La Maestra arrivava col treno di buon mattino, veniva da lontano per cui verso le undici sentiva di ristorarsi anche per il mezzogiorno anticipando quanto oggi chiamiamo “brunch”.

Sceglieva quindi un alunno affidabile che mandava a comprare tre dolci, solitamente tre cannoncini con dentro lo zabaglione che il Pasticciere avvolgeva ermeticamente onde impedire che fossero leccati sulla via del ritorno.

La Maestra li inseriva in bocca addentandoli a metà, le labbra sollevate per non alterare il rossetto davanti alla scolaresca tanto incuriosita quanto ingolosita e colorata di commenti coloriti dai banchi meno profittevoli ma peraltro evoluti pettegoli.

Per il Sabato Fascista, abbigliati da “figli della lupa” e “piccole italiane”, gli alunni che abitavano nelle vicinanza della Stazione ferroviaria andavano incontro alla Sciura Maestra con scatto d’attenti e saluto romano.

Anche la Maestra indossava l’uniforme celebrativa di color nero: la bustina in testa, tailleur con giacca attillati, camicia bianca col collo aperto e sbottonata sul petto, un corpo che si percepiva diverso da quello delle donne del villaggio, sopratutti i seni pronunciati ed eretti contro quelli afflosciati che si vedevano al fontanile, facevano del suo arrivo una apparizione ed un avvenimento.

Dopo il suo saluto romano di risposta con braccio alto e décolté allargato, s’incamminava decisa e attraente verso la Scuola seguita dagli alunni “fiero l’occhio svelto il passo” il cui sguardo insinuante e i impertinente, seppur ingenuo, li teneva dietro la linea di sorpasso.

A conclusione della settimana di studio e profitto, il Parroco si introduceva in aula per un rimprovero ai “balabjott” e richiamo allo studio con ubbidienza alla Maestra; si metteva sempre gli occhiali da sole, anche se pioveva, per nascondere il suo sguardo che indugiava sulle sinuosità della tentazione con un pensiero a Sant’Antonio tormentato testimonio.

Il mattino del Sabato si chiudeva quindi coi rintocchi del mezzogiorno in un coro unisono di: “saluto al duce, saluto al Re” con code di voci ignote: “la Sciura Maestra e ‘l sò de dré”.

Idillio Pozzi