La Svizzera nell’era postnazionale

Guardando alle sfide che la Svizzera è chiamata ad affrontare oggi, una domanda si impone: la cultura politica e il modello istituzionale elvetici sono in grado di mantenere la loro specificità e la loro forza in un contesto politico post-nazionale?

Per abbozzare una risposta giova illustrare anzitutto alcune peculiarità del sistema politico elvetico.

Per molti secoli, la Confederazione svizzera ha avuto una natura puramente contrattuale.

Era fondata su un patto (foedus), quindi sul principio del consenso fra le diverse comunità politiche che la componevano.

Con l’entrata in vigore della Costituzione federale, il 12 settembre 1848, il patto federale decade.

Da quel momento in poi, il principio legale (“la maggioranza impone la propria volontà alla minoranza”) subentra a quello meramente contrattuale.

Ciononostante, elementi del principio contrattuale impregnano ancora oggi le istituzioni svizzere ed esercitano un forte influsso sul consociativismo politico elvetico.

Quali?

Anzitutto va rilevato che la Svizzera odierna poggia su un originale innesto nel ceppo dello Stato moderno elvetico, che corregge le premesse sia della Repubblica elvetica del 1798, sia della Costituzione del 1948.

La Repubblica elvetica imposta da Napoleone agli Svizzeri voleva coartare le diversità di storia, geografia, lingue, culture e religioni delle città, campagne e montagne svizzere ingabbiandole in un modello centralistico e omologatore alla francese.

Napoleone dovette tuttavia ammettere che ciò non poteva funzionare in un Paese tanto diversificato ed egli stesso ne decretò lo scioglimento nel 1803, dopo soli cinque anni.

Quanto alla Costituzione del 1848, pietra miliare della democrazia elvetica, essa fu perfezionata quarant’anni dopo, per estendere la legittimazione popolare e garantire una maggiore integrazione delle diversità profonde del Paese.

Il diritto di iniziativa popolare (vale a dire quello di proporre dal basso riforme legislative) viene infatti sancito nella revisione costituzionale del 1891 e va ad aggiungersi al diritto di referendum popolare e all’attività legislativa del Parlamento eletto.

La democrazia semidiretta elvetica nasce come strumento volto a perfezionare lo Stato moderno elvetico, in modo da salvaguardare e gestire in modo più armonioso le diversità geo-economiche (città e campagne), linguistico-culturali e religiose che fanno la complessità del Paese, impedendo la concentrazione del potere nelle mani di pochi o di un gruppo socio-culturale predominante.

A questa saldatura fondamentale dello Stato moderno elvetico vanno ad aggiungersi altri elementi istituzionali che prolungano il principio contrattuale originario.

  1. Un bicameralismo dove Cantoni grandi e piccoli hanno un identico numero di rappresentanti nel Consiglio degli Stati (Senato), che ha poteri identici a quelli della Camera del popolo;
  2. La doppia maggioranza di popolo e Cantoni è richiesta per le modifiche costituzionali (un meccanismo che di fatto attribuisce al voto dei cittadini dei piccoli Cantoni un peso politico molto maggiore di quello dei cantoni grandi);
  3. Il modello di Governo predominante sia a livello federale che su scala cantonale è di coalizione (i maggiori partiti politici sono rappresentati negli esecutivi);
  4. La cosiddetta ‘pace del lavoro’ sancisce dal 1937 la concertazione costruttiva permanente fra i partner sociali (sindacati e associazioni padronali) favorendo una stabilità economica;
  5. Le riforme legislative avvengono dopo procedure di consultazione capillari presso partiti, associazioni, Governi cantonali.

 

Lo storico Jean Francois Bergier ha parlato, a questo proposito, di un vero e proprio ‘federalismo sociale’, antidoto al deficit democratico del contratto sociale moderno prodotto da quella che Tocqueville chiama ‘dittatura della maggioranza’.

La natura del federalismo svizzero – lungi dall’essere privo di difetti – comporta in linea generale meccanismi volti a difendere le minoranze dalla dittatura della maggioranza e a garantire l’espressione della volontà politica a tutte le diverse componenti presenti nella società.

Un esempio concreto di questa particolarità?

La Svizzera di lingua italiana beneficia del ventiquattro per cento (24%) dell’insieme degli introiti del canone radiotelevisivo quantunque i suoi abitanti italofoni rappresentino soltanto il sette per cento (7%) della popolazione svizzera.

Questa chiave di ripartizione (che applica il principio della ‘discriminazione positiva’) permette alla Radiotelevisione svizzera di lingua italiana di salvaguardare la lingua e la cultura italiane e di garantire una qualità giornalistica apprezzata anche all’estero.

A ben guardare, simili meccanismi altro non sono che un’applicazione diffusa del principio di sussidiarietà che dà ai soggetti presenti nella società i mezzi per esercitare una corresponsabilità in ordine al bene comune.

Questa concezione della comunità politica ha spinto Ralf Dahrendorf a definire la Svizzera “più che uno Stato, una società civile molto organizzata”.

Nel fondo c’è la convinzione che il potere vada fortemente limitato e ampiamente diffuso – come ha sottolineato Jean Starobinski in un suo memorabile discorso, tenuto a Bellinzona nel 1991, in occasione del Settimo centenario della Confederazione elvetica.

Per i Confederati, all’inizio del Rinascimento, l’alternativa era proprio questa: rafforzare lo Stato centrale e stabilire una politica estera comune espansiva, oppure rciarecomunali che incarnavano fmettere tra parentesi quest’ultima salvaguardando le strutture confederali, a cominciare dalle autonomie cantonali e comunali.

“Mentre altri popoli” – annota Edgar Bonjour – “investivano le loro energie in guerre di conquista o solcavano i mari per scoprire nuovi sbocchi, i Confederati preferirono fare un passo indietro verso la neutralità intesa come massima di Stato.

Fra la libertà e la concezione svizzera della neutralità esiste come un’affinità segreta”.

Di fronte al rischio che l’alleanza fra città e comunità contadine aventi caratteristiche diverse saltasse a causa di conflitti e interessi contrapposti, nonché delle forti pressioni esterne di segno opposto, la Convenzione di Stans, nel 1481, ribadì il primato dell’alleanza interna fra i Confederati, al di là di ogni alleanza esterna di questo o quel cantone.

L’idea di neutralità – proclamata solennemente come massima di Stato dalla Dieta federale elvetica nel 1674 all’indirizzo delle Nazioni europee e sancita definitivamente, nell’interesse del continente rappacificato, dal Congresso di Vienna nel 1815 – è strettamente legata, come si diceva poc’anzi, a una concezione della libertà e delle autonomie propria di uno stato multiculturale e multiconfessionale, basato su una distribuzione calibrata del potere ai livelli federali, cantonali e comunali, come la Confederazione elvetica.

Una libertà garantita da un contratto sociale che rinuncia ad una centralizzazione eccessiva del potere, distribuendolo, in virtù del principio di sussidiarietà, ai diversi livelli delle istituzioni e della società dotati di ampi poteri democratici.

Anche la collocazione geografica della Svizzera sembra averla predestinata al suo statuto politico.

Il grande storico francese Fernand Braudel[i][i] ricorda che nelle pianure dello spazio mediterraneo gli imperi hanno potuto realizzare facili e speditive conquiste, le scorrerie degli eserciti hanno piegato la resistenza delle popolazioni e i governi hanno assunto talvolta i tratti del dispotismo.

In queste terre alte (“con le loro montagne straordinarie, la disciplina collettiva, la qualità dello spessore umano”), la libertà repubblicana ha resistito agli imperi. Il repubblicanesimo alpino è fortemente comunale prima ancora di essere nazionale: traduce in sistema politico l’attenzione ai problemi concreti e minuti di una comunità e il ruolo centrale della mediazione su cui poggia tutta la storia svizzera.

Quanto all’economia elvetica, fin dai primordi – e in particolar modo a partire dall’apertura del Passo del San Gottardo ai commerci – ha avuto la possibilità di apprezzare i vantaggi del libero scambio.

Ne nasce una cultura politica pragmatica, refrattaria alle grandi visioni volontaristiche calate dall’alto, una cultura del negoziato paziente ma tenace che la Svizzera ha saputo sviluppare fino ai giorni nostri.

E non è un caso che la Svizzera – già pilastro dell’Associazione europea di libero scambio – abbia preferito (almeno finora) la via degli Accordi bilaterali con l’Unione europea anziché aderire compiutamente all’Unione.

Questa cultura politica e questo modello istituzionale possono vanno considerati superati nel nuovo contesto post-nazionale e globale?

Al contrario.

La Svizzera dispone di un know how politico, di una cultura della mediazione e del libero scambio oggi più che mai attuali.

L’arbitrato e il patto sociale fra partner e interessi diversi che ha sviluppato il crocevia elvetico rispondono in modo interessante ad alcuni dei problemi complessi posti dalla società globale e multiculturale.

Nella soluzione delle crisi sociali e politiche provocate dai cambiamenti socio-economici legati alla globalizzazione, sono evidenti il deficit democratico e la necessità di rafforzare la legittimazione delle scelte politiche grazie ad un paziente lavoro di mediazione e di concertazione fra soggetti e categorie diverse. Quanto ai modelli politici nazionali di stampo rigorosamente centralistico, è sotto gli occhi di tutti la loro difficoltà di far fronte ad una politica sempre più sovranazionale.

E anche in termini puramente economico-finanziari, il federalismo o la devoluzione sembrano portare maggiori benefici rispetto ai modelli del centralismo statalista.

Quanto alla progressiva configurazione multiculturale delle nostre società, se si vogliono contenere crisi esplosive purtroppo sotto i nostri occhi, dei meccanismi di consultazione, di integrazione e di partecipazione democratica che definiscano le regole di una pacifica coesistenza fra minoranze e maggioranze diverse non possono che giovare, non solo in Svizzera ma ovunque.

Nel momento in cui si manifesta dappertutto un divorzio fra le classi dirigenti (politiche ma anche economiche) e i cittadini (basta guardare il moltiplicarsi delle manifestazioni di piazza, in un crescendo di rabbia e di violenza diffusa), invece di deprecare il ricorso alla democrazia diretta elvetica, bisognerebbe guardare con interesse ad uno strumento come quello dell’iniziativa popolare. Seppure imperfetto e non al riparo da conseguenze spiacevoli (ma i Parlamenti sono forse illuminati da divina luce?) questo strumento politico permette di fare due cose:

  1. Mantenere il contatto – aggiornandolo continuamente all’emergere di nuove circostanze – fra la classe politica e i problemi reali dei cittadini
  2. Condurre discussioni pubbliche approfondite su temi di grande rilevanza che contribuiscono alla formazione politica dei cittadini e allo sviluppo di un senso di corresponsabilità nei confronti del bene comune.

Paradossalmente, anche la spaccatura fra solidi blocchi contrapposti di vincenti e perdenti come quella che si manifesta quando la posta in gioco è elevata, rappresenta un fattore che può rafforzare la maturità politica.

In questi casi i cittadini di un Paese possono infatti constatare che – contrariamente a quanto tendono ad affermare i buonisti o i politici che trovano sempre le soluzioni al posto del popolo – la realtà dei fatti è molto più complessa, comprende anche fattori di forte instabilità, sentimenti di ingiustizia e volontà di cambiamento dell’ordine costituito di cui è meglio tener conto piuttosto che fare lo struzzo e negare l’evidenza.

Alla fine, ognuno è confrontato a una sfida che accompagna la Svizzera da quando esiste: vale a dire se conviene di più il compromesso e la ricerca di una equilibrata integrazione delle differenze piuttosto che la separazione.

Finora, malgrado tutte le traversie e le battute d’arresto, la capacità di integrazione si è rivelata vincente in questo Paese.

Referendum e iniziativa popolare come strumento sistematico dell’esercizio dei diritti politici permettono ai Governi e ai Parlamenti di correggere continuamente il tiro della propria attività politica, integrando (e disinnescando così in larga misura il potenziale sovversivo) delle istanze dal basso.

In un mondo globale e complesso, in cui le differenze sono la regola, la comunicazione fra i cittadini capillare e globale e le spinte dal basso sempre più forti e talvolta violente, a me pare che una discussione approfondita su forme di partecipazione politica diffusa, come ad esempio la democrazia diretta elvetica, sarebbe molto più utile che non una sua miope condanna.

Moreno Bernasconi