Il film della mia vita

Adoro i film di John Ford, specie i western, l’unica epopea moderna che abbiamo saputo creare.

Qualche giorno fa, in tv, ho rivisto per l’ennesima volta ‘Cavalcarono insieme’, del 1961, uno di quei film che non ci si stanca mai di vedere e che a ogni visione regalano qualcosa di nuovo.

‘Cavalcarono insieme’ non è un western da cineclub, da dibattito dotto.

Anzi, spesso è stato accusato di compiacimenti razzisti, di cinismo, di intolleranza nei confronti dell’‘altro’.

Accuse ridicole, di chi legge i film con gli occhiali dell’ideologia.

Anzi di chi non legge o non sa leggere il cinema.

Come succedeva nei cineclub (di ambiente laico) e nei cineforum (di ambiente cattolico), magari a proposito di Bergman o di Antonioni.
Il fatto è che Bergman e Antonioni ( e tanti altri venerati maestri del cinema europeo) favorivano questa lettura ideologica perché nelle loro opere c’erano spaventosi vuoti di scrittura che potevano essere facilmente riempiti da ogni tipo di discorso: la famosa ‘incomunicabilità’ di Antonioni è stato uno degli argomenti più chiacchierati dalla critica cinematografica.

Perché oggi, nelle rievocazioni post mortem, si fa fatica a rivedere un film di Bergman o di Antonioni e ‘Cavalcarono insieme’ sembra invece un sorprendente inedito, pieno com’è di ironia, di tragedia, di disincanto e di profondità?

La ragione è molto semplice: per fare un buon film ci vuole una bella sceneggiatura, dei bravi attori e un grande regista.

Nei film europei autoriali spesso uno dei tre elementi viene a mancare (Bergman, ad esempio, faceva del teatro filmato e Antonioni non è mai stato aiutato dalle sceneggiature, a spesso anche dagli attori); inoltre Ford non aveva la preoccupazione di fare dell’arte, gli autori europei sì (soltanto nel 1948 Benedetto Croce dà il il permesso agli intellettuali di andare al cinema).

Del resto è stata proprio la cultura da cineclub (non quella cinefila!) a decretare la grandezza di Antonioni e l’inconsistenza di Totò: o l’uno o l’altro, bisogna decidersi.

E la tv è servita proprio a questo: a spazzare via l’ideologia da cineclub, a rendere accessibili altre cinematografie, a permettere di giudicare con la propria testa e soprattutto con il proprio cuore.

Ma il film che amo di più di John Ford è ‘L’uomo che uccise Liberty Valance’, perché è una bellissima storia d’amore legata a un fiore di cactus e perché è un caposaldo degli studi mediologici, una straordinaria riflessione sui rapporti fra riproduzione della realtà e storia.

Nel finale, il direttore del giornale al quale il cronista ha raccontato come davvero stiano le cose e che quindi il senatore Ramson Stoddard non è il vero uccisore del bandito, teorizza infatti una lettura mitica dei fatti (“Nel West quando la leggenda è più bella della storia, stampa la leggenda”): a quel punto, il carattere provocatorio di una simile affermazione spalanca un universo esegetico di grande fascino, offre un racconto in forma di enigma.

“Print the Legend” è l’arcano del grande cinema.

Aldo Grasso