Da dove veniamo? Verso dove andiamo?

Liberale da sempre, Enzo Palumbo è stato nel tempo e fra l’altro senatore e membro del CSM. Il testo che propongo è stato pubblicato da Cartalibera. Opera di un mio antico sodale ai tempi della Gioventù Liberale, è semplicemente magnifico! Confesso di essermene appropriato E mi auguro venga letto con attenzione. –  MdPR

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Il tema di questa tavola rotonda mi induce a porre a me stesso ed agli altri relatori le due domande fondamentali che sono sottese alla polemica politica che si sta sviluppando oggi in Italia sul tema delle riforme istituzionali:

Da dove veniamo?” e “Verso dove siamo andando?

Comincio ovviamente dalla prima, ricordando che il prossimo anno si celebrerà un grande anniversario, che temo passerà sotto silenzio, nell’indifferenza generale.

Saranno otto secoli dalla proclamazione del documento dal quale sostanzialmente discendono tutte le libertà dell’evo moderno, la Magna Charta Libertatum del 1215, che Giovanni Senza Terra, re d’Inghilterra, fu costretto a concedere ai baroni, che si erano sollevati in armi per costringerlo a stringere un patto con la base di consenso su cui si reggeva la litigiosa dinastia Plantageneta, quella che potremmo oggi definire come la classe dirigente dell’epoca.

Il re, ovviamente di mala voglia, s’impegnò a non riscuotere le tasse ereditarie e le imposte per la guerra se non col consenso dei baroni, salvo poi provare a rimangiarsi l’impegno, che però era ormai entrato nella mentalità del tempo, sino al punto che, ottanta anni dopo, nel 1297, il re Edoardo I emanò la “Confirmatio Chartarum”, dando così stabilità a una sorta di tacita clausola che da allora regolerà tutti i rapporti tra i governi e i popoli, codificata nella formula “no taxation without representation”, che è poi il tema di questa tavola rotonda.

Da allora questo binomio è divenuto indissolubile, e costituisce la più antica “riserva di legge” che si conosca, in ragione della quale solo assemblee rappresentative hanno il diritto di imporre tasse e riscuotere tributi.

Un principio che si è poi consolidato nel tempo, via via che gli spazi di libertà si sono andati espandendo nelle società europee e poi anche in quella nordamericana, a cominciare dal “Bill of Rights” della prima gloriosa rivoluzione inglese del 1689 e sino alla Dichiarazione d’Indipendenza dei tredici stati americani del 1776.

Per quello che ci riguarda più da vicino, possiamo ricordare l’art. 30 dello Statuto Albertino del 1848, per il quale “nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle camere e sanzionato dal re”, e richiamare l’art. 23 della Costituzione Repubblicana del 1948, per il quale “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.

E il punto è proprio questo, stabilire cioè a chi tocchi di fare la legge, e in particolare quali e quante imposte, dirette e indirette, che i cittadini debbano pagare allo Stato ed agli enti intermedi, perché questi possano attendere ai rispettivi compiti istituzionali, il che ci porta a richiamare per sommi capi come si configuri nella nostra Costituzione la fonte della legislazione, ovviamente non solo tributaria.

L’art. 70 Cost. stabilisce che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere”; queste sono elette dai cittadini, con modalità stabilite dalla stessa Costituzione, che detta in proposito una serie di regole che inequivocabilmente caratterizzano la nostra come una democrazia parlamentare che promana dal popolo, secondo un sistema organico di norme, l’una con l’altra coordinate, prescrivendo in particolare che: “il voto è personale ed eguale, libero e segreto” (art. 48.2); “la camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto” (art. 56.1); “i senatori sono eletti a suffragio universale e diretto” (art. 58.1); “tutti i cittadini … possono accedere … alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” (art. 51); “ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato” (art. 67).

E ciò, in linea con quanto stabilisce l’art. 3 del Primo Protocollo Addizionale n. 1 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), secondo cui tutti i cittadini europei hanno diritto a “libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo”, norma questa che è stata ratificata e resa esecutiva in Italia con la Legge 848-1955, in attuazione dell’art. 117 Cost., per il quale “La potestà legislativa è esercitata …… nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Dal predetto complesso di norme costituzionali emerge chiaramente che tutto si tiene, in un circolo assolutamente virtuoso: si parte dalle imposte, si passa attraverso la rappresentanza e si torna alle imposte!

E allora, chi pensasse che qui oggi andiamo discutendo di regole astratte, che interessano pochi addetti ai lavori, può agevolmente rendersi conto che i due concetti, tassazione e rappresentanza, sono strettamente connessi, e che non può esserci l’uno senza l’altro: più o meno come la pensavano quei baroni di otto secoli fa, che, con la spada in pugno, riuscirono ad imporre ad un re riluttante questo binomio divenuto ormai indissolubile.

Che, per la verità, non sempre il nostro legislatore ha avuto ben presente, come quando ha approvato quell’improvvida riforma costituzionale che ha concesso agli italiani all’estero, che di tasse in Italia non ne pagano proprio, il diritto di esprimere dodici deputati e sei senatori, che cosi acquisiscono titolo per mettere le tasse solo agli italiani residenti, senza che né loro, né i loro improbabili elettori, abbiano mai a subirne alcuna conseguenza. Ma questo è un altro discorso!

Conviene invece tornare all’oggetto di questa discussione, che è quello del modo di trasformare il voto dei cittadini in volontà politica del parlamento, e quindi, nella pratica, in seggi parlamentari.

Se quelli che abbiamo testé enunziato sono i principi costituzionali che regolano il meccanismo di trasformazione della volontà popolare in rappresentanza parlamentare, dobbiamo dire subito che i conti con le norme costituzionali cominciano a non tornare.

E andiamo con ordine.

In primo luogo, il voto non è eguale se è reso impossibile o difficoltoso il suo esercizio, ed in particolare se alcuni partiti, per accedere alla competizione elettorale, devono raccogliere sulle loro liste le firme di presentazione, in numero talvolta irragionevole come accade alle elezioni europee, mentre altri partiti possono farne a meno, così risultando drasticamente ridotto, ma solo per alcuni e non per altri, l’arco temporale utilizzabile per la formazione delle liste, che ovviamente devono essere sottoposte alla firma dei sottoscrittori precompilate coi nomi dei candidati.

E non è eguale se è diverso il suo risultato a seconda che l’elettore voti per una lista o per un’altra, e ciò in ragione dell’introduzione di soglie di accesso artificialmente stabilite senza alcuna motivazione che non sia quella dell’interesse dei partiti o delle coalizioni che li hanno imposti immaginando di poterle agevolmente superare.

Ne discende che risulta impedito, o comunque reso estremamente difficoltoso, l’accesso dei cittadini alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza.

Ed il voto non è libero, se esso non può determinare gli eletti che sono invece scelti dai vertici dei partiti con la presentazione di liste bloccate, poco importando se queste liste sono brevi o lunghe; e non è segreto se si costringono centinaia di migliaia di cittadini a pronunziarsi pubblicamente sottoscrivendo le liste come presentatori; e cessa di essere un dovere civico, se il suo esercizio viene di fatto impedito o almeno scoraggiato nel momento in cui l’elettore non trova sulla scheda una lista nella quale possa in qualche modo riconoscersi per poterne essere rappresentato.

Le pronunzie emesse in materia nelle sedi europee sono univoche nel senso della necessità di garantire la rappresentatività dei sistemi elettorali.

L’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, con una risoluzione del 18/04/2007, ha affermato che nelle elezioni politiche di democrazie consolidate non dovrebbero essere applicate soglie di sbarramento superiori al 3%; a sua volta, la Corte Costituzionale tedesca nel 2011 ha ritenuto compatibile col principio di eguaglianza del voto la soglia del 5% per le elezioni politiche, che tuttavia esonera dal vincolo della soglia i partiti che abbiano vinto almeno tre collegi uninominali; ma ha poi bocciato la medesima soglia del 5% per le elezioni europee, e, da ultimo, ha dichiarato incostituzionale anche la minore soglia del 3% successivamente introdotta.

Quanto all’Italia, possiamo affermare che, almeno a partire dal 2005, c’è stato un continuo e crescente “furto di democrazia” ad opera di tutti i partiti che si sono ritrovati dentro il sistema (insider), i quali cercano in ogni modo di impedire a chi ne è fuori (outsider) di accedere al vaglio del consenso popolare in condizioni di pari opportunità.

Ed è proprio questa motivazione che ha da ultimo portato la Corte Costituzionale italiana ad emettere la sentenza n. 1/2014, che ha censurato le più gravi violazioni della legalità costituzionale della legge elettorale italiana n. 270-2005 (il c.d. porcellum).

Per la verità, in passato i partiti italiani “insider” hanno anche fatto di peggio, essendosi arrogato il diritto di incassare i così detti “rimborsi elettorali” commisurati a tutti i cittadini, anche a quelli che si erano astenuti o che avevano votato per partiti “outsider” rimasti privi di rappresentanza perché al di sotto delle soglie artificialmente stabilite dai primi: insomma, proprio una porcheria costruita sopra l’altra!

Sta di fatto che, proprio in questi mesi, ed anche dopo la chiarissima sentenza della Corte Costituzionale che avrebbe dovuto indurli a riflettere prima di varare una nuova liberticida legge elettorale, i partiti egemoni della seconda repubblica ci stanno riprovando, inventandosi una nuova legge elettorale fatta a loro esclusiva misura, nel silenzio, ancora più colpevole, di quei piccoli partiti che ne saranno le prime inevitabili vittime.

Invece di legiferare “sotto un velo d’ignoranza” rispetto a chi se ne potrebbe avvantaggiare, i leader del PD e di Forza Italia stanno costringendo i loro parlamentari a legiferare “sotto una barriera d’ignoranza” rispetto ai principii che emergono chiaramente dalla sentenza della Corte Costituzionale, e che sono riassumibili nella formula secondo cui la legge elettorale deve contemperare i due criteri della rappresentatività del corpo elettorale e della governabilità ed efficienza del processo decisionale, quest’ultima possibile da perseguire ma nel rispetto del “vincolo del minore sacrificio possibile” per la rappresentanza democratica, come ha chiaramente sancito la Corte Costituzionale.

Il che ci fa anche comprendere come questi due criteri, entrambi fondamentali, non lo sono tuttavia negli stessi identici termini, almeno in un sistema di democrazia liberale qual è ancora il nostro.

Perché, mentre la rappresentatività è una caratteristica essenziale e inderogabile, senza la quale una democrazia cessa di essere liberale e può diventare qualsiasi altra cosa, anche opposta, la governabilità è solo un’utilità del sistema, che può esserci (ed è opportuno che ci sia), ma può anche essere ridotta o addirittura mancare del tutto, senza che per ciò stesso un sistema cessi di essere democratico, diventando solo un po’ più complicato da gestire.

Se una legge elettorale è in grado di assicurare la rappresentanza ma non un’agevole governabilità, quella che ne risulterà sarà comunque una società governata con un sistema certamente democratico; mentre, se assicura la governabilità ma non la rappresentanza, essa si collocherà senza dubbio al di fuori dei parametri indispensabili di qualsiasi democrazia

Da queste semplici considerazioni discendono alcuni principi che un buon legislatore, rispettoso dei principi costituzionali, dovrebbe tenere ben presenti nel momento in cui, dopo la pronunzia della Consulta, si accinge a legiferare in questa delicata materia.

In primo luogo, il principio del minore sacrificio possibile per la rappresentatività, per cui appare irragionevole un premio di maggioranza senza la prefigurazione di una soglia minima, in termini che comunque devono essere compatibili col principio di eguaglianza del voto, e che dovrebbe portare ad individuare ragionevolmente questa soglia in almeno la metà dei votanti.

Occorre infatti considerare che “soglia minima” non equivale a dire “minima soglia”, essendo evidente che la prima espressione sta per “soglia al di sotto della quale”, mentre la seconda espressione equivale a dire “soglia piccolissima”.

E la Corte Costituzionale ha per l’appunto affermato che è anche provare ad assicurare la governabilità del sistema, purché ciò non avvenga con eccessivo sacrificio della rappresentatività, valutando se la norma oggetto di scrutinio “sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescrive quella meno restrittiva dei diritti sacrificati”.

Quanto alla conoscibilità dei candidati, secondo la Consulta vanno escluse circoscrizioni troppo ampie e conseguentemente liste troppo lunghe, e sono quindi preferibili circoscrizioni piccole e liste brevi.

Il senso è chiaro: l’elettore, per scegliere con cognizione di causa, deve prima potere conoscere, nel senso che la conoscibilità è strumentale alla scelta, sulla base del principio einaudiano “conoscere per deliberare”.

Ma, se questo è vero, l’elettore deve potere esercitare la sua scelta tra più opzioni egualmente possibili, quindi tra più candidature ovvero tra più liste uninominali, liberamente proponibili, sia pure attraverso la mediazione dei partiti ai sensi dell’art. 49 della Costituzione, perché solo la competizione tra più candidati in lista, ovvero tra più liste in collegi uninominali, consente la possibilità di indirizzare liberamente il voto verso quella che sarà sembrata la migliore scelta possibile nella situazione data.

Del pari, perché la possibilità di scelta raggiunga il suo scopo, e sia quindi effettiva, è necessario che non possa essere vanificata da eventuali successive opzioni dei pluricandidati eventualmente eletti, per cui l’esclusione delle medesime candidature in più collegi dovrebbe esserne un naturale corollario,

Da tutto ciò discende che deve ritenersi costituzionalmente illegittima, e tendenzialmente antidemocratica, qualsiasi norma che trasferisca la scelta dei parlamentari a organi terzi, talvolta unipersonali, come ormai accade da venti anni nei partiti della seconda repubblica, sottraendola agli elettori, che sono invece gli unici titolati a farla con voto personale ed eguale, libero e segreto.

E proprio a tal fine la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 1-2014, ha espressamente richiamato l’antica sentenza n. 203 del 1975, che, pur ritenendo costituzionalmente legittima una lista predisposta senza rispettare l’ordine alfabetico dei candidati, ha basato questa convinzione sul presupposto che in definitiva era riservata all’elettore la possibilità , attraverso l’esercizio del voto di preferenza, di mutare a valle l’ordine predisposto a monte dal partito che aveva confezionato la lista.

Considerato che la questione delle preferenze è quella che probabilmente più animerà il dibattito dei prossimi mesi, credo che sia il caso di riportare qui alcuni passi salienti di quella lontana motivazione della Consulta, originata (mi sia permesso il ricordo quasi personale) da un contenzioso insorto tra due amici, dirigenti liberali dell’epoca, che si erano fronteggiati proprio sul tema della legittimità costituzionale nell’indicazione di un capolista nell’elezione di un piccolo comune laziale.

Ebbene, nel rigettare la q. l. c. proposta, la Consulta ha motivato come segue: “Le modalità e le procedure di formazione della volontà dei partiti ……. previste dalle leggi elettorali, non ledono affatto la libertà di voto del cittadino, il quale rimane pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza. Non si può parlare, pertanto, di costrizione o d’influenza psicologica e tantomeno di condizionamento dell’elettore. Il sistema elettorale tende solo a creare un rapporto conoscitivo tra un dato raggruppamento politico e il cittadino elettore, senza incidere in alcun modo sulla piena libertà di questo. In sostanza l’indicazione preferenziale da parte del partito di un candidato, normalmente realizzata attraverso il capolista, assume per l’elettore, che intende votare per quel partito, un carattere meramente indicativo, e non già di imposizione di scelta”.

Affermazioni queste che, in quanto espressamente richiamate nella sentenza n. 1-2014, dovrebbero essere attentamente valutate dal legislatore prima di escogitare qualche miserevole mezzuccio per sottrarsi al suo dovere di rispettare la libertà di scelta del cittadino elettore.

Se questi sono i principi che emergono dalla Costituzione e dalle stesse pronunzie della Corte Costituzionale, occorre ora esaminare come la materia risulterebbe regolata secondo la proposta governativa all’esame del Parlamento, sin dall’inizio denominata “italicum”.

E mi viene il dubbio che questa impropria definizione latina le sia stata subito affibbiata prima che qualcuno, imitando la sulfurea ironia di Sartori, le attribuisse qualche altro più appropriato nomignolo, del tipo “porcellissimum”, “bisporcellum”, “maialinum”, e via ironizzando sul tema.

Il progetto governativo, nato dal misterioso patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, prevede:

a) una soglia del 37% per l’accesso al premio di maggioranza, che tuttavia è a palesemente troppo bassa per superare ogni scrutinio di ragionevolezza;

b) listini da 3 a 6 candidati, in misura ridotta rispetto alle attuali lunghe liste circoscrizionali, e ciò nel  dichiarato intento di agevolare la conoscibilità dei candidati, pensando così di avere ottemperato sul punto alla censura della Corte Costituzionale, quando invece la sentenza n. 1-2014 ha valutato come indispensabile la conoscibilità in termini strumentali per garantire la “effettività della scelta e la libertà del voto”;

c) soglie di accesso differenziate (4,5%, 8%, 12%), addirittura più alte di quelle previste dal “porcellum”, rispettivamente per liste coalizzate e non, e per le coalizioni, con esplicita costrizione delle liste minori a coalizzarsi con uno dei partiti maggiori per avere titolo ad utilizzare la soglia più bassa;

d) la possibilità di pluricandidature, all’evidente scopo di garantire i dirigenti dei partiti minori, quale piccolo prezzo pagato per ottenere il loro consenso, in una sorta di voto di scambio.

E’ di tutta evidenza che si tratta di una riforma che non migliora la situazione originata dal “porcellum” e censurata dalla Consulta, ma addirittura la peggiora fortemente, generando nuovi e più gravi profili d’incostituzionalità, negati solo da chi non vuol vederli perché ha convenienza a chiudere gli occhi dinanzi alla realtà.

In sostanza, sta accadendo che un parlamento, che di per sé sarebbe già politicamente delegittimato per i meccanismi di nomina che l’hanno originato, si accinge a disapplicare la sentenza della Consulta, approvando una nuova legge elettorale che darebbe luogo a un nuovo parlamento ancora più delegittimato dell’attuale.

Il tutto all’insegna della solita motivazione, quella che i promotori di questa svolta oligarchica ci stanno propinando da venti anni, secondo cui occorre passare dalla democrazia spregiativamente denominata “consociativa”, a una democrazia che produca “alternanza” alla guida dei governi, sacrificando la rappresentanza sull’altare della governabilità.

E tuttavia senza neppure rendersi conto che il cumulo delle due misure proposte (premio di maggioranza comunque assicurato e soglie di accesso per i partiti), è privo di qualsiasi giustificazione proprio sotto il profilo della governabilità, posto che il premio di maggioranza (conquistato in prima o in seconda battuta) è comunque di per sé tale da assicurare a chi lo consegue la possibilità di governare, rendendo assolutamente inutili, e perciò costituzionalmente irragionevoli, le soglie di accesso, che assumono appaiono così soltanto finalizzate a escludere dalla rappresentanza milioni di elettori, costringendoli a convergere verso uno dei maggiori partiti oppure a rifugiarsi nella protesta o nell’astensione.

Si tratta, in buona sostanza, di un chiaro tentativo di passare dalla democrazia rappresentativa a una forma di democrazia sostanzialmente oligarchica, e potenzialmente anche autoritaria, che è poi l’unica risposta che sembra possibile dare alla seconda domanda, cercando di capire verso dove stiamo andando.

Per la verità, gli esempi, anche molto vicini a noi, non mancano.

A cominciare dall’Ungheria governata dal premier Orban, la cui involuzione politica può essere istruttiva per immaginare il futuro che può aprirsi dinanzi a noi.

Il partito di Orban nasce nel 1988 col nome di alleanza dei giovani democratici; allora Orban era considerato un liberale, salvo a spostarsi presto su posizioni di destra populista e illiberale; sulla base di questa nuova impostazione, non appena divenuto premier si è premurato di fare approvare da quel parlamento una nuova legge elettorale, quella con cui si è appena votato, con soglie di accesso progressivamente crescenti: 5% per i singoli partiti, 10% per coalizioni di due partiti; 15% per coalizioni di tre partiti.

E nel frattempo, per rafforzare il suo personale potere, ha accresciuto i poteri del governo, ha ridotto quelli della corte costituzionale, ha introdotto una legge “bavaglio” per i media, ha ridotto l’area della giurisdizione, ha sottomesso al governo la banca centrale, ha esteso il mandato degli organi di controllo; e infine, per evitare che le sue riforme chiaramente autoritarie potessero essere rimesse in discussione, ha fatto introdurre il quorum dei due terzi per le future modifiche istituzionali, così rendendo praticamente impossibile una modifica del nuovo assetto autoritario per via elettorale, il che costituisce la premessa naturale di una rivoluzione prossima ventura, quando ne saranno maturate le condizioni.

C’è poi l’esempio della Turchia, il cui sistema monocamerale è regolato da una legge elettorale proporzionale con una soglia di sbarramento altissima (10%), praticamente irraggiungibile per chiunque voglia affacciarsi per la prima volta alla competizione elettorale, il che ha messo nelle mani di un leader carismatico e totalizzante un grande paese, periodicamente oscillante tra opposte spinte autoritarie di matrice militarista o islamista, entrambe comunque lontanissime da qualsiasi schema di democrazia liberale.

Ovviamente, evidenziare questi pericoli non vuol dire necessariamente che questi siano gli obiettivi di coloro che in Italia le riforme costituzionali ed elettorali le hanno promosse e le stanno sostenendo, magari, a tutto concedere, con le migliori intenzioni di questo mondo.

Il punto è che le buone intenzioni non fanno sempre buone decisioni; ed è addirittura Marx (Il Capitale, libro 1°, cap. 5) che ci ricorda che “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”.

Ed è possibile immaginare che buone intenzioni abbiano forse avuto alcuni dei componenti della Commissione parlamentare dei 18 (nella quale i fascisti erano solo tre), che nel 1923 predispose il testo della legge Acerbo (dal nome del sottosegretario che l’aveva confezionata ad uso e consumo del capo del fascismo), con cui Mussolini perfezionò la sua presa del potere.

E bene intenzionati erano in particolare quei deputati liberali, popolari e socialisti che accettarono di fare parte di quella commissione, presieduta da Giovanni Giolitti, e che tra i suoi membri vedeva anche Alcide de Gasperi

In Commissione, la proposta di legge fu approvata con dieci voti favorevoli ed otto contrari; quando toccò all’aula, Bonomi propose di alzare la soglia dal 25% al 33%, ma il governo Mussolini pose la fiducia e l’emendamento fu respinto (178 contro 157, con ben 53 assenti); e poi la legge passò con 223 si e 123 no.

Votarono a favore i fascisti, buona parte dei popolari, la stragrande maggioranza dei liberali, quasi tutti quella della destra, tra i quali Salandra; votarono contro socialisti, comunisti, la sinistra liberale, ed i popolari di don Sturzo.

E fu così che alle elezioni del 6 aprile 1924, il listone di Mussolini prese il 60,09% dei voti (ed il 65 % dei seggi), e riuscì ad aggiudicarsi altri 19 seggi attraverso una lista minore, che oggi chiameremmo “lista civetta”, con una denominazione a cui la c. d. seconda repubblica ci ha poi abituato

Si verificò quello che allora venne definito “un classico caso di suicidio di un’assemblea rappresentativa”; che si sarebbe poi ripetuto alcuni anni dopo in altri due grandi paesi europei, la Germania, quando nel marzo del 1933 Reichstag votò i pieni poteri a Hitler, e la Francia, quando nel luglio del 1940 l’Assemblea Nazionale francese votò la fiducia al governo Petain.

Quanto all’Italia, a partire dalle elezioni del 1924, grazie alla legge Acerbo, Mussolini si assicurò quella solida maggioranza parlamentare che non aveva mai avuto, il che gli consentì poi di introdurre, senza violare la legalità formale, le innovazioni più traumatiche e più lesive della legalità sostanziale.

Se guardiamo a quegli avvenimenti “sine ira ac studio”, possiamo anche comprendere, pur senza condividerle, le motivazioni che allora portarono tre grandi paesi europei, a fare quelle tragiche scelte.

L’Italia e la Germania si trovavano in piena tragedia, sociale e politica, mentre sulle loro strade impazzavano le bande paramilitari; quanto alla Francia, aveva appena subito una cocente sconfitta militare ed era in corso l’occupazione del Paese sotto lo stivale nazista.

Ma qui e oggi, quando nessuna di quelle circostanze eccezionali ricorre, dobbiamo chiederci quale mai possa essere per i parlamentari italiani quella forza maggiore alla quale si piegarono i loro colleghi nei tragici eventi dello scorso secolo.

Non mi pare che possa essere una buona giustificazione quella di chi afferma che un parlamento che si rifiutasse di ingoiare questo rospo indigesto dovrebbe vedersela con l’opinione pubblica, che invece appare divisa ed addirittura sconcertata per la piega surreale che la vicenda sta prendendo.

Ed è del pari risibile il richiamo alle ampie riforme che sarebbero imposte dai nostri partner europei, quando anche le pietre sanno che le riforme giustamente invocate dall’Europa riguardano ben altro (tanto per esemplificare e senza pretesa di esaustività: mostruoso debito pubblico, spesa statale incontrollata, privatizzazioni e liberalizzazioni mai realizzate, giustizia ritardata e sempre più costosa, mercato del lavoro ingessato, pressione fiscale intollerabile, burocrazia oppressiva e paralizzante, sanità regionale corrotta, scuola pubblica inefficiente, etc.).

Per non parlare del ridicolo di cui inconsapevolmente si copre chi apostrofa col titolo spregiativo di “professoroni” personaggi che portano i nomi prestigiosi di Luigi Ferrajoli che insieme a Rodotà, Zagrebelsky, Azzariti e tanti altri non fanno altro che il loro dovere di intellettuali nel momento in cui richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica sui pericoli di una involuzione autoritaria dell’Italia.

Il fatto si è che la strada di questa riforma elettorale (come anche della concomitante riforma del Senato) è lastricata di una velata minaccia, ancorché di valenza ben diversa rispetto a quelle addirittura fisiche che dovettero subire i parlamentari del 1923, e che si può condensare nella prospettiva dello scioglimento anticipato della legislatura.

Una minaccia, per la verità, più virtuale che reale, posto che in questo momento le elezioni dovrebbero svolgersi col sistema uscito dalla sentenza della Consulta, che, reintroducendo un meccanismo proporzionale con piccole soglie di accesso e con possibilità di esprimere almeno una preferenza, sarebbe forse l’unico che consentirebbe agli attuali parlamentari di potere resistere ai soprusi di chi, avendoli nominati in passato, vorrebbe oggi sostituirli nominandone altri, ancora più accondiscendenti di quanto non si stiano dimostrando quelli attualmente in carica.

Ancora una volta, non sembri strano per un liberale di ricorrere ad una profezia di Marx, quando osservava che “la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa”, posto che le minacce che in questi giorni corrono nelle aule parlamentari sembrano proprio una riproduzione farsesca di quelle, certamente vere e reali, subite dai parlamentari del secolo scorso.

A questo punto penso sia lecito chiedersi se a questo Parlamento, eletto (anzi nominato) con un sistema elettorale maggioritario, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, sia titolato a produrre una nuova legge elettorale e addirittura una nuova Costituzione.

E come mai pochi rammentino quell’antichissimo ed elementare principio della c. d. “nullità derivata”, per cui “quod nullum est, nullum producit effectum”, anche se la Corte Costituzionale, nella sua sentenza, ha cercato di esorcizzarla sacrificandola sull’altare dell’indefettibile c.d. “continuità dello Stato”, e tuttavia certamente senza immaginare a quale livello di aberrazione costituzionale sarebbero stati capaci di pervenire i leader di destra e di sinistra, uniti come non mai nel tentativo di scardinare le fondamenta democratiche e liberali della nostra Repubblica.

E occorre chiedersi se questo Parlamento, possa farlo addirittura demolendo senza alcun ritegno anche i pochi ma chiarissimi limiti individuati dalla Corte Costituzionale, così riducendo la capacità rappresentativa del sistema a due soli partiti, a loro volta capaci di coalizionare una piccola corte di partiti dipendenti, reclutati al solo fine di conseguire il premio di maggioranza, nello specifico quello di Berlusconi e dei suoi eredi aziendali, quello di Renzi e dei suoi mattinieri fans, mentre quello di Grillo e dei suoi internauti, privo com’è, al momento, di volontà coalizionale, resterebbe destinato ad una funzione di mera testimonianza.

Col risultato di espellere dalla rappresentanza parlamentare tutti gli altri, anche quelli che ingenuamente sognano di essere risparmiati dalla valanga che li travolgerà, e che, invece di pensare a preservare l’agibilità politica di tutti i cittadini, sembrano soltanto preoccupati di assicurarsi qualche personale salvacondotto, mentre continuando a litigare tra di loro per conquistare qualche strapuntino di effimero potere.

L’impressione è che si tratti di novelli “polli di Renzi”, ben disposti ad essere portati al macello, e quindi assai peggio di quanto non sia capitato in sorte ai poveri “polli di Renzo”, che almeno, mentre litigavano, non avevano alcuna consapevolezza del destino che li avrebbe accomunati.

Eppure, tutti questi improbabili protagonisti della vita politica italiana dovrebbero almeno riflettere sulla circostanza, assolutamente nuova, che la meritoria iniziativa giudiziaria che ha portato alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale del porcellum ha ormai praticamente aperto l’accesso al sindacato di costituzionalità, tutte le volte che si profilerà una irragionevole compressione del diritto di voto.

E che è ormai risultata rischiarata quella sorta di “zona d’ombra” che una parte significativa dei costituzionalisti italiani, nei seminari del c. d. Gruppo di Pisa,  aveva individuato come una “zona franca”, nella quale non appariva possibile alcuna tutela giurisdizionale in ragione dell’autodichia riconosciuta alle Camere in materia di contenzioso elettorale.

Sta di fatto che, ormai, questa zona franca non c’è più, dopo che la sentenza della Consulta ha affermato, nella sentenza n. 1-2014, che essa “determinerebbe un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato”.

In conclusione, a me sembra che sarebbe meglio per tutti – parlamentari in carica, partiti o sedicenti tali e cittadini prossime vittime degli uni e degli altri – se prima di intervenire su una materia così delicata come quella della legge elettorale, destinata a regolare la rappresentanza popolare nei prossimi decenni, si chiedesse al corpo elettorale una nuova legittimazione, affrontando l’elezione con la legge sicuramente costituzionale uscita dalla decisione della Consulta.

Da liberale d’antan, quale sono, credo che mi sarà consentito di concludere ricordando un insegnamento di Giovanni Malagodi, quando ammoniva i giovani liberali di un tempo, tra i quali c’ero anch’io, ricordando che “le vittorie della libertà non sono per sempre, e che i suoi nemici si ripresentano ad intermittenza sulla scena della politica, con sembianze, vesti e modi sempre diversi, ma sempre finalizzati allo stesso scopo: l’esercizio del potere, senza fastidiosi vincoli e controlli”.

E ricordando – in particolare a quei liberali che, come quelli del 1923, accarezzano nuovamente oggi il mito dell’uomo solo al comando – che il liberalismo, al quale rendono formale omaggio, non è la dottrina della conquista e dell’esercizio del potere, ma la dottrina della “limitazione del potere”, attraverso garanzie, vincoli e controlli, che rendono la democrazia liberale un esercizio tanto difficile quanto indefettibile, a salvaguardia di tutti, anche di chi non ha nessuna voglia di essere salvaguardato.

Proprio quei vincoli e controlli che sono oggetto di un’ulteriore riforma, quella del Senato, che, pur muovendo da legittime critiche agli attuali meccanismi della produzione legislativa, in effetti mira a trasformare la seconda camera in una sorta di dopolavoro delle autonomie locali, in particolare delle regioni, che tutta l’esperienza di questi ultimi quaranta anni ha dimostrato essere la sentina di gran parte del malaffare che affligge la nostra vita pubblica.

Una riforma, quella del Senato, che, in combinato disposto con quella elettorale, si sta provando a fare passare in fretta e furia, strappando il consenso dei parlamentari con la minaccia dello scioglimento anticipato delle Camere, e che gli attuali parlamentari dovrebbero avere il coraggio di raccogliere e rilanciare nel campo del ricattatore di turno.

Ma questo è un altro discorso, che andrà fatto presto!

Enzo Palumbo