Il valore militare degli Svizzeri

La leggenda degli Svizzeri pacifisti, borghesi, nemici delle armi e amici della speculazione bancaria è facilmente smontabile.

In realtà, nella tradizione svizzera giganteggiano gli episodi legati al valore militare, allo spirito battagliero, all’onore per la parola data.

Episodi che trovano il loro culmine in due date fondamentali della storia d’Europa: il 14 luglio (presa della Bastiglia e festa nazionale francese), e il 20 settembre (breccia di Porta Pia e festa nazionale italiana fino al 1929).

Con decine di strade e piazze intitolate, ancora oggi, in Francia e in Italia, a quelle due date che videro – anche se nessuno ne parla – il sacrificio di un pugno di giovani svizzeri in nome dell’onore, della tradizione, dell’ordine e della fede.

In realtà, si sente il bisogno di un libro dedicato alle vicende militari che videro protagonisti, per secoli, i soldati svizzeri.

A partire da Guglielmo Tell.

Chissà che un giorno non mi succeda di cimentarmivi?

Guglielmo Tell, dicevo.

Gli scettici di professione avanzano persino dubbi sulla sua reale esistenza, dato che non vi sono lasciti concreti (carte, armi, documenti).

Ma esiste una letteratura assolutamente credibile, e talmente antica da poter escludere che sia parto di fantasia.

Agli inizi del 1300 la Svizzera era soggetta agli Asburgo e anche alle soglie del Gottardo, dove Guglielmo era nato e viveva, tutti i cittadini che passavano dinnanzi al cappello imperiale issato in segno di dominazione erano obbligati ad inchinarvisi in segno di sottomissione ed obbedienza.

Un giorno Guglielmo evitò vistosamente quell’obbligo.

Arrestato e processato, fu sottoposto alla ‘prova della balestra’.

Con una freccia, doveva centrare una mela posta sul capo del figlioletto Gualtiero.

Se l’avesse mancata (ma anche se, per disavventura, avesse colpito il bambino) sarebbe stato ucciso.

Guglielmo fece centro, colpì la mela e poi, con la stessa balestra, uccise il ‘balivo’ Gessler, vassallo degli Asburgo nella zona del Gottardo.

Fu l’inizio della rivolta che libererà per sempre la Svizzera dal dominio asburgico.

 

La parola stessa (soldati) nasce in Svizzera.

E sta per ‘assoldati’, cioè ‘ingaggiati a pagamento’.

Siamo sempre nel XIV secolo, ovvero quel 1300 segnato dalle imprese di Guglielmo Tell, che è divenuto ben presto un mito in tutti i cantoni.

I soldati sono mercenari che si mettono in luce per il loro valore e la determinazione sui campi di battaglia di tutta Europa, come pure per la loro assoluta fedeltà verso chi li aveva ingaggiati.

Ben presto, segneranno la superiorità della fanteria sulla cavalleria che era stata l’arma privilegiata del Medio Evo.

‘Mercenari’ perché si battono in cambio di una ‘mercede’.

Già nella ‘Guerra dei Cent’anni’ si erano messi in luce per il loro coraggio e la loro audacia.

Re Luigi XI ne arruolerà seimila nel 1480, guidati da Guglielmo di Diesbach, per addestrare il suo esercito.

Con Papa Giulio II animeranno la Lega Santa.

Fu lo sviluppo degli eserciti permanenti a porre fine all’era dei mercenari svizzeri.

Soprattutto con la nascita della cosiddetta ‘leva obbligatoria’, parola che nasce dalla ‘levée’, figlia della Rivoluzione francese (che sta per ‘levata’, ovvero i ragazzi sottratti, levati, portati via con la forza alle famiglie e ai genitori).

Sistema indecoroso e violento, subito imitato da tutti gli Stati europei, compresi quelli monarchici.

Infatti, costava assai meno mandare a morire i ragazzi del proprio Paese che ingaggiare, a suon di monete d’oro, i pur valorosi ed imbattibili svizzeri.

Dopo la Restaurazione seguita alla parabola napoleonica, i mercenari svizzeri ancora disponibili continueranno a servire in Francia la monarchia fino alla caduta di Luigi Filippo nel 1848, e, in Italia, il Regno delle Due Sicilie con un Reggimento battutosi valorosamente contro Garibaldi alle battaglie del Volturno e del Garigliano.

A ricordo di quella epopea che vide gli svizzeri combattenti per antonomasia, vale ricordare che, oltre alla fedeltà assoluta nei confronti dei ‘datori di lavoro’, una caratteristica essenziale della loro natura era il rifiuto totale della viltà, al punto da contemplare la soppressione di chi fuggiva volgendo le spalle al nemico.

Valga, in proposito, questa citazione da ‘Il Principe’, di Nicolò Machiavelli, capitolo XII:

“…Così, la maggior paura vince la minore.

E per paura di vergognosa morte, non si teme una honorata morte”.

Ampiamente comprensibile e giustificato, dunque, il detto:

Pas d’argent, pas de Suisses”.

 

A Lucerna giganteggia la celebre statua del leone morente con la scritta in latino ‘Helvetiorum fidei ac virtuti’.

Un motto che sintetizza in maniera perfetta le qualità degli svizzeri guerrieri: la fede e il valore.

Gli autori del capolavoro marmoreo e delle scritte che lo circondano pensavano sicuramente a quei soldati svizzeri che sacrificarono le loro vite per difendere l’ultimo Re di Francia dai furori giacobini.

Accadde a Parigi martedì 14 luglio 1789, allorché la folla istigata dai ‘sanculotti’ di Robespierre, di Marat e di Danton assaltò l’Hotel des Invalides, deposito di armi dell’Armata francese, impadronendosi di ben ventottomila fucili e di dodici cannoni.

Mancavano però le cartucce e la polvere da sparo per le bocche da fuoco.

Erano custoditi alla Bastiglia, fortezza simbolo dell’autorità reale, difesa dalle guardie svizzere comandate dal sergente Hulin.

I soldati francesi erano spariti.

L’Armata aveva fatto causa comune con il popolino e il generale Besenval, abbandonato dai suoi uomini, era fuggito a Versailles, per raggiungere re Luigi XVI.

Unici a restare fedeli al sovrano erano stati gli svizzeri.

Governatore della Bastiglia era il marchese Bernard de Launay, che ordinò di resistere.

La folla (migliaia di assatanati) urlava: “En bas la troupe!”.

Alle 13,30 si scatenò l’assalto con l’abbattimento, a colpi d’ascia, del ponte levatoio.

Gli svizzeri aprirono il fuoco.

Da tutti i quartieri di Parigi iniziarono ad accorrere gruppi di armati che ben presto ebbero la meglio.

Il governatore De Launay e il prevosto Jacques de Flesselles furono decapitati, le loro teste issate sulle forche e trascinate in corteo per le vie di Parigi.

Le trentadue guardie svizzere che avevano cercato di fermare la folla furono massacrate e decapitate.

Ancora oggi la Francia celebra quella  orribile giornata come ‘festa nazionale’.

Ma il sacrificio e l’eroismo degli svizzeri non era finito.

Luigi XVI e la sua famiglia, il 6 ottobre 1789  erano stati costretti a lasciare Versailles ed erano stati rinchiusi alle Tuileries, una sorta di ‘arresti domiciliari’.

Tentarono la fuga la sera del 20 giugno 1791, ma furono catturati a Varennes e ricondotti alle Tuileries.

Il 10 agosto la folla assaltò il palazzo e, dopo avere massacrato le ultime guardie svizzere rimaste a difendere il Re, costrinse Luigi XVI a rifugiarsi all’Assemblea Legislativa, dove lo attendeva la sua sorte: la condanna a morte votata dalla maggioranza dei deputati.

Membri della Guardia Svizzera Pontificia
Membri della Guardia Svizzera Pontificia

 

Il 29 settembre 2012, in occasione della festività di San Michele Arcangelo, patrono della Gendarmeria vaticana,  il principe Sforza Ruspoli, che l’aveva ereditata dai suoi avi e la custodiva con cura e amore, donò al Pontefice Benedetto XVI la bandiera sotto la quale le truppe pontificie si erano battute contro gli invasori dell’esercito piemontese in difesa dello Stato Vaticano a Porta Pia.

Un evento di rilevante portata storica, ancorché ignorato nella maniera più totale da tutti i mezzi d’informazione.

Sotto quella bandiera, infatti, erano caduti gli ultimi difensori della sovranità della Chiesa, tutti svizzeri: gli zuavi del generale Kanzler, che lasciarono sul posto, dilaniati dai cannoni, sedici morti e quarantanove feriti.

Per decenni, fino ai Patti Lateranensi del 1929, il 20 settembre è stato, in Italia, festa nazionale.

Il 20 settembre del 2008, in occasione dell’anniversario della presa di Roma (o della sua liberazione, a seconda dei punti di vista), scoppiò una polemica che ebbe una vasta eco sui mezzi d’informazione con titoli di questo tipo: ‘Porta Pia, ricordati solo i caduti del Papa’.

Le cronache (frettolose e imprecise) riferivano che, durante la cerimonia, un generale aveva fatto i nomi dei sedici zuavi uccisi dai bersaglieri di La Marmora, mentre i nomi dei caduti italiani erano finiti nel silenzio.

In proposito fece colpo, per la sua limpida schiettezza, la lettera di precisazione inviata dal generale in questione, Antonino Torre, comandante dei Granatieri, al Corriere della Sera.

Dopo avere messo i puntini sulle i (avere cioè ricordato che i bersaglieri erano stati doverosamente ricordati dal generale Giancarlo Renzi), il generale Torre così precisava:

La lettura dei nomi dei ‘famigerati’ soldati pontifici caduti è stata da me fatta d’intesa e su sollecitazione dell’Associazione Bersaglieri.

C’è da tener presente, a tale proposito, che per i militari che possiedano il senso dell’onore, esistono e sono degni di rispetto anche i vinti, ai quali viene riconosciuto l’onore delle armi  pure se sono stati avversari, nemici.

I veri militari non odiano il nemico, che rimane tale fino alla fine delle ostilità, per poi diventare un ‘commilitone’ sconfitto.

Il perpetuarsi dell’odio, forse, fa comodo solo a chi, sulle disgrazie di una nazione, sui lutti e le sofferenze di tanta povera gente, ha fondato e mantiene in vita le proprie fortune politiche.

A destra e a sinistra.

Limpide e bellissime parole che non possono non essere condivise e che, a distanza di anni, continuano a conservare la loro carica di attualità.

Quanto finora ho scritto va ad onore degli svizzeri in armi, predecessori e antenati dell’attuale, piccolo ma agguerrito esercito elvetico, formato da duecentoventimila soldati di età fino ai trent’anni, con periodo di servizio dalle diciotto alle ventuno settimane e con sei richiami di tre settimane ciascuno.

Soldati che continuano a mostrare il loro valore anche nella partecipazione alle missioni militari internazionali dell’ONU.

Luciano Garibaldi