Il Crocefisso Risorto

novella pasquale di Vittorio Salerno

“Lo voglio bello grande, scolpito in quel legno chiaro che usate voi a Ortisei, ma lo voglio Risorto!”

“Come Risorto?

Il Crocefisso ha le mani e i piedi inchiodati alla croce, Don Giulio…”

“Certo, ma dev’essere già Risorto, capito?”

“No… Non mi è mai capitata una richiesta simile…”

“Lo scultore è lei, Mastr’Antonio, tocca  a lei risolvere il problema! Papa Wojtyla ha detto che voi   artisti avete ‘la scintilla divina’, no? La usi!”

“Certo, ma è un rompicapo!

E poi, mi scusi Don Giulio, perché vuole che il Cristo sia già risorto?”

“Perché l’umanità è a un bivio: o si converte, e torna a pregare e ad affollare le chiese, o è la fine…

L’ha detto Giovanni Paolo II, un santo, mica io.

I miei parrocchiani sono bravi cristiani, ma qualcuno ha difficoltà a credere nella Resurrezione, la prova perfetta, assoluta, della Divinità del Cristo.

Sa, Maestro, il Materialismo, la New Age, l’Edonismo, il Razionalismo, il Relativismo, tutti quei atteggiamenti alla moda che turbano gli animi e confondono gli ingenui…

E io voglio farlo vedere a tutti che Gesù Cristo è Risorto, a tutti!

E tutti i giorni!”

“La capisco, Padre… anche qui da noi, in valle, i cristiani praticanti non sono molti…”

“E guardi che deve essere pronto per Pasqua!

Ha ricevuto il bonifico?”

“Si ma è poco… andrebbe bene per un Crocefisso normale, ma lei mi chiede una lavorazione speciale, che mi porterà via chissà quanto tempo, Don Giulio…”

“Va bene, le manderò ancora qualcosina, ma non mi faccia spendere tanto…”

“Veda lei, quello che può…” “D’accordo…”

 

Mastr’Antonio appoggiò il ricevitore del telefono e si stiracchiò sulla sedia di legno facendola scricchiolare come al solito, ravviandosi i capelli bianchi con tutte e due le mani.

Doveva mettere delle viti di rinforzo ai controperni  o un giorno o l’altro si sarebbe trovato col culo per terra; quello scranno gliel’aveva lasciato suo padre, che forse l’aveva ereditato dal nonno, il più famoso scultore di Ortisei e di tutta la Val Gardena.

Si guardò attorno nella bottega polverosa piena di sbozzi e truccioli, opere incompiute, venute male, spezzate, risistemate.

Il tiglio, il cirmolo e l’abete rosso della Val di Fiemme, quello stesso che usavano i liutati di Cremona per fare viole e violoncelli, a volte riservavano delle sorprese; se si scopriva un nodo in formazione all’interno del tronco, non c’era niente da fare; bisognava cambiar strada, modificare il progetto o rinunciarvi.

E a volte il ‘pezzo’ finiva nella ‘stua’.

Il vecchio orologio a cucù, che non batteva più le ore da anni, segnava le sette meno dieci, e Antonio decise che era ora di andare all’osteria; per oggi basta; domattina avrebbe iniziato il nuovo lavoro a mente fresca, sempre che gli fosse venuta l’idea giusta.

Provò a scarabocchiare qualcosa sulla tovaglia di carta del tavolaccio più per convincersi che l’impresa era impossibile che per cercare la soluzione, ma era come far quadrare il cerchio.

O si fa un cerchio o un quadrato, tutti e due assieme non vanno.

O il Cristo è in croce, con suoi chiodi ben piantati nelle carni, i muscoli delle braccia tesi per contrastare la forza di gravità, o è Risorto, trionfante, con le braccia spalancate ad abbracciare il mondo cui ha portato la Buona Novella.

E allora la croce non c’entra, non serve più, ha finito il suo compito.

Come unire le due strutture, come amalgamare Crocefissione e Resurrezione in un unico movimento plastico, in un’unica scultura lignea?

Andò a parlarne col diretto interessato.

“Gesù,” disse Antonio fissando il Crocefisso d’argento che svettava sull’altar maggiore, “tu sai che ti voglio bene.

Ti ho sempre ritratto con rispetto e devozione.

Ogni volta ho cercato di modellare le tue carni straziate con crudo verismo, onde far vedere ai fedeli la forza e l’abnegazione con la quale sopportasti gli atroci dolori della Croce; talvolta sono riuscito quasi a far sentire il dolore  che provavi, e chissà quante anime si sono convertite o hanno pregato ai tuoi piedi; ma don Giulio mi chiede una cosa impossibile.

Come puoi essere Crocefisso e Risorto insieme?

Ti prego, aiutami anche questa volta…” disse, e avrebbe continuato fino a notte se Peppe non l’avesse chiamato.

“Tonin, io chiudo! Resti dentro?”  disse il vecchio sacrestano facendo tintinnare il mazzo di chiavi che gli pendeva dalla cintura, e Mastr’Antonio se ne tornò a casa come ogni sera.

 

Quella notte Gesù gli venne in sogno, ma non gli disse niente.

Invece che di carne sembrava fatto di legno, come fosse una sua scultura.

A volte gli appariva appeso alla croce, altre volte con le braccia tese in avanti come per abbracciare l’umanità.

“Vedi che anche Tu non ci riesci? O sei Crocefisso, o sei Risorto…” gli disse Antonio nel dormiveglia e si abbandonò ad un sonno agitato, pieno di immagini sacre, ricordi, incubi.

Rivide la sua povera moglie, morta giovane senza avergli  dato neanche un figlio, che lo guardava e piangeva.

Piangeva sempre la sua Elvira, quando le appariva in sogno, e lui non riusciva a capire perché.

Erano stati bene assieme, quei venticinque anni di matrimonio.

E lei era stata sempre allegra, premurosa, innamorata come quando erano fidanzati.

Ogni tanto si rabbuiava un poco, forse pensando alla sua croce di non poter avere figli, ma se il Signore aveva disposto così, pazienza, aveva più tempo da dedicare al suo sposo-scultore, come lei chiamava il marito, e la razza dei Valmorin finiva con lui, con Mastr’Antonio.

Purtroppo, invece di festeggiare le nozze d’argento, quel giorno tutto il paese l’accompagnò al cimitero.

Un brutto male s’era impadronito improvvisamente di lei, e se l’era portata via in pochi mesi.

“Il Volto!” gridò Mastr’Antonio nel dormiveglia. “E’ il Santo Volto che va lavorato!”

Disse mettendosi subito a scalpellare il tronco di tiglio che aveva preparato la sera prima, e alle prime luci dell’alba era già sbozzato.

Ci lavorò tre giorni e tre notti, febbrilmente, poi lo rifinì, lo levigò con l’asprella come usava suo padre, e alla fine del terzo giorno quel Volto sembrava veramente trionfare sulla morte, come un re: il Re dei re!

 

Pasqua si approssimava, e si mise a lavorare al corpo del Salvatore che gli venne un po’ male perché non legava con quell’espressione trionfante del Volto, ma alla fine fu soddisfatto lo stesso: era un magnifico Crocifisso alto quasi due metri, inchiodato alla croce, ma con l’espressione trionfante nel Viso, come voleva Don Giulio.

Lo adagiò in una cassa di quelle grandi, lo caricò sul suo furgoncino e andò alla stazione ferroviaria a spedirlo.

Tre giorni dopo, la vigilia di Pasqua, squillò il telefono verso mezzogiorno.

Era Don Giulio.

“E bravo Antonio!” gli disse subito il parroco di quel paesino di montagna.

Lo sapevo che ce l’avresti fatta!

Sei il miglior scultore della Val Gardena, come lo era  tuo padre e tuo nonno!”

“Grazie, Don Giulio, sono contento che le piaccia.

E’ proprio come intendeva lei?” chiese il vecchio scultore.

“Perfetto! Solo non capisco come hai fatto ad ancorare un Cristone così grosso alla croce!

Peserà due quintali!” aggiunse don Giulio.”

“Come al solito, ci ho ficcato dentro dei bei chiodoni nelle mani, e nei piedi!”.

“Qui non si vede niente!

Avrai lavorato sul retro, per tenere nascosto il macchingegno… Bravo!”

“Grazie…” rispose Mastr’Antonio con un fil di voce, e quella notte non dormì.

“Come non si vede niente?

Ci ho messo dei chiodoni enormi!…” pensò, rivoltandosi nel letto tutta la notte.

La mattina dopo, appena terminata la Messa delle sei, prese il treno per Torino.

Dalla Val Gardena alla Valle D’Aosta era lunga la strada, e avrebbe passato il giorno di Pasqua in treno.

Alla stazioncina del paese invece di aspettare il pullman prese un taxi, per paura di arrivare in ritardo, ed infatti dovette chiedere al sacrestano di aspettare un momento perché stava per chiudere il portoncino della pieve.

Entrò in chiesa togliendosi il cappello, s’incamminò verso l’altar maggiore, ma le sue gambe improvvisamente divennero rigide, come di legno, e cadde in ginocchio in mezzo alla chiesa rimanendo senza fiato.

 

L’ultimo raggio di sole filtrava dalle vetrate colorate ed andava ad illuminare il ‘suo’ Cristone appeso al centro dell’apside, e Mastr’Antonio si sentii venir meno.

Il ‘suo’ Salvatore sembrava come sospeso nel vuoto innanzi alla croce, e non c’erano chiodi nei piedi e nelle mani, mentre le braccia erano tese in avanti come per abbracciare l’umanità intera.

Il Volto era radioso, come l’aveva scolpito lui, il Volto di Colui che ha vinto la morte, il Volto del Re dei re.

“Grazie, Gesù!” disse Antonio tra le lacrime, “sapevo che a te nulla è impossibile!”

 

Ora la sua opera era perfetta, il corpo glorioso del Redentore si amalgamava perfettamente con l’espressione trionfante del viso.

L’avesse visto il suo papà quel bel Cristo Risorto dalla Croce, quel suo padre arcigno e severo che gli diceva sempre che non avrebbe mai combinato niente di buono!