Insulti, istruzioni per l’uso

E’ sufficiente ritenersi offeso per ricorrere a vie di fatto colpendo fisicamente l’avversario, come fece il francese nei confronti dell’italiano, la cui colpa era consistita soltanto in alcune parole?

Ed è giusto che rientrato a Parigi, dopo avere compiuto quella prodezza, l’energumeno fosse accolto con tutti gli onori, ricevuto dallo stesso capo dello stato e da lui portato ad esempio dei concittadini come se avesse compiuto un’epica impresa e non un atto canagliesco?

Non ci riferiamo, come si potrebbe supporre, all’episodio che vide protagonisti i calciatori  Zinédine Yazid Zidane e Marco Matarazzi nello stadio di Berlino nel luglio del 2006, ma ad altro fattaccio, che si svolse nella cittadina laziale di Anagni esattamente sette secoli e tre anni prima: il 7 settembre del 1303.

Il francese furioso, che si chiamava Guillaume de Nogaret e di mestiere faceva non il calciatore ma il leguleio, era stato inviato in Italia con lo scopo preciso di dare una lezione con uno storico schiaffo al papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani.

Per la verità, secondo un’altra versione, l’esecuzione concreta dell’azione sarebbe stata dal Nogaret delegata al suo amico romano Sciarra Colonna, ma anche se così fosse stato lo schiaffo, sia pure per interposta persona, restava di origine gallica.

L’offesa, per la quale il Papa ricevette l’oltraggio, consisteva in un documento dall’innocente titolo ‘Super Petri solio’, che ancor prima di essere pubblicato aveva provocato le ire dei suscettibili francesi, ed in particolare quelle dello sciovinista ante litteram re Filippo IV, detto ‘il Bello’.

Può un documento papale, scritto per giunta in latino, essere considerato un insulto?

Lasciamo l’interrogativo in sospeso, così come è rimasto nel dubbio l’esatto tenore dell’offesa che Matarazzi avrebbe rivolto a Zidane, e chiediamoci piuttosto: “Che cos’è un insulto, un vero insulto, degno di questo nome?”.

Non dovrebbe essere difficile saperlo, ma tra coloro che lo ignorano si distinguono anzitutto i membri della nostra classe politica.

Quante cose perdoneremmo loro –  e sa il cielo quante ce ne sarebbero da perdonare – se almeno sapessero insultare.

Ma no, la loro fantasia è  troppo  indigente, il loro linguaggio è troppo approssimativo, sciatto e ripetitivo perché riescano a mettere assieme un insulto decente, uno di quegli insulti che lasciano il segno, che mettono in evidenza in modo irrefutabile le debolezze e le caratteristiche negative (reali o attribuite) dell’avversario.

Già negli anni del secondo dopoguerra si era cominciato male: si sprecavano i ‘Fascista’, i ‘Servi del capitale’, i ‘Servi di Mosca’, il ‘Cancelliere austriaco’ (diretto a De Gasperi) per non parlare di ‘Buffone’, ‘Forchettoni’ (i democratico-cristiani), o di accenni a disgrazie matrimoniali sintetizzate in una parola che accomunava la sorte dei destinatario a quella allora in uso per gli arbitri di calcio.

L’insulto peggiore, nel senso di più scadente ed infantile, fu quello lanciato da un parlamentare che, credendosi spiritoso, utilizzò il nome dell’allora ministro Oronzo Reale per una troppo facile rima.

Meno infantile ma non eccelso fu lo scambio tra due politici anch’essi della prima repubblica, membri dello stesso governo, che si definirono rispettivamente ‘trafelato commercialista di Bari’ e ‘Lord dello Scacchiere che usa un linguaggio da comare in un ballatoio’.

Stranamente per una volta non vi furono indignate proteste ufficiali dell’ordine dei commercialisti e del sindacato nazionale delle comari.

Ma siamo sempre ad un basso livello di insulti.

Persino quel Togliatti che, per prendere in giro i socialdemocratici di Saragat,  si era atteggiato a fine umanista citando una poesia di Guido Cavalcanti, rivelava l’autentico esser suo quando trattava gli americani da ‘cretini’, o sosteneva di aver comprato un paio di robusti scarponi per prendere a calci De Gasperi, che secondo lui avrebbe perduto le elezioni del 1948.

Affermazione stupida che si rivelò anche azzardata perché il 19 aprile di quell’anno, dopo la sua bruciante sconfitta, Togliatti avrebbe fatto un affare rivendendo gli scarponi di seconda mano, o piuttosto di secondi piedi, allo stesso De Gasperi che avrebbe potuto fare a lui il servizio troppo imprudentemente minacciatogli.

Ma ancor oggi non si va, nelle migliori sedi istituzionali, al di là di antichi termini come cretino, ladro, servo di  questo e di quello, a cui si sono aggiunti recentemente capra, piduista, pirla: insulti non solo volgari ma inefficaci perché possono essere immediatamente restituiti tali e quali, talvolta senza fare offesa alla verità.

Insomma indigenza espressiva, deludente genericità, totale assenza di fantasia caratterizzano anche in questo campo i nostri padri coscritti, che sembrano incapaci di capire che se si vuole che l’insulto sia efficace esso più che colpire deve scolpire in modo indimenticabile l’avversario,  deve aderire al suo destinatario come una seconda pelle o come un vestito fatto da un sarto burlone che si diverta a mettere in evidenza i difetti del cliente.

A tale scopo non è affatto necessario, ed anzi è sconsigliato, che l‘insulto sia brutale.

Il fioretto può essere più efficace e letale della sciabola.

Addirittura esso può prendere l’apparenza di un gesto amichevole, di un benevolo e disinteressato consiglio, come quello offerto da un politico francese ad un avversario famoso per la sua bruttezza: “Se Lei avesse un minimo di stima per se stesso, querelerebbe la sua faccia per diffamazione”.

Meno altruistica, ma, se vogliamo, più apprezzabile perché l’autore sembrava quasi giustificarsi, fu la frase lanciata da Chateaubriand ad un malcapitato avversario: “Non posso ricoprirla di tutto il mio disprezzo visto il gran numero di altre persone che, come lei, hanno diritto alla loro parte”.

Diverso lo stile degli inglesi anche se non sempre essi fanno ricorso alle litoti ed alle allusioni.

Benjamin Disraeli, ad esempio non aveva sempre la mano leggera nei suoi insulti; una volta si rivolse ad un oppositore con le parole; “Lei può vantarsi di aver commesso l’intera gamma dei crimini che non richiedono coraggio”.

Ed a Robert Peel, che sorrideva ironicamente ascoltando un suo discorso, “i suoi sorrisi, disse, sono delle finiture d’argento su una bara”.

Ancora più feroce la differenza che stabilì tra una disgrazia ed una calamità.

La prima, disse, sarebbe una caduta di William Ewart Gladstone nel Tamigi, la seconda si avrebbe se  qualcuno lo salvasse.

Winston Churchill trattò in maniera meno macabra ma non memo velenosa il suo successore quando raccontò che di fronte al n.10 di Downing Street si era fermata un’auto vuota e ne era disceso Clement Attlee.

Era questi l’obiettivo favorito degli strali di Churchill che lo definì “un agnello sotto le spoglie di agnello” ed “un uomo modesto che ha molte ragioni per essere tale”.

Jean Paul Sartre, anche lui a metà strada tra letteratura e politica, non aveva  di queste delicatezze; per lui tutti i giornalisti e scrittori anticomunisti erano delle “jene dattilografe” (ancora non esistevano i computer), gli Stati Uniti erano dei cani rabbiosi e Francisco Franco agonizzante aveva “un muso di porco latino” (ma secondo Roger Peyrefitte, Francisco Franco era di origine ebraica).

Espressioni quelle di Sartre in cui si ritrova l’eco del delicato linguaggio usato da Andrei Wiscinski durante i processi intercomunisti degli anni Trenta, in cui i complimenti più delicati rivolti agli imputati erano: “cani rabbiosi trotskisti-fascisti”, e “ripugnanti vermi destinati ad essere schiacciati dal tallone del proletariato mondiale… ributtanti sciacalli rinnegati ed agenti del capitalismo…”

In teoria i letterati puri dovrebbero essere più abili e raffinati dei politici nell’esercitare l’arte dell’insulto.

Tranquillamente seduti di fronte al loro scrittoio avrebbero tutto il tempo di immaginare e distillare la frase che possa distruggere in un attimo il lavoro di anni dei confratelli.

I critici, in particolare, sono avvantaggiati perché non devono temere rappresaglie;  a meno che non  cedano alla tentazione di scrivere anch’essi un romanzo, come talvolta purtroppo fanno, perdendo così la 1oro immunità.

Che cos’è infatti se non un insulto la recensione apparsa qualche tempo fa su un giornale inglese: “Questo non è un libro che si possa metter da parte alla leggera; esso deve essere gettato con forza il più lontano possibile”.

Si ignora la reazione dell’autore del libro; per molto meno il suscettibile D’Annunzio ebbe un duello con Edoardo Scarfoglio che aveva osato parodiare l’aristocratico nome della sua Isotta Guttadauro, protagonista de ‘L’Isotteo’, trasformandolo nel più casereccio, e succulento, Risaotta al Pomidauro.

La parodia de  ‘La figlia d Jorio’, perpetrata da Edoardo Scarpetta con un suo ‘Figlio di Jorio’, portò invece a una querela il cui risultato assolutorio sancì la legittimità di quell’esercizio: la parodia può essere considerata un insulto da un autore ipersensibile ma non è punibile.

Il modo migliore per insultare un letterato consiste in realtà non nel parodiarne l’opera, ma nell’accusarlo di plagio, come fece Ugo Foscolo quando definì Vincenzo Monti “gran traduttor dei traduttor d’Omero” alludendo alla sua ignoranza del greco antico e al fatto che egli aveva perciò sfruttato l’opera altrui.

Lo stesso si sarebbe potuto dire di Salvatore Quasimodo e di chissà quanti altri ‘traduttori’.

Ma Vincenzo Monti si guardò bene dallo sfidare Foscolo a duello.

Né ci fu alcun duello qualche anno fa tra una gentile scrittrice di cui per cavalleria non ci lasceremo sfuggire il nome ed un suo collega a cui essa aveva lanciato l’insulto già citato a proposito dell’onorevole Reale.

Giuseppe Berto, destinatario dell’epiteto, rispose  con un “Signora!” non si sa se più offeso o scandalizzato.

La migliore conclusione fu tratta da un anonimo epigrammista che cosi riassunse e commentò lo scambio:

“Strnz.., disse la donna; a lei: Signora!

rispose l’uomo, che si risenti.

Entrambi l’episodio disonora:

se la donna insultò, l’uomo mentì”

“Signora” non dovrebbe essere considerato un insulto se non pronunziato con un tono ironico; ma in italiano stranamente rivolgersi a qualcuno dandogli del signore è considerato una grave offesa (recentemente è accaduto a proposito di un’alta funzionaria dello stato).

Lo aveva già notato Jorge Luìs Borges che ricordava come un critico letterario del secolo diciannovesimo per mostrare la sua scarsa considerazione per Goethe si riferiva a lui chiamandolo “il signor  Wolfango” .

La spiegazione di questo strano uso della parola signore è nota: poiché tutti gli italiani sono – o credono di essere – qualche cosa: commendatore, cavaliere, dottore  (sia pure con laurea triennale) o almeno ragioniere, essere chiamato ‘signore’ equivale a non esser nulla di ciò che valga.

Essere signore significa insomma essere un Signor Nessuno.

A proposito di Borges è giusto ricordare che in una sua nota ‘Sull’arte di ingiuriare’, egli ha portato come esempio perfetto di insulto la frase: “Sappia che la Sua signora, con il pretesto di lavorare in un lupanare, esercita il contrabbando” dove si noterà il tono obiettivo ma non privo di una sfumatura di dolente partecipazione.

Per tornare ai politici concludiamo affermando che è urgente e necessario organizzare per loro dei corsi speciali perché imparino la nobile arte dell’insulto.

La spesa in tempi di ‘spending review’ non dovrebbe essere eccessiva: basterebbe utilizzare le somme risparmiate abolendo una delle comunità montane site sul litorale.

Alberto Indelicato