Sfogliando l’Almanacco Letterario Mondadori del 1928

Trovo su una bancarella di un mercatino domenicale l’Almanacco Letterario 1928 edito da Mondadori, ancora intonso. Usando il tagliacarte, oggetto oramai desueto, mi si svela il contenuto di circa 300 pagine impreziosite da molte interessanti riproduzioni di xilografie di Publio Morbiducci e Benvenuto Disertori  nonché dalle riproduzioni di disegni di Picasso, Anselmo Bucci, Telemaco Signorini e molti altri. Il tutto arricchito dalle divertenti caricature di Guglielmo Guastaveglia, in arte Guasta, vignettista e giornalista, direttore del giornale satirico “Il Travaso delle Idee” dal 1921 fino al 1926, quando la direzione fu affidata ad uno scrittore più allineato al regime fascista. Infatti occorre ricordare il momento storico in cui esce questo almanacco, stampato alla fine del 1927, che è l’anno a cui si riferisce. Dopo l’assassinio del sacerdote Don Giovanni Minzoni nel 1923, le aggressioni ad Amendola e Piero Gobetti e soprattutto l’uccisione di Giacomo Matteotti il 10 giugno 1924, Mussolini davanti alle proteste violentissime dei giornali antifascisti, tra cui particolarmente “Il Becco Giallo”, promulga le leggi sulla stampa codificate nelle “Disposizioni sulla stampa periodica” della legge del 31 dicembre 1925 e poi le leggi “fascistissime” per l’abolizione dei sindacati e dei partiti, la creazione della polizia politica segreta (OVRA) e del Tribunale Speciale, il confino o il carcere per gli oppositori. Viene eliminata ogni possibilità di dissenso ponendo le basi per l’inizio di una dittatura intesa a convincere con la propaganda gli italiani della bontà del regime e dando inizio al processo di mitizzazione della figura del Duce. Non c’è più spazio per i giornali d’opposizione democratica: negli anni 1925-1926 vengono soppressi “Il Popolo”, quotidiano vicino al Partito Popolare di don Luigi Sturzo, “il Mondo” di Giovanni Amendola, morto nell’aprile del 1925 dopo un pestaggio fascista, “La Voce Repubblicana”, “Il Becco Giallo” e “La Rivoluzione Liberale” di Piero Gobetti.

Lo spettro della spietata censura del regime e della violenza fisica esercitata dagli squadristi su molti intellettuali dissidenti, si riflettono pesantemente anche sull’almanacco  dove manca  un qualsiasi accenno al fascismo ed ai relativi fatti tragici avvenuti solo qualche anno prima, come se la vita culturale italiana di allora non avesse alcuna relazione con la vita politica e con l’incombere di un regime che si proponeva di orientare, a partire dalla scuola, la società italiana verso dettami antidemocratici. Nel libro si leggono attente analisi della produzione letteraria, artistica, teatrale e musicale in Italia e nei paesi europei, una antologia di alcuni autori italiani, innocenti ironie su alcuni letterati, il tutto senza però alcun riferimento o correlazione all’attualità sociale del momento ed alle derive dittatoriali che gravano sulla nazione. Leggendo l’Almanacco si ha l’impressione di trovarsi in una sorta di limbo, un Olimpo culturale lontano ed avulso dalla realtà storica di quegli anni.

All’inizio leggiamo dei versi ironici sulla poetessa Ada Negri : “Vanno i libri d’Ada Negri / benchè tristi più che allegri / e a lei fruttano quattrini / bigliettiferi e argentini”  ed ancora “La Negri che Capri / soave ti canta / sull’onda si ferma / si fissa, s’incanta / in trance sprofonda”, conclusi dalla morale finale: “La ricca sull’onda”. Di altro livello è l’analisi dell’annata letteraria in Italia scritta da Fernando Palazzi che comincia stroncando il romanzo “La città terrena” scritto dal noto critico Francesco Flora che “ci ha lasciati freddi, e poco o nulla persuasi /…/Quello che più ci dispiace nel libro è la nessuna novità artistica, e la poca concludenza di un’opera che è invece macchinosa e immane, come se dovesse riformare, almeno almeno, il romanzo italiano”. Toni invece positivi riguardano il “non giovanissimo” Riccardo Bacchelli che con “Il diavolo a Pontelungo”, romanzo che l’autore rielaborerà fino all’edizione definitiva del 1957, “ha sorpreso la critica e l’ha maravigliata piacevolmente: avvezzi ai pezzi di grosso calibro e alle pesanti truppe catafratte del neoclassico, questo romanzo ci è sembrato agevole e spigliato”. Si parla poi di due volumi “pieni di nobiltà” di Tommaso Gallarati Scotti e di Orio Vergani che “ci assalta impetuosamente con addirittura tre volumi”, tutte opere oggi completamente dimenticate. Interessante è il giudizio sul libro di Sibilla Aleramo “Amo, dunque sono”, che ha fatto scandalo ma ha suscitato anche molta attenzione: “Sibilla Aleramo è scrittrice d’ingegno e di gran vigore rappresentativo, e i critici non han badato che certe crude scene han lasciato in loro una forte impressione, ammettiamo magari disgustosa, appunto per il rilievo che ha saputo dare loro l’autrice”. Vengono poi citati Annie Vivanti, Salvator Gotta, Lucio D’Ambra che hanno pubblicato “romanzi appassionanti o passionali che dir si voglia, dove cioè l’interesse del libro è affidato in gran parte all’intreccio”. Luigi Pirandello, che il giornale satirico già soppresso “Il Becco Giallo” aveva ribattezzato P.randello per la sua inziale fervente adesione al fascismo, ristampa nel 1927 un suo vecchio romanzo, “L’esclusa”, che non convince “mancando del calore di verità, e di simpatia, e anche di un qualunque significato umano”, ma pubblica anche un nuovo romanzo, “Uno, nessuno, centomila” che è “Pirandelliano all’eccesso, e quasi anche la caricatura del pirandellismo /…/ troppo involuto, niente affatto limpido, artificiosissimo, monotono, prolisso”. Siamo ben lontani dagli elogi sperticati che la stampa tributerà al commediografo agrigentino quando sarà insignito nel 1934 del premio Nobel per la letteratura. Si accenna poi a due libri non narrativi ma di meditazione lirica di Ada Negri (Le strade) e di Angiolo Silvio Novaro (Dio è qui) per i quali però “avremmo desiderato toni più bassi, un’espressione più semplice e alla mano. Il lirismo non è nello stile, ma nell’essenza di un’opera d’arte”. Poca traccia di questi e di libri di altri autori citati nell’Almanacco come Marino Moretti, G.A.Borgese e Guglielmo Ferrero è rimasta oggi.

L’analisi della produzione poetica si apre con una considerazione pessimistica: “E’ opinione corrente, e perciò assai accreditata presso il pubblico, che la poesia in Italia stia agonizzando di mal sottile. Dopo la triade Carducci, Pascoli, D’Annunzio, e dopo gli esperimenti futuristici e avanguardistici, alquanto interessanti in sede storica, pare che la poesia, in rima e senza rima, contraddica lo spirito dinamico dei tempi moderni, né più si faccia intendere dai comuni lettori. Cioè, in altre parole, oggi è tempo di prosa”. Poi però si cita il fermento che proviene dalle nuove leve che sentono l’insufficienza delle estetiche moderne ed anche se il 1927 non presenta importanti rivelazioni, qualche buon volume sarebbe apparso sugli scaffali dei librai. Ma nel lungo elenco dei poeti giovani, oltre una decina, non c’è un nome che oggi sia ancora ricordato. Né si fa menzione di “Ossi di Seppia”, il capolavoro di Eugenio Montale pubblicato nel 1925 a Torino per le edizioni Gobettiane di “Rivoluzione Liberale” e ristampato a fine 1928 dagli editori Ribet. Lasciando da parte i giovani viene commentato positivamente il testo poetico di Ardengo Soffici, “Elegia dell’Ambra”, e quello di Arturo Onofri di ispirazione religiosa, “Terrestrità del sole”. In questa rassegna si parla di Curzio Malaparte nell’insolita veste di poeta che nel libro “L’Arcitaliano”, a cura di Leo Longanesi, applica “le sue teorie letterarie e i suoi gusti reazionari a un chiassoso e saporoso tipo di cantar popolano, razzente come uno stornello o come certa poesia rusticale del sec. XVII”. Nella saggistica stupisce di trovare, insieme all’opera omnia di Boccioni, di Carlo Dossi e di Alfredo Oriani, quella di Piero Gobetti morto l’anno prima, nel 1926, a 25 anni in esilio in Francia a causa di problemi cardiaci aggravati dai pestaggi subiti dagli squadristi fascisti.

L’annata artistica, raccontata da G. Edoardo Mottini,  inizia con le celebrazioni di Rubens “il più suntuoso pittore dei trionfi carnali e delle esuberanze del senso”, la commemorazione del centenario della nascita di Arnold Boeklin “pittore duplice, conteso tra la nebulosità del simbolismo germanico e le nette affermazioni del panismo latino, fra Giorgione e la saga, fra Wagner e Botticelli” ed il ricordo di Francisco Goya “il maggiore genio di deformazione ed ironia amara che vanti la pittura”. Prosegue con i contemporanei citando Paride Steffenini, il pittore romano Cipriano Efisio Oppo “d’un ardore vermiglio alla Rubens”, Anselmo Bucci, Davide Montanari, fratello del più famoso Giuseppe che dai vent’anni in poi ha operato a Varese, ed i lombardo-veneti Aldo Carpi e Salietti. Per la scultura “perdurano il vecchio realismo muscolare ed esanime e l’arcaismo di convenzione francescano e grecizzante. Queste tirannidi stilistiche non escludono le riuscite individuali”. Tra i salvati vengono menzionati Libero Andreotti e, per i raffinamenti squisiti della tecnica e della forma, Adolfo Wildt.

L’annata musicale, commentata da Adriano Lualdi, si apre col ricordo della splendida esecuzione a fine 1926 a Busseto del Falstaff nel venticinquesimo anniversario della morte di Verdi, con la direzione di Arturo Toscanini. Il maestro dirige nella stagione 1926-1927, alla Scala, il Don Carlo ed il Fidelio di Beethoven “purissimo capolavoro di un genio” la cui esecuzione ha segnato “le ore di più alto godimento spirituale per il pubblico, ed un altro trionfo per Toscanini, interprete sommo”, mentre Pietro Mascagni dirige la sua Cavalleria Rusticana ed i Pagliacci di Leoncavallo. Si parla anche di due nuove opere, Delitto e Castigo di A.Pedrollo e Madama Challant di C.Guarino, oggi totalmente dimenticate. Una serie di rappresentazioni della Compagnia dei balletti di Diaghileff “non ha destato nessun interesse: non per le esecuzioni d’insieme e per l’individuale bravura delle danzatrici e dei mimi, sempre ammirevolissimi, ma per il programma che, se si toglie L’oiseau de feu di Strawinski e Cimarosiana su musiche di Cimarosa, aveva una barba così lunga da far invidia a quella di Mosé patriarca”. Ancora alla Scala, per il centenario della morte di Beethoven, Toscanini  ne dirige le nove sinfonie “fonte di godimento indimenticabile per chi ebbe la fortuna di assistervi”; quattro anni dopo il maestro lascerà l’Italia nel 1931 per gli Stati Uniti dopo un’aggressione fascista a Bologna per essersi rifiutato di eseguire “Giovinezza” prima di un concerto.

Un lungo articolo di Silvio D’Amico traccia il profilo dell’annata teatrale in Italia e all’estero. Parla del Congresso Internazionale del Teatro tenutosi al Palais Royal, sotto le ali della Società delle Nazioni, con delegati di tutti i paesi europei, riportando tra le altre le dichiarazione del russo Tairoff, che reputa il teatro europeo putrefatto e che le grandi opere di Shakespeare sono oggi incomprensibili all’anima del popolo russo “presso il quale le teorie comuniste sono state applicate anche all’altra vita: l’anima umana sopravvive alla morte ma non personalmente, bensì tornando nel seno dello Spirito Universale /…/ L’amore oggi non è più passione romantica per cui si debba morire e la gelosia è un’impura sopravvivenza atavica”. Cioè ad umanità nuova, espressione nuova ed arte nuova: “Questo ha fatto la Russia, e perciò ha un grande teatro moderno”. Passando al bilancio del 1927 per l’Italia, D’Amico premette che capolavori non se ne sono visti ma parla bene della novità di Pirandello “L’amica delle mogli” e dei “Vestiti che ballano” di Rosso di San Secondo. Tra gli autori nuovi viene citato Telesio Interlandi, che diventerà tristemente famoso per avere fondato nel 1938 il quindicinale “La difesa della razza”, pilastro della campagna antiebraica del fascismo, che, con Corrado Pavolini, ha scritto la nostalgica commedia ”Croce del Sud”. Nel commento finale il critico D’Amico, parla di sfacelo spirituale e di nichilismo nello spirito del teatro italiano: ”A noi pare che cotesta arte novissima rispecchi senza dubbio il tormento più o meno comune a una certa élite di tutti i paesi, ma per la folla le cose van diversamente. La folla ha sete di certezza e di fede. E non ultima fra le cause della cosiddetta malattia del Teatro d’oggi è il fatto che, in contrasto col dichiarato spirito di rinnovamento, una certezza, una fede, o almeno una parola capace di risonare nel cuore di tutti, non c’è quasi mai”. E conclude sostenendo che la desolazione e la disperazione nell’arte drammatica contemporanea, evidenzia il travaglio di una crisi profonda. Una crisi, verrebbe da aggiungere oggi, che contribuirà all’instaurazione di dittature che promettendo ordine e sicurezza, mineranno le democrazie europee nel decennio seguente.

L’analisi dell’annata letteraria in Gran Bretagna è affidata all’anglista e scrittore Mario Praz che considera uno degli avvenimenti più notevoli la pubblicazione del diario di Katherine Mansfield, morta di tisi a 35 anni a Fontainebleau nel 1923,  già nota in Italia grazie alle traduzioni dei suoi libri di novelle che erano state paragonate come ispirazione e livello letterario a quelle di Anton Cecov. Praz sostiene che “la letteratura inglese possiede solo un altro libro che possa stare alla pari di questo diario per la somma di umano dolore espresso: le lettere di Keats. Ma questa donna aveva forse un’anima più indomita: sa di avere i giorni contati, pure vince il dolore, la nausea, lo sconforto, e vive solo per l’espressione della sua arte/.…/. All is well (tutto è bene) sono le ultime parole del diario”. Grande è il successo del libro “Revolt in the Desert” , l’epica narrazione della campagna d’Arabia, durante la guerra europea, scritto da T. E. Lawrence che fu l’anima di quella campagna. Classificare Lawrence, dice Praz, è difficile: “è un condottiero, o un artista, o un bluffista di genio? In verità c’è in lui un po’ di tutto, e, in fondo, non si andrebbe errati vedendo in lui un tipico esempio di dilettante di prim’ordine”. Altra novità è il libro di Virginia Woolf “To the Lighthouse”, che sarà tradotto in italiano nel 1934 col titolo “Gita al faro”, dove la scrittrice descrive minutamente i pensieri di gente comune. “Caratteri presentati attraverso una minuta registrazione delle infinitesime vibrazioni psichiche che non sono una novità dopo l’Ulysses di Joyce”, però, prosegue Praz “il Joyce, quello che voleva dire non poteva dirlo in altro modo; ma la Woolf avrebbe facilmente potuto, probabilmente con vantaggio, dacchè quel suo continuo riportare in forma indiretta i pensieri dei suoi personaggi riesce a una monotonia che altre qualità del libro, specialmente il profondo senso dello scorrere del tempo, a stento compensano”. Per la poesia vengono citate varie opere tra cui “The Land” di Victoria Sackville-West, per purezza di linea e gravità, e, gemma comparsa nei fascicoletti degli Ariel Poems, “The Journey of the Magi” di T.S.Eliot.

Parla poi di G.B.Shaw di cui “gli italiani avranno visto su tutti i giornali il suo più intelligente contributo per quest’anno: le lettere sul fascismo”. L’articolo apparve sul Daily News del 24 gennaio 1927 ed era un inno al regime ed un osanna incredibile a Mussolini. Gli risponderà duramente Gaetano Salvemini, già rifugiato in Francia, sul Manchester Guardian del 19 ottobre 1927 dove tra l’altro scrive che Shaw “dopo avere colpito con la sua satira spietata tutte le istituzioni sociali, politiche e religiose e tutti i canoni morali ed intellettuali del nostro tempo, finalmente ha trovato nel fascismo il suo ideale di vita civile. Mussolini è l’uomo al quale il suo spirito ribelle si arrende”.

Praz conclude la rassegna citando il grande successo editoriale in Inghilterra, oltre 12 ristampe dal novembre del 1926, del libro del tedesco L.Feuchtwanger “Jew Süss” (Süss l’ebreo). Ispirandosi liberamente a questo testo, ma capovolgendone diametralmente il significato ed il messaggio, nel 1940 Goebbels si impegnerà per la realizzazione di una pellicola col medesimo titolo che divenne il più visto ed acclamato  film antisemita della propaganda nazista.

L’annata letteraria in Germania è magistralmente presentata dalla scrittrice e traduttrice Lavinia Mazzucchetti. Si apre con un accorato ricordo della morte, avvenuta il 29 dicembre del 1926, del grande poeta Rainer Maria Rilke “il più puro e profondo lirico in lingua tedesca, uno degli spiriti più nobili e rari dell’aristocrazia intellettuale d’Europa. Tanto era schivo da ogni mondano rumore, tanto era alieno da ogni vanità /…./ che sembra profanazione parlare di lui mentre si celebra la fiera di vanità dei viventi”. Ne ricorda gli indimenticabili “Sonetti ad Orfeo” e le “Elegie di Duino”. Dopo avere citati vari scrittori i cui nomi oggi non dicono molto, si sofferma sul libro del cinquantenne Hermann Hesse “Steppenwolf” (Il Lupo delle Steppe) che definisce una grandiosa confessione fantastico-psicologica chiaramente autobiografica, “libro complesso e meno perspicace degli altri di questo autore: estremo sforzo di verità di un figlio dei tempi che vive in ostile esasperazione contro i tempi”. Tra gli altri autori più noti, parla con modesto entusiasmo del libro di Heinrich Mann “Madre Maria” e della “Morte di un piccolo borghese” di Franz Werfel. Per la poesia la Mazzucchetti dice che “si scrivono persino, come Alfred Döblin nel suo “Manas”, dei poemi cosmici che sanno già di non avere molti lettori, ma di segnare tuttavia per una piccola comunità di fedeli l’unico grande evento letterario adeguato al presente in un mondo di cadaveri ambulanti che ancora si trastullano con l’analisi e la psicanalisi di piccoli cuori umani”.

Ettore Lo Gatto racconta le novità della letteratura russa nel 1927: tra i nomi citati emerge quello di Massimo Gorkij col suo libro “Gli Artamonov” che “potrebbe essere qualificato come romanzo storico in un senso largo della parola, come cronaca della vita di varie generazioni”. Gli scrittori russi, scrive Lo Gatto, tendono sempre a romanticizzare la realtà “ma è proprio questo elemento cha pare non soddisfi la critica ufficiale, in quanto la letteratura si allontana così dai canoni del perfetto marxismo. In questa discussione si può dire compendiata la crisi teorica del romanzo russo nell’Unione soviettista”.

Le novità francesi sono presentate da Enrico Piceni. Dopo avere riportato alcune brevi considerazioni di Anatole France sulla disperata smania degli scrittori francesi di arrivare ad un seggio all’Accademia, che pure l’aveva negato a Gautier, a Flaubert ed a Balzac, Piceni spiega che il clou dell’annata è stato, per il 1927, il centenario del romanticismo “giacché, a torto o a ragione, la prefazione al “Cromwell” di Victor Hugo, che ha visto la luce appunto nel 1827, è considerata l’atto di nascita delle “littérature épileptique””. Tralasciando le celebrazioni ed i relativi scritti, si parla della recente produzione di Jean Giradoux che con “Eglantine” ha ritrovato “un pretesto per scrivere pagine di una qualità delicatissima, e per disegnare a giochi di ombre e di luci quanto mai abili una delle sue predilette figure di giovinetta” e di François Mauriac con “Thérèse Desqueiroux” che “ci ha dato un acuto e patetico esame di una psicologia d’avvelenatrice”. Tra gli scrittori di grande successo popolare primeggia Maurice Dekobra con “Flammes de velours”. Nei libri storici eccelle André Maurois con “La vie de Disraeli”, un libro molto bello che rilancia la moda delle biografie romanzate, dove si coniuga lo humour inglese con l’ésprit francese.

Per la poesia si parla di Jean Cocteau con “Opera” dove “raccoglie i suoi più recenti funambolismi lirici, piccole cose ingegnose ma nulla più” e la raccolta completa delle opere di Pierre Louys. “Il novissimo accademico, e poeta-filosofo di moda Paul Valery non ha pubblicato nulla di notevole”, mentre la tradizione francese dei Mémoires e dei Souvenirs si arricchisce dei tre volumetti di “Si le grain ne meurt” di André Gide dove “la spietata sincerità verso gli altri e soprattutto verso se stesso, dell’autore dell’”Immoraliste”, ha fatto ancora una volta scandalo, ma al di sopra e al di fuori di ogni valutazione morale, in terreno puramente letterario, bisogna riconoscere che vi sono alcune tra le più belle pagine non solo di Gide, ma di tutta la letteratura francese contemporanea”. Tra le tante altre opere citate c’è “De Montmartre au quartier latin” di Francis Carco che rievoca anche la geniale e patetica figura di Amedeo Modigliani, e le memorie della ballerina e cantante di varietà Josephine Baker.

I libri italiani tradotti e pubblicati  vedono autori come Ada Negri, Luigi Pirandello, Guido da Verona, Italo Svevo con “La coscienza di Zeno” e “il trionfale “Dux” di Margherita Sarfatti sotto il titolo di “Mussolini, l’homme et le chef””.   

Godibili sono infine gli inserti pubblicitari, separati dal testo e raccolti in quinterni di poche pagine di carta sottile giallina inframmezzati nel libro, che forse meglio di ogni scritto ci danno l’idea di quanto e come sia evoluta in poco meno di un secolo la civiltà industriale ed il relativo advertisement commerciale. Vediamo una splendida Isotta Fraschini in competizione con un cavallo che corre a perdifiato, la macchina da scrivere Olivetti Rapidissima che sfreccia su un binario parallelo a quello dove corre un treno con la sua maestosa locomotiva, il grammofono portatile della Voce del Padrone che garantisce “riproduzione perfetta e fruscio nullo” con costi compresi tra 750 e 10.000 lire e dischi da 11 a 60 lire, e poi il Laboratorio Liquori Berengo Gardin che, oltre allo zabaione Giovinezza “vero ricostituente inalterabile”, presenta il “Liquore antiblasfemo” approvato dalla Associazione Nazionale Antiblasfema!

Viene presentata l’edizione nazionale di tutte le opere di Gabriele D’Annunzio in due edizioni di lusso, una  di soli 209 esemplari al prezzo di 18.000 lire per tutti i 40 volumi ed un’altra di 2501 a 6.000 lire. Interessanti sono le molte pubblicità librarie o di giornali come La Fiera Letteraria dove “vi scrivono i migliori autori contemporanei di tutte le tendenze”, o la réclame della casa editrice “La Voce” diretta da Curzio Malaparte “il più vivace scrittore fascista”. C’è la pubblicità della rivista letteraria mensile “Il Baretti” fondata nel 1924 da Piero Gobetti, a cui collaborarono tra gli altri Benedetto Croce, Eugenio Montale, Augusto Monti, Luigi Einaudi e Giuseppe Prezzolini. Le scelte culturali del periodico erano di carattere politico e quindi da subito fortemente condizionate dall’assillo della censura, come già Gobetti nel 1924 sulla sua rivista “La Rivoluzione Liberale” aveva previsto: “In regime di stampa imbavagliata il vero articolista è il lettore: egli deve leggere tra le righe”. Stupisce quindi che questa rivista antifascista che sarà soppressa dal regime alla fine del 1928, venga presentata come “La rivista più indipendente, più spregiudicata, più intelligentemente europea d’Italia. Continua nel mondo delle lettere la tradizione di serietà e di cultura del suo fondatore /…./ Usa la sferza della critica senza pietà e senza pregiudizi”, parole che appaiono un tardivo e sorprendente riconoscimento dell’opera di Piero Gobetti ad un anno dalla sua scomparsa.

 Alla fine dell’almanacco si legge una intervista al senatore Borletti, l’imprenditore e poi politico fondatore nel 1917 de La Rinascente, che spiega il suo interesse per l’editoria in quanto “In Italia non si legge, ciò che vuol dire che il pubblico, in generale, rinunzia, spontaneamente o incoscientemente, al nutrimento spirituale che gli darebbe la lettura: il che avviene perché, finora, nessuno glie ne ha creato il bisogno. Ecco il problema: creare il bisogno della lettura./…./ Attenuato, fin che sarà vinto, l’analfabetismo, distrutta la miseria, l’elevazione culturale del nostro popolo, così segnatamente progredita in questi ultimi decenni, provocherà il bisogno della lettura, cioè del libro, cioè del prodotto industriale dell’editoria”. Questo diceva nel 1927 un industriale di successo, ma ad oggi le sue speranze non sembrano ancora realizzate.

Francesco Cappellani