Concetto Marchesi, il grande umanista, il partigiano, il discusso politico

Per chi, come il sottoscritto, ha iniziato gli studi liceali negli anni cinquanta del secolo scorso, il nome di Marchesi è rimasto indelebilmente impresso nella memoria grazie al suo “Disegno Storico della Letteratura Latina” che fece amare a tutti noi, anche a quelli che odiavano il latino, i principali autori della civiltà romana, sia scrittori che poeti, storici e filosofi. Ma il nome di Marchesi non è legato solo ai molti studi sulla letteratura latina, dove raggiunse risultati di assoluto valore, ma anche alla sua attività di antifascista, di partigiano e, nel dopoguerra, di padre costituente ed inflessibile, anche se discusso, uomo politico.

La carriera scolastica. Concetto nasce il 1 febbraio 1878 a Catania da Gaetano Marchesi (1853-1941) e da Concettina Strano,  secondogenito dopo il fratello Salvatore (1876-1965). Marchesi discendeva da nobili origini, ma in vita non ne parlò mai, anche se il suo stile signorile ed elegante lo faceva supporre. Il suo allievo e poi collega ed amico fraterno per tutta la vita, nella ricchissimabiografia che ha scritto sul suo professore (1), racconta che, trovandosi a Roma nella casa di Concetto dopo la sua morte col fratello Salvatore, notò un grande quadro ad olio che rappresentava un nobile uomo dell’ottocento. Chiese chi fosse e Salvatore rispose che era il bisnonno, il marchese Benedetto Gioeni, duca di Angiò, ed aggiunse che Concetto, quando si levava i calzini sporchi, glieli lanciava indecorosamente addosso. Il marchese Benedetto divenne frate nell’ordine Gerosolimitano del S.Sepolcro, ma in seguito conobbe una donna, sembra una contessa, da cui ebbe un bambino, Concetto, affidato poi ad un suo fattore di nome Marchese. Concetto si sposò ed ebbe due figli, Maria e Gaetano, il padre dei fratelli Salvatore e Concetto.Gaetano avrebbe distrutto ogni documento notarile della famiglia Gioeni, oltre a dilapidare il pingue patrimonio portatogli in dotedalla moglie, per spegnersi a 89 anni a Firenze mantenuto dal figlio Concetto.

Marchesi frequenta il liceo classico “Nicola Spedalieri” di Catania dove a 16 anni, nel 1894, pubblica un giornaletto, da lui fondato e diretto, dal nome “Lucifero”, con chiaro riferimento all’analogotitolo del poema anticlericale dello scrittore catanese Mario Rapisardi. Il giornale ebbe vita breve fra sequestri e denunzie per il tono diffamatorio antigovernativo. Concetto è condannato ad un mese di carcere, ma non arrestato per la giovane età. Un rapporto della prefettura al Ministero degli Interni parla di un giornale anarchico diretto da “un giovanotto di 18 anni circa, certo Marchese Concetto, che ebbe già a riportare una condanna a 37 giorni di reclusione per eccitamento all’odio di classe….” (1). Si iscrive nell’ottobre del 1896 alla Facoltà di Lettere dell’Università di Catania e frequenta le lezioni del grande filologo Remigio Sabbadini che sarà il suo adorato maestro per tutta la vita, e ne sposerà la figlia Ada nel 1910. Viene arrestato nella sede dell’Università per scontare la pena comminatagli precedentemente. Scrive un volumetto di 21 poesie, “Battaglie”, che in seguito sconfesserà, precedute da un violento esergo:“Queste pagine scritte con la rabbia di chi ha una vendetta da compiere e con la fede di chi ha un ideale da raggiungere, composte fra una bestemmia e una preghiera, io le dedico a te, o santa generosa sublime canaglia dei campi e delle officine”, dove è già un chiaro riferimento alla classe operaia. Nel 1895 si era iscritto al partito socialista; dopo i fatti di Catania, su consiglio di Sabbadini, si trasferisce a Firenze “con molto amaro in gola e pochi quattrini” per frequentare l’Istituto di Studi Superiori dove si laurea a 21 anni, il 10 luglio 1899, con una tesi su Bartolomeo della Fonte che verrà stampata nel 1900 dall’editore Giannotta di Catania, che aveva già pubblicato altri due suoi lavori nel 1898. Insegna nei ginnasi di Nicosia e di Siracusa, poi a Caltanissetta e quindi nei licei di Verona e di Messina; nel 1906, su sua richiesta, viene trasferito a Pisa dove resta fino all’ottobre del 1915 quando vince il concorso di letteratura latina per l’Università di Messinainiziando così la carriera universitaria. Negli anni di insegnamento liceale scrive molti importanti lavori tra cui il compendio volgare dell’Etica Nicomachea. Nell’estate del 1907 lo troviamo in Svizzera dove scrive al suo amore, l’allora sedicenne Ada Sabbadini, raccontandole che “Con me stesso sono imbronciato e non parlo più. Dunque, non è orribile vita questa? E le donne di Ginevra? domanda Lei, forse. Graziose, cortesi, musicali: ma gambe lunghe, piedi grossi, facce irregolari. E poi quasi sempre levando in aria le faccette sostenute vi cantano sul muso “merci monsiù””. Nello stesso anno si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Urbino dove dà una decina di esami, ma riprenderà questi studi oltre 12 anni dopo per laurearsi in legge a Messina. A Pisa inizia la sua attività politica e nel 1908 viene eletto consigliere comunale nelle file del partito dei democratici radicali. Nel 1909 sembra che Ada, la fidanzata, abbia un momento di incertezza sul rapporto con Concetto, e di questo se ne duole assai la mamma del latinista che le scrive una lettera accorata il 24 novembre 1998: “Ada mia carissima, dal turbamento grandissimo e dalle poche notizie palesatemi da mio figlio ho conosciuto la brutta verità: e ne sono afflittissima. Mi ero oramai abituata a considerarla come una mia figliuola e la felicità sua mi pareva di dover aggiungere a quella del mio figlio….”(1). Ma la situazione si ricompone e si sposeranno a Pisa nel 1910 ed avranno una figlia, Lidia. Ada Sabbadini  “donna fine, dotata di un temperamento artistico eccezionale, gli sarà compagna tutta la vita: amandolo e soprattutto comprendendolo nella sua ansia, nella sua irrequietezza, nel suo bisogno di solitudine e di silenzio: nel suo stesso impegno politico” (1). Nel gennaio del 1914 muore a Pisa, a 57 anni, la madre e Concetto, che le è affezionatissimo, soffre di un dolore immenso. Lui e il fratello Salvatore l’assistono negli otto penosi giorni dell’agonia. Racconta Franceschini che Concetto “quando la bara stava per essere calata nella fossa volle di forza che fosse riaperta: per rivedere ancora la madre e metterle sul petto un suo ritratto perché «lei continuasse a vederlo anche sotto terra »”.

Il 16 ottobre 1915, vinto il concorso per la cattedra di letteratura latina all’Università di Messina, inizia a 37 anni l’insegnamentoaccademico, dopo essere stato esentato come professore ordinariodal servizio militare (siamo all’inizio della prima guerra mondiale), e posto in licenza illimitata. Partecipa al XVII Congresso del Partito Socialista Italiano a Livorno dove avverrà la scissione che porta alla nascita, il 21 gennaio 1921, del Partito Comunista d’Italia che lo vede tra i primi iscritti. Si laurea in giurisprudenza a Messina nel 1923, a 45 anni, con una tesi sul pensiero politico e giuridico di Cornelio Tacito. Inizia a scrivere articoli di carattere politico su giornali come “Rassegna Comunista” nel 1922, oltre naturalmente alla sua costante produzione sulla letteratura latina. Per Formiggini, l’editore modenese suicida nel 1938 per protesta contro le leggi razziali fasciste, pubblica gli Epigrammi di Marziale nel 1914 ed opere di Petronio e Giovenale nel 1921 per la collana “Profili”. Il 1⁰novembre 1923 è nominato all’ateneo di Padova alla cattedra di Latino Medioevale, dove resterà per trent’anni fino alla fine della sua attività didattica. Marchesi si innamorerà perdutamente di questa città e della sua Università, il suo pensiero anche nell’intensa vita politica del dopoguerra, sarà sempre rivolto con affetto e nostalgia alla città veneta che diventa per lui una seconda città natale, un approdo sicuro.

Nel 1924 scrive un importante testo su Seneca, suo autore prediletto, ed uno su Tacito, ma è nel periodo 1925–1927 che pubblica per l’editore Principato di Messina l’opera che gli darà maggiore e durevole notorietà e sicura fama: la “Storia della letteratura latina” in due volumi che avrà fino al 1950 otto edizioni costantemente rivedute e corrette. La Storia arriva fino al VI secolo dopo Cristo quando, nelle parole di Marchesi “il latino ha finito di essere organo vivente di letteratura”, ed il medioevo è alle porte. Ogni autore è studiato ed interpretato in modo attento ed originale, mai pedante, e descritto con una prosa ricca ed affascinante che spesso si alza quasi a livello di poesia. Conclude la sua fatica con un netto elogio della letteratura latina: “Quando sorge la grande letteratura romana, da Plinio a Tertulliano e ad Agostino, la Grecia non dà quasi più nulla che possa superare le opere e le personalità del genio latino. Roma ha innestato le sue facoltà creative sul tronco dei generi letterari greci e ha prodotto una letteratura che doveva sopravvivere nei secoli alla caduca potenza del suo impero”. L’opera fu accolta da un largo consenso;il grande latinista Manara Valgimigli ne scriverà in termini entusiasti nel 1927: “….è un’opera di pensiero e di arte, severissima nella documentazione, rigorosissima nella valutazione e discriminazione delle fonti, ma nella sua forma, che è sostanza intima, nel suo stile che è visione, intelligenza e dominio, impressione ed espressione immediata di cose e fatti, ha una personalità propria profondamente incisa, nettamente distinta”(2) e così molti anni dopo l’altro eccellente studioso Ettore Paratore che la ricorderà come “Monumento insigne per straordinaria ricchezza di acume psicologico e di umana esperienza, cioè dei mezzi più acconci per misurare quel che c’è di nuovo e di eterno nelle pagine degli autori scriventi nella lingua di Roma” sulla Fiera Letteraria del 10 marzo 1957. Dalla  opera in due volumi Marchesi nel 1931 ricava un agile libro che per decenni sarà il testo di letteratura latina per i licei.

Il fascismo e la seconda guerra mondiale. Marchesi non si iscriverà mai al Partito Fascista e nel ventennio mussolinianocondurrà una vita defilata da impegni e manifestazioni pubbliche. Il 15 gennaio 1927 deve però giurare nelle mani del rettore “fedeltà al Re ed ai suoi reali successori” e, nel 1931, fedeltà al regime fascista, giuramento imposto da Giovanni Gentile a tutti i professori di ruolo, pena la perdita del posto. Non giurarono solo 12 professori su 1213. Franceschini ricorda che Marchesi era contrario al giuramento di fedeltà ma sembra che il consenso fu invece ordinato da Togliatti, come si seppe dopo, e come testimoniato da Giorgio Amendola, per “mantenere un contatto con la gioventù e svolgere una certa funzione educatrice”(3).Ricordiamo che giurarono anche Luigi Einaudi ed il filosofo Guido Calogero seguendo il consiglio di Croce di mantenere la cattedra per continuare l’insegnamento secondo l’idea di libertà.Alla morte di Marchesi alcuni membri del PCI come il filosofo Ludovico Geymonat condannarono quel gesto di asservimento che fu invece difeso da Cesare Musatti in un articolo sull’Avanti del 17 febbraio 1957. Altri criticarono la sua accettazione di far parte della Reale Accademia d’Italia, creata da Gentile nel 1929. Marchesi era membro dell’Accademia dei Lincei, già commissariata nel 1933 con l’obbligo per i soci di giurare fedeltà al regime (Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando e pochi altri si rifiutarono), che sarà accorpata, nel 1939, con l’Accademia d’Italia ed i soci dei Lincei, tra i quali appunto Marchesi, furono inseriti automaticamente come “aggregati” nel nuovo organico.

Nel 1933 Marchesi passa le vacanze agostane nelle dolomiti e scrive a Franceschini “io ripartirò presto, domani o domani l’altro: perché la schiera dei villeggianti esaspera sempre di più i miei nervi disgraziati” e, avendo fatto una camminata il giorno prima di circa dieci ore, aggiunge: ” ma ogni giorno giuro che non camminerò più per il resto della mia vita”. Le sue annotazioni, come spesso il contenuto delle lettere, ci aiutano a capire l’uomo Marchesi al di là del professore Marchesi; ad esempio, nel dicembre del 1933 scrive: “Mi hanno detto oggi che cosa è la mia vanità. So, oggi, che cosa è la mia vanità. È la vanità di un uomo che ha smarrito il senso del proprio valore nel mondo e cerca di trovarlo nell’approvazione degli altri”.

Sono molto interessanti queste sue considerazioni sul rapporto coi figli: “I figli vostri non sono i vostri figli: sono i figli del desiderio immenso che ha di se stessa la vita. Essi nascono per mezzo vostro, ma non da voi, e sebbene vi nascano accanto, pure non vi appartengono. Potete dare ad essi il vostro amore, ma non già i vostri pensieri, perché ne posseggono di propri. Darete asilo ai loro corpi, ma non alle loro anime, perché queste dimorano nel domani, dove voi non potrete penetrare neppure in sogno …” (1).

Nel 1934 muore il suocero Remigio Sabbadini, il grande studioso umanista che Concetto considererà sempre come il suo unico insuperato maestro. Pubblica in quest’anno un profondo studio su Arnobio, un apologista cristiano del IV secolo. Nell’aprile del 1935 si ritira per una settimana nell’eremo del Rua dei monaci camaldolesi vivendo, come i frati, in una piccola cella da dove scrive felice a Franceschini “…anche quando non sarò più qui, mi resterà il ricordo della pace beatamente vissuta quassù. È stata davvero, fra le mie decisioni, la più provvida”. Ne scrive un articolo, “Rua”, che Ugo Ojetti pubblicherà sulla sua rivista Pan. Tornerà ancora all’eremo nel maggio del 1939. La moglie Ada asseconda il suo Nino in queste “fughe” anche con garbata ironia: ”Mi pare un sogno bello la tua crescente serenità e soddisfazione per il soggiorno di Rua. Se tu avrai veramente trovato un luogo dove rifugiarti con la sicurezza del riposo, lo considererò un dono della Provvidenza. Dio ti assista, anima inquieta e innocente di frate Nino!” e poi “Spero potrai tornarci ancora, certo senza l’emozione dei primi giorni, ma con uguale e beato abbandono. L’importante è di non rovinare la cosa con le tue stesse mani, le più adatte sempre a rovinare le nostre cose /…/ lo solo mi raccomando, prete Ninuzzo, di non fare inquietare con qualche sconsideratezza il tuo angelo custode”(1). Franceschini riporta anche uno scritto a matita di Ada dedicato al marito, il suo Nino o Antonino, da lui trovato tra le carte, assai divertente: “Philologuepar erreur / penseur qui adorait ne penser à rien / triste et fastidieux / homme de coeur et de haine / précieux echantillon de l’âme humaine / qui réunissait en lui / Hamlet, Don Quichotte et Sancho Panza / tout en étant seulement et toujours / Antonino Quertaroni”. Il cognome Quertaroni si ricollega probabilmente al nome della via di Catania dov’era la casa natale di Concetto, viaQuartarone.

Nel 1939 muore il padre Gaetano, e Concetto scrive a Franceschini “….dovetti subito correre a Firenze per l’aggravamento di mio padre, che è spirato il giorno I5. Aveva ottantanove anni. Ma in quel mattino, al cimitero di Trespiano, io seppellivo il mio più remoto passato. Ed era tristissima cosa”. In questi anni prosegue i suoi studi ed i lavori sugli autori latini; di un suo articolo, “Filologia e varietà” scritto nel 1940 e riedito nel “Libro di Tersite” così ne scrive Attilio Momigliano che bene centra alcune caratteristiche della scrittura di Marchesi: “ Ci ho trovato la tua alta canzonatura, quel modo così serio di irridere le cose che sono o paiono serie, quella tua volubilità fantastica di umorista: quel tuo lirismo fugace, talora anzi non del tutto fugace: quella mezza pagina sulla “spettacolosa esibizione” “populo flagitante” è poesia vera”(1).

Nel 1942 polemizza fermamente con Giovanni Mosca, direttore del settimanale “Settegiorni”, per avere modificato una frase di un suo articolo in senso antiebraico. Mosca si scusa dicendo che una piccola modifica “basta ad evitare ogni danno alla sua reputazione senza dover ricorrere alla pubblica rettifica che date le attuali direttive ed esigenze giornalistiche sarebbe non tanto nociva a me e al giornale, quanto a lei”, ma Marchesi replicaseccamente: “Aspetto la pubblicazione della rettifica e la invito a non preoccuparsi del nocumento che possa venire a me. Non conosco altri danni temibili che quelli inflitti alla rettitudine della propria condotta” (1). Nel maggio del 1943 la situazione del conflitto mondiale convince Marchesi ad uscire dal suo isolamento letterario ed entrare in campo fattivamente passando da comunista teorico a combattente. Si adopera per contattare e coordinare le forze antifasciste, informa casa Savoia della disponibilità del PCI ad intervenire se il Re decidesse di rovesciare il regime fascista, a Milano partecipa alle riunioni del Comitato per il fronte nazionale d’azione dove incontra, tra gli altri, Gronchi e Lelio Basso. Il giudizio che ne da in queste occasioni Giorgio Amendola è indicativo del carattere di Marchesi: “Concetto Marchesi godeva di molta autorità intellettuale e morale, ma egli … aveva poi dei bruschi irrigidimenti classisti nei quali si manifestava la sua antica formazione socialista …”(3).

La resistenza. La caduta del fascismo Il 25 luglio del 1943 coglie Marchesi all’Elba, nel suo “asilo prediletto” di Cavo dove il suocero possedeva una casetta. Rientra in barca a Piombino e si reca a Roma come rappresentante del PCI con Amendola ed altri. Il 1⁰ settembre il ministro dell’Educazione Nazionale Leonardo Severi, sotto l’egida del governo Badoglio, lo nomina rettore dell’Università di Padova. Con l’avvento della Repubblica SocialeItaliana (RSI) di Salò, da le dimissioni dall’incarico il 15 settembre che vengono però rifiutate dal ministro della RSI Carlo Alberto Biggini, persona onesta e corretta e suo amico. Marchesi le ritira, ma questo gesto non piace al PCI che lo colpisce con misure disciplinari sospendendolo da ogni attività del partito edescludendolo dalla lista dei ministri qualora il PCI fosse andato al governo. Con Egidio Meneghetti, titolare della cattedra di farmacologia e fervente antifascista, e Silvio Trentin, reduce dall’esilio in Francia e padre del sindacalista Bruno, fonda il Comitato regionale veneto di liberazione nazionale. Il 9 novembre inaugura ufficialmente il 722⁰ anno accademico dell’Università con un vibrante discorso ai professori ed agli studenti dedicato ai lavoratori, agli artisti ed agli scienziati affermando che “qui dentro si raduna ciò che distruggere non si può”, senza mai menzionare la RSI malgrado la presenza in aula del ministro Biggini ed un gruppo di facinorosi fascisti che Marchesi, “un piccolo uomo col mantello di ermellino” come racconterà un giovanissimo Bruno Trentin presente alla cerimonia, spingerà giù dal palco dove erano saliti, tra lo stupore degli studenti e degli stessi fascisti. Rassegna le dimissioni irrevocabili il 28 novembre spiegando in una lettera al rettore che “ … è responsabilità tutta mia se non intendo apparire collaboratore di un governo da cui mi distacca una capitale e insanabile discordia”. Molto più netto e deciso sarà in pari data il proclama che rivolge agli studenti patavini: “Studenti dell’Università di Padova! Sono rimasto a capo della Vostra Università finché  speravo di mantenerla immune dall’offesa fascista e dalla minaccia germanica, sino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la  mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzi o al segreto. Tale proposito mi ha fatto resistere, contro il malessere che sempre più mi invadeva, nel restare a un posto che ai lontani e agli estranei poteva apparire di pacifica convivenza mentre era posto di ininterrotto combattimento. Oggi il dovere mi chiama altrove /…/. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria; vi ha gettato tra un cumulo di rovine; voi dovete tra quelle rovine portare la luce di  una fede,l’impeto dell’azione, e ricomporre la giovinezza e la Patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi, insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano/…/. Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi, maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta insieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla servitù e dalla ignominia…”. Una esortazione alla rivolta che sarà ripetuta da radio Londra e diffusa in migliaia di copie. Norberto Bobbio considerò questo appello “uno dei documenti più famosi della resistenza”. In realtà Marchesi, iscritto al PCI dal 1921, nel ventennio fascista era rimasto tranquillo a coltivare i suoi studi senza incorrere in problemi di controlli, restrizioni, confino da parte dei fascisti. Scelta questa ampiamente criticata in seguito, ma Marchesi pensava di potere agire più efficacemente sulla platea dei giovani col suo insegnamento ed il prestigio e la fascinazione che gli derivava dalla sua fama di grande latinista e formidabile oratore.

Il 29 novembre, temendo l’arresto in quanto ricercato a Padova dai nazifascisti dopo le dimissioni  dall’Università ed il proclama agli studenti, si rifugia a Milano sotto falso nome e rifiuta la richiesta da parte di Mauro Scoccimarro del PCI di recarsi a Roma, essendogli stato perdonato l’episodio patavino. Qui scrive,in risposta  ad un articolo del filosofo fascista e poi repubblichino Giovanni Gentile apparso sul Corriere della Sera del 28 dicembre 1943 che esortava gli italiani ad una grande riconciliazione nazionale dando “l’esempio di saper gettare nel fuoco ogni spirito di vendetta e di fazione … », ed usare il potere «con spirito pacificatore e costruttivo”, una lettera dura ed intransigente, dal titolo “Per la concordia degli italiani” che si conclude con la frase “La spada non va riposta, va spezzata: domani se ne fabbricherà un’altra? Non sappiamo,  tra oggi e domani c’è di mezzo una notte ed una aurora”. Da notare che le più immediate e dure critiche all’articolo di Gentile vennero dagli stessi repubblichini, Roberto Farinacci sulla rivista “Regime fascista” affermò che i partigiani sono nemici da uccidere e mai perdonare. 

Secondo la ricostruzione di Emilio Pianezzola (4), la  risposta di Marchesi viene pubblicata sul quotidiano socialista di Lugano “Libera Stampa” il 24 febbraio 1944 e su “Fratelli d’Italia”, giornale clandestino del CLN veneto, il 15 marzo senza la firma dell’autore. Il 15 febbraio 1944 è stampata sull’organo ufficiale del PCI “La Nostra Lotta” nell’edizione di Roma e Firenze e nel marzo 1944 in quella della Lombardia, senza la firma e con un nuovo titolo, “Rinascita fascista: i tribunali degli assassini” ed il finale cambiato: ” La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, l’ultimo traditore fascista non sia sterminato.  Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: Morte!”.  La paternità di questo violentofinale rimase a lungo controversa e, a seguito dell’assassinio di Gentile il 5 aprile del 1944 da parte dei partigiani toscani del GAP (Gruppi di Azione Patriottica), molti intellettuali lo considerarono opera di Marchesi e lo giudicarono responsabile morale della morte del filosofo. Paolo Spriano ha scritto nella sua monumentale Storia del Partito Comunista Italiano (5) che la modifica al testo di Marchesi fu di Girolamo Li Causi, anche perché lo scritto di Marchesi era contro il fascismo e l’invasione nazista e non ad personam contro Gentile, e quindi sarebbe solo Li Causil’istigatore della sentenza capitale. Tuttavia anche Luciano Canfora, nella sua dettagliatissima e scrupolosa indagine sul delitto Gentile (6), afferma che è  probabile che la modifica del finale sia stata concordata tra Marchesi e Li Causi. Canfora ipotizza anche che, date alcune correlazioni ed amicizie di Marchesi con l’ambiente massonico, anche il finale originale, quello non manipolato, potesse nascondere, in forma criptica, una sentenza capitale emessa mediante la simbologia massonica, dove “spezzare la spada” allude alla pena di morte.

La vicenda turbò molto Marchesi perché in qualche misura gli restò addosso un marchio di corresponsabilità per la fine del senatore fascista di cui era stato amico fin dai tempi della gioventùanche se in seguito le loro strade divergeranno irrevocabilmente.Oltre allo scritto di Spriano, sembra  però chiarire definitivamente ogni dubbio la testimonianza di Franceschini che scrive: “Subito dopo la liberazione il Marchesi mi mostrò il numero di Rinascita del luglio 1944 dove Sentenza di morte era stato ripubblicato col suo nome. E mi disse amaramente, che né il titolo né il finale erano suoi: ma neppure lui sapeva, allora, chi ne fosse l’autore” (1). Era stato Togliatti a ripubblicare su Rinascita lo scritto già apparso su “La Nostra Lotta” e quindi modificato nel finale, col titolo mutato in “Sentenza di morte”, l’aggiunta della firma di Marchesi ed una violenta postilla contro Gentile “il filosofo bestione, idealista, fascista e traditore dell’Italia”.  Secondo Franceschini, Marchesi “se mai seppe poi che l’autore era stato il Li Causi, tacque per amicizia verso di lui e per amore di parte: ma non approvò mai”, eludendo però sempre una smentita ufficiale. Secondo Sergio Romano “Togliatti faceva di quell’articolo una sentenza e dava a quella sentenza la firma di uno dei maggiori intellettuali comunisti. In quelle circostanze, mentre l’Italia del Nord era ancora occupata dai tedeschi, Concetto Marchesi non poteva rilasciare smentite o precisazioni. Più tardi non volle o non poté farlo per disciplina di partito” (7).

In quel periodo Marchesi parlava spesso di “bagno di sangue” “come dolorosa ma necessaria purificazione in vista della nascita di una nuova Italia davvero non più fascista” (6), come riporta anche Franceschini che però nella biografia, sicuramente velata dall’affetto e devozione sconfinata per Marchesi malgrado l’opposto credo politico, ed anche per le sue convinzioni religiose (era cattolicissimo e membro di un sodalizio spirituale chiamato “I Soldati di Cristo Re”; diventerà nel 1968 rettore della Cattolica) parla di sfoghi verbali e non di intenzioni violente da parte del professore.

Sarà proprio Franceschini a sollecitare ed aiutare Marchesi,nascosto a Milano e restio a muoversi, a espatriare per ragioni di sicurezza il 9 febbraio 1944 in Svizzera dal valico di Maslianico presso Como. Viene ospitato dal vescovo di Lugano Mons. Angelo Jelmini nella villa di Loverciano, nel Mendrisiotto, dove scrive in quei giorni il racconto autobiografico “La bisaccia di Cratète” sul passaggio dalla vita normale alla clandestinità. Grazie a Marchesi inizia subito ad operare in Svizzera Il gruppo “FRAMA”, dalle lettere iniziali dei cognomi Franceschini e Marchesi, che si era formato a Padova ed era connesso al CLN veneto ed al Partito d’Azione, mettendosi in contatto con i servizi segreti angloamericani, con lo scopo, mediante aviolanci, di rifornire le brigate impegnate nella resistenza nel nord Italia con armi, munizioni, viveri e radiotrasmittenti. Marchesi si accorda con Umberto Calosso di radio Londra per trasmettere in codice ai partigiani i messaggi relativi ai lanci sovrintendendo alla supervisione di circa 70 campi di lancio e, mediante il FRAMA,manda dettagliati rapporti al PCI anche sulle possibili intese militari che venivano dagli alleati.

Tuttavia durante questo periodo forzato in terra elvetica si sente colpevolmente assente dalla lotta vera, e ne scrive a Franceschini, rimasto a Milano come coordinatore FRAMA  coperto dalla cattedra alla Cattolica, dicendo di occupare “un posto di sgradita tranquillità, mentre al di là di quei monti, che ho sempre sott’occhio, si fatica, si rischia, e si muore”. A dicembre del 1944 rientra in Italia, arrivando con Einaudi e Colonnetti, che diventerà nel 1945 presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in aereo a Roma da Lione dove era stato condotto in auto da Lugano dagli americani. Il 23 gennaio 1945 è nominato capo dell’Ufficio Stampa del Ministero dell’Italia occupata ed in seguito membro dell’Alta Corte di Giustizia, membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e membro della Consulta Nazionale del PCI. La vita a Roma non gli piace, scrive in aprile all’amica Wanda Diena: “Sono corroso dalla nostalgia di lassù: delle nostre terre settentrionali. La vita romana mi intossica ogni giorno sempre più. Non ho un minuto di tempo: e a sera non trovo che io abbia fatto nulla che abbia consistenza, e mi sento ombra fra ombre” (1).

Attività politica nel dopoguerra. A guerra finita, Marchesi è nominato il 26 maggio 1945 Commissario per l’Università di Padova, ateneo che affida a luglio al suo intimo amico e collega Egidio Mereghetti eletto nuovo rettore. E’ bello il ricordo di Marchesi che Laura Colonnetti, partigiana in quegli anni col marito Gustavo, confida a Franceschini: “L’amicizia con Concetto fu per me uno di quei doni che giungono inaspettati come le eredità improvvise. Ci si sente ricchi senza merito e quasi l’anima nostra sbigottisce per tanta dovizia”.

L’otto gennaio 1946 viene nominato nel nuovo Comitato Centrale del PCI e vi resterà fino alla morte. Nello stesso anno è eletto deputato per l’Assemblea Costituente e partecipa assiduamente ai lavori soprattutto in difesa della scuola, dell’affermazione dei valori laici e della libertà della cultura. Riferendosi alla proposta del cattolico La Pira di iniziare la Costituzione con la frase: “In nome di Dio, il popolo italiano si dà la presente Costituzione”conclude magistralmente, lui ateo, il suo breve intervento con le parole: “Ho sempre respinto nella mia coscienza l’ipotesi atea che Dio sia una ideologia di classe. Dio è nel mistero del mondo e delle  anime umane. È nella luce della rivelazione per chi crede; nell’inconoscibilità e nell’ignoto per chi non è toccato da questo lume di grazia”. Nel maggio del 1947 torna finalmente a Padova a “rifare il professore” ed in giugno commemora Lucrezio nella rinata Accademia dei Lincei. Piero Calamandrei, che assiste all’orazione, gli scrive: “seguii la tua lettura con continuo consenso ed emozione; ma quel pubblico di accademici e di signore era all’altezza di un discorso come il tuo in cui con tanta pacatezza era rinchiusa la lucida tragedia della nostra vita?” (1).

Nel 1948, nelle prime elezioni dell’Italia repubblicana, viene eletto deputato alla Camera. Compie 70 anni ed è deluso da quella che reputa “un’epoca di manifesta e rapida decomposizione dei valori morali e civili di tutta una classe dirigente, in tutto il mondo. Parlamento, scuola, pubblica e privata corruttela, palesano la inesorabile rovina. Resta il mondo sterminato della propria individuale coscienza, la certezza di un bene che esiste, e questa grande e indistruttibile forza che si avanza: la forza che conosce il lavoro e la sventura”(1). A Roma, nel 1955, lascia la piacevole dimora della foresteria dell’Accademia dei Lincei che abitava dal 1952 per trasferirsi in un “lugubre casermone” e “casa di pena” come la definirà nelle lettere agli amici, di viale Cristoforo Colombo costruita in cooperativa da deputati e senatori. 

A fine marzo 1952 ha un incontro con don Primo Mazzolari, ma nulla trapelerà da ambedue i protagonisti sul contenuto del lungo colloquio che era durato fino a sera. Le ragioni di questa segretezza sono da ricercarsi nell’atteggiamento della Chiesa che già nel 1949, con decreto del S.Ufficio, non ammetteva ai Sacramenti i cattolici comunisti che incorrevano addirittura nella scomunica in caso di professione della “dottrina materialistica ed anticristiana”, per cui preti come don Lorenzo Milani e don Mazzolari, indiziati di “comunismo”, erano stati ammoniti e erano strettamente vigilati. Unico presente all’incontro fu l’on. StrefanoBazoli, che molti anni dopo riferì a Franceschini di una grande cordialità fra due persone che subito si erano dichiarate, l’una un prete convinto e l’altro un comunista egualmente convinto. Ma entrambi, da presupposti diversi, sposavano gli stessi interessi: la difesa dei poveri, dei diseredati, degli ultimi, l’aiuto agli oppressi, l’amore per la libertà e la giustizia. Alla fine  dell’incontro don Mazzolari  e Marchesi si abbracciarono commossi. Bazoli lo racconta come “uno degli incontri più commoventi e più edificanti che io abbia avuto nella mia lunga vita”. L’idea di Marchesi di un sincero afflato tra comunismo ed il vero cristianesimo è chiarita in un articolo sull’Unità del 30 marzo 1952: “Noi non siamo contro Dio: contro il Dio cattolico apostolico romano, che non pochi dei nostri rispettano e altri ignorano; e accoglieremmo con onore il prete che venisse non come missionario tra selvaggi e criminali, ma come sacerdote tra i cristiani”. E’ significativa del suo sentirela seguente iscrizione che molti anni prima a Padova aveva dettato per una lampada destinata a vegliare la figlia di amici: “Ego nunctibi vigilo parvula, cras sol, Deus semper” (Ora io ti veglio, piccina: domani il sole, Dio sempre), dove è sua anche la traduzione.

Nelle elezioni del 1953 viene rieletto deputato alla Camera, sarà la sua ultima legislatura. A fine ottobre 1956 avvengono i moti ungheresi, brutalmente domati dall’intervento sovietico. Il PCI è scosso e molti suoi intellettuali firmano il cosiddetto Manifesto dei Centouno, tra cui i professori Sapegno e Muscetta. Marchesi è inflessibile, sta con la base del partito e con Togliatti, giudica l’insurrezione come antisocialista ed antisovietica, opera di “ciurme di servi” in quanto “per la ‘forma mentis’ giacobina di Marchesi non può esservi dubbio sul fatto che ‘vulgus vult decipi’ e il popolo, non diretto dal suo partito di avanguardia, è canaglia su cui è lecito sparare” (8). Questo atteggiamento incrollabilmente ortodosso lo aveva già manifestato a proposito del deviazionismo di Tito in Jugoslavia nel 1948, e, nel 1953, alla morte di Stalin di cui aveva detto “L’opera di Stalin è opera liberatrice da qualunque oppressione; da quella che fa l’uomo schiavo della fame e della fatica a quella che lo fa strumento e oggetto di rovina. Ciò che è avvenuto in Russia per opera sua, avverrà in tutto il mondo/…/ La Russia e la Cina, nella vastità immensa dei loro territori, nella risolutezza insuperabile dei loro spiriti, stanno armate di fronte al mondo capitalistico sbigottito e furente./…/ La universalità di Colui che oggi è scomparso per non morire più nella memoria e nell’azione degli uomini è in questo prodigioso amplesso che comprende tutto il mondo del lavoro, della civiltà, della fraternità; in queste braccia protese verso tutti i popoli”  concludendo l’articolo con una dura stoccata contro la Chiesa: “Un solo nemico è rimasto immobile: la Chiesa di Roma. Di fronte a Giuseppe Stalin che apre la via alla comunione di tutte le genti è la Chiesa di Roma che scomunica i fedeli i quali professano la dottrina del comunismo” (9).

Molte e severissime critiche ebbe Marchesi per l’intransigenzadelle sue posizioni politiche che non mutarono neanche dopo lo sconvolgente rapporto di Krusciov nel XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica sulle nefandezze dello stalinismo; Franceschini difende la coerenza e l’integrità del suo professore sostenendo che, anche per essere rimasto isolato politicamente e immerso negli  studi durante il ventennio fascista, non ebbe diretta conoscenza dell’orrore della dittatura sovietica imposta da Stalin, restando ancorato ad una concezione ideale di comunismo fraterno e giusto, analogo a quello che avrebbe dovuto essere per lui il vero cristianesimo; e proprio perché la Chiesa aveva tradito la povera gente e la classe operaia, al suo posto era nato il comunismo.

Il 12 febbraio 1957, Marchesi, mentre si trovava la mattina nel suo studio con un collega, ebbe un attacco cardiaco. Né il fratello né la moglie erano presenti. Un taxi lo portò d’urgenza alla clinica Sanatrix diretta da Cesare Frugoni, suo amico. Uscendo da casa salutò il collega dicendo serenamente “oichomai, me ne vado”. Alle 19,30 spirava fra le braccia del fratello Salvatore rientrato a Roma appena in tempo per abbracciarlo. I familiari gli trovarono addosso un biglietto che raccomandava: “Siano avvertiti il Partito e l’Università di Padova”, i due fermi riferimenti della sua vita. Lo recava con sé da alcuni giorni in previsione, come aveva scritto, di quell’unico viaggio “per il quale non si sarebbe recato alla stazione con un quarto d’ora di anticipo”. L’Unità esce con quattro dense pagine dove Marchesi è ricordato da firme illustri come Ranuccio Bianchi Bandinelli, Francesco Flora, Vincenzo Arangio Ruiz, Gianni Rodari. Luigi Russo, noto italianista e siciliano come lui, lo ricorda “Piccolo, snodato, aveva un’aria d’un bambino, o d’un “angelone”, come quelli che ricorrono nei nostri paesi nelle cerimonie cattoliche”. Togliatti lo commemora due giorni dopo alla Camera dei Deputati con un lungo ed articolato discorso, dove, dopo avere ricordato la sua opera di sommo latinista culminata nella Storia della Letteratura latina “monumento dell’indagine critica e dell’analisi estetica, opera di storia e di dottrina”, ne ricorda l’inflessibile coerenza marxista e conclude “Concetto Marchesi ha servito la verità e ha servito una causa. Cosi egli ha affermato, nel conoscere e nell’agire, la libertà della sua persona di combattente e di studioso, di educatore, di maestro. L’adesione al movimento socialista e poi al nostro Partito non fu per lui, atto esteriore /…/Fu impegno serio e decisivo, sempre perché, diceva, la nostra è una fede./…/ Rimanga egli, con l’esempio della sua vita, della sua attività instancabile, delle battaglie che per la redenzione del lavoro e per la patria egli ha combattuto, come guida non per noi soltanto, compagni suoi di fede e di Partito, ma per tutti i cittadini di animo retto e di elevato sentire, per gli uomini di studio e di cultura, per le nuove generazioni del nostro Paese”.

Il lascito di Concetto Marchesi. Oggi, crollato definitivamente il mito del comunismo, il ricordo di Marchesi come uomo politico è nettamente superato da quello di grande umanista, uomo disterminata  competenza e conoscenza del mondo della cultura classica sia come letterato che storico, filologo, latinista e brillante prosatore. In realtà Marchesi non fu mai un politico, entrò per necessità morale a 65 anni nella politica attiva, ed anche quando con la fine del conflitto la democrazia riprese il suo corso, restò un sorta di battitore libero osannato agli inizi essendo tra i pochi uomini di cultura del PCI, ma guardato con sospetto da molti dirigenti. Giorgio Amendola ricorda che “ogni volta che il PCI gli dette incarichi che non riguardassero la scuola o comunque il suo strumento, la parola, ebbe a pentirsene: fino a che non gliene diede più se non di onorifici” (1). Marchesi fu e resta un grande umanista; sicuramente tra i più completi e geniali interpreti della civiltà e del pensiero antico, greco e poi romano, che riteneva le basi fondanti ed inscindibili della nostra civiltà. Proprio l’anno prima di morire, polemizzando con Antonio Banfi, aveva definito il classicismo “un patrimonio unico di tutte le età e di tutte le genti a cui l’umanità possa sempre attingere come ad una perenne sorgente di suggestione spirituale”, definendo classico “ciò che continua e non ciò che comincia o s’improvvisa: è quella nobiltà intellettuale che discende dal passato cioè dall’antico, e dell’antico ritiene non gli echi ma la sostanza vitale”(10). 

Un altro aspetto fondamentale dell’opera di Marchesi è la forte tensione morale che traspare da ogni suo scritto, sia politico che di letteratura, e ne fa fede questo brano di uno dei suoi ultimi discorsi, nel 1955, per celebrare il decennale della Resistenza, dove ricorda che “Siamo tutti poveri mortali soggetti al peccato. Questo solo importa nella vita: avere una fede e improntarla del proprio spirito, e cercare quel che possa giovare al conforto della comune esistenza; e non essere passati invano su questa terra. Sappiamo che la ragione non basta a risolvere tutti i problemi dell’essere e della conoscenza; sappiamo che la speculazione ad un certo punto si arresta e la scienza non attinge le cause prime. Non ignoriamo i limiti della ragione, i limiti della scienza e lo spazio smisurato del mistero. Non abbiamo dogmi da enunciare e da imporre: ma proponiamo un dovere per tutti: aiutare l’oppresso a rialzarsi, l’armato a disarmare, l’ignorante a intendere, oltre che a subire, le necessità della vita” (11).

Francesco Cappellani

(1) Ezio Franceschini: “Concetto Marchesi. Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto”. Editrice Antenore, Padova, 1978

(2) Manara Valgimigli: “La letteratura latina di Concetto Marchesi”. Leonardo, vol.3, 1927

(3) Giorgio Amendola: “Lettere a Milano”. Roma, Editori Riuniti, 1974

(4) Emilio Pianezzola: “Concetto Marchesi. Gli anni della lotta”. Il Poligrafo, Padova, 2015

(5) Paolo Spriano: “Storia del Partito Comunista Italiano, IV, la fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata”.Einaudi, Torino 1973

(6) Luciano Canfora: “La sentenza”. Sellerio editore, Palermo, 2005

(7) Sergio Romano: “ Giovanni Gentile. Un filosofo al potere negli anni del Regime”. Milano, Rizzoli, 2004

(8) Eros Barone: ““Popolo “e “moltitudine” nel pensiero politico di Concetto Marchesi”. www.sinistrainrete.info/teoria/9978. 9/06/2017

(9) Concetto Marchesi: “Stalin liberatore”. Rinascita, anno X, n.2, 1953

(10) Concetto Marchesi: “Umanesimo e comunismo”. Roma, Editori Riuniti, 1974, citato da E.Barone (8)

(11) Concetto Marchesi: “Nel decennale della Resistenza”, a cura del ” Risorgimento”, Milano, 1955