Confine (del colore)

Jack Johnson.
Un nero campione del mondo di pugilato.
Per di più, tra i massimi.
Un nero che oltre a sconfiggere con facilità gli avversari bianchi non rispettava le regole.
Non stava al suo posto.
Insopportabile.
In specie in un mondo yankee – primi decenni del Novecento – nel quale le ‘leggi Jim Crow’ impedivano ancora in larga parte del Paese appunto ai neri, teoricamente liberi dopo la Guerra di Secessione, di esercitare i propri diritti.
Tolto di mezzo Johnson (si vuole che per convincerlo a perdere la cintura nel 1915 a L’Avana lo avessero pagato profumatamente al di là del garantito dalla borsa), per evitare che un altro afroamericano arrivasse al vertice si pensò di delineare un confine, un limite, una ‘linea’ oltre la quale i neri in campo pugilistico (valse purtroppo anche altrove) non potevano andare.
La cosiddetta ‘color line’.
Nulla di ufficiale, naturalmente.
Per carità.
Ma, nella sostanza la ‘linea del colore’ imperava.
Eccome.
È per questo che Gene Tunney – peraltro, assai valido – arrivò al titolo.
Bianco, fu scelto dal manager di Jack Dempsey (il detentore) quale sfidante in luogo e per evitare Harry Wills, fortissimo numero uno in quel mentre, nero che per questo si vedeva sbarrata la strada.
Correva il 1926.
Undici anni dopo, in una America diversa, un altro boxeur afro coronerà la carriera col titolo di tutte le categorie: Joe Louis.
Talmente mutati i tempi che in almeno una occasione (nel 1940) il fatto che il ‘bombardiere’ (uno dei soprannomi di Louis) fosse un ‘colored’ gli permise di mantenere la corona con un verdetto bugiardo (razzismo ‘al contrario’) pur avendo decisamente perso sul ring.
Avversario il povero (si guardi la sua espressione al momento della lettura dei cartellini) cileno Arturo Godoy.
Malcapitato a dir poco nella circostanza.

Mauro della Porta Raffo