Sono due i fattori che l’Istat ha evidenziato come responsabili del rallentamento dell’economia italiana a fine agosto: la contrazione degli scambi internazionali per effetto delle misure protezionistiche annunciate ed attuate dall’amministrazione americana che ha penalizzato le nostre esportazioni e il costante restringersi delle attività del comparto delle costruzioni.
Se nel primo caso i nostri margini di manovra sono limitatissimi, nel secondo, invece, le possibilità potrebbero essere molto superiori.
I dati sono controversi e rendono difficoltosa l’estrapolazione di informazioni esaustive, tuttavia, analizzando l’andamento della prima metà del 2018 possiamo constatare che il contributo al prodotto interno lordo del settore edile allargato è sceso dal 29% al 17% e il valore aggiunto del segmento edilizio, valutato sia in volumi che finanziariamente, è apparso inferiore di oltre un terzo rispetto all’analogo periodo di dieci anni fa, quando la lunga recessione economica dalla quale non siamo ancora pienamente usciti è iniziata.
Il nostro patrimonio edilizio che ammontava a circa 6550 miliardi di euro è sceso a poco più di 5070 miliardi, il numero delle imprese del settore si è ridotto del 25% (125000 su 500000), gli occupati, calcolati in unità di lavoro equivalenti, sono calati di oltre 500 mila rispetto ai valori stimati nel 2008 e il numero delle unità abitative nuove realizzate nel 2017 non ha superato le 55 mila unità, regredendo al livello degli anni 70.
Anche il credito è un enorme buco nero ed il settore edile contribuisce per oltre il 30% al totale delle sofferenze bancarie, relativamente al comparto manifatturiero allargato.
I dati Istat evidenziano, poi, con chiarezza, che a fondamento della crisi che da un decennio attanaglia il settore c’è una carenza significativa di investimenti e a giugno di questo anno il volume complessivo del comparto (edifici residenziali, non residenziali e infrastrutture) è rimasto inferiore di oltre il 30% rispetto ai volumi precedenti la crisi.
Il differenziale poi cresce di otre il 40% se il raffronto si commisura agli edifici non residenziali ed alle infrastrutture, intese come reti cinematiche, viadotti, gallerie, opere di contenimento e in questo si evidenzia che il nostro Paese investe in infrastrutture logistiche ben quaranta punti in meno rispetto a dieci anni fa.
E’ chiaro che questa significativa discrepanza deve essere annullata, non solo per ragioni economico/sociali, ma, principalmente per la sicurezza collettiva, perché opere non realizzate e opere non manutentate accrescono i rischi e riducono l’attrattività e la competitività del sistema paese.
Per ottenere, però, risultati significativi occorre invertire la tendenza manifestatasi fino ad ora e far si che La Pubblica Amministrazione torni ad investire in modo adeguato sulle infrastrutture prioritarie che debbono garantire la continuità delle reti, completandole e collegandone le tratte incompiute.
Un analogo intervento dovrà essere attuato sulla manutenzione selettiva che assicura la piena fruibilità delle infrastrutture e la loro sicurezza.
Non sono però, contrariamente a ciò che si potrebbe ipotizzare, le risorse il vincolo maggiore, infatti l’Associazione dei costruttori edili ha quantificato in circa cento quaranta miliardi di euro l’ammontare delle risorse già erogabili provenienti dal nostro Paese e dalla UE.
Il vero problema non parrebbe quindi la disponibilità finanziaria, quanto piuttosto le lungagini procedurali, i veti incrociati e le controversie di attribuzione.
A riprova di questa affermazione c’è la constatazione che circa il 10% del debito pubblico italiano è concentrato su una sola voce, l’alta velocità che ci è costata circa 220 miliardi di euro per la realizzazione di poco più di 1000 chilometri di rete; realizzata però nell’arco di 20 anni con costi a chilometro da tre a cinque volte più elevati degli analoghi, spagnoli, francesi e tedeschi.
Questo dato deve far riflettere dal momento che dal 1958 al 1963 con una lunghezza di poco inferiore (circa 757 chilometri) venne realizzata l’Autostrada del Sole; per di più con le tecnologie di oltre cinquanta anni fa.
Infatti uno studio della Banca d’Italia pubblicato lo scorso anno sottolinea che il tempo medio per la realizzazione di un intervento pubblico nel settore delle infrastrutture è di circa quattro anni e mezzo (poco più di due anni e mezzo per la progettazione, sei/sette mesi per l’assegnazione e il restante per l’effettiva realizzazione).
Tuttavia per le realizzazioni più complesse e che richiedono risolse ingenti, il ciclo delle costruzioni pubbliche si avvicina e/o supera i venti anni.
Sono tempistiche inaccettabili che finiscono con l’accrescere i costi e non fanno che penalizzare la crescita del Paese, ritardando le occasioni di sviluppo, di interconnessione territoriale e di valorizzazione urbanistica.
Non bisogna però cadere nella tentazione di uno sviluppo fine a se stesso che ripeta gli errori del passato con l’urbanizzazione selvaggia che vede il territorio come un mero contenitore e la rendita fondiaria come fonte primaria di accumulazione del capitale che hanno devastato il paesaggio, le periferie urbane con “mostri” di inaudita bruttezza e hanno anche realizzato infrastrutture incompiute o “cattedrali nel deserto”.
Quindi non più nuove costruzioni che “consumano” territorio e distruggono il paesaggio (bene comune) a vantaggio di pochi e a scapito di tutti, ma riqualificazione e messa in sicurezza delle periferie urbane e dei centri storici minori, considerati come “aggregati urbani da ristrutturare e rivalutare”e reti cinematiche e di servizio infrastrutturale da completare e manutentare con continuità, grazie a progetti trentennali che superino “l’adessisimo” di politicanti e ceti dominanti che non guardano alle generazioni future, ma solo alle prossime elezioni.
In primo luogo sono indispensabili norme semplici, comprensibili, non discrezionali e durature nel tempo, fatte da politici lungimiranti,( è il caso di ricordare che la nostra “legge urbanistica” risale al 1942!), alle quali si dovranno affiancare “professionisti pubblici”competenti e capaci in grado di prevedere, progettare e programmare le infrastrutture prioritarie per il progresso del Paese senza disperdere le risorse nei mille rivoli del consenso a breve.
Focalizzando i progetti sulle opere cinematiche multimodali, interagenti e con il riferimento costante alla relazione: aperte, accessibili, attrattive, continue, coerenti, correlate ed integrate.
Pertanto il rilancio dell’edilizia sostenibile e delle opere infrastrutturali prioritarie dovrà trasformarsi in una vera politica industriale trainante e in una sfida strategica per le migliori imprese italiane che potranno ripetere in patria i lusinghieri risultati che continuativamente ottengono all’estero, contribuendo in modo determinante al progresso civile ed economico del Paese.
Luigi Pastore