I dieci peccati dei big della rete

Se i livelli di disuguaglianze non fossero stati così elevati, probabilmente, Facebook e i giganti del web avrebbero potuto avere qualche speranza di cavarsela senza troppi danni e continuare a guardare il mondo intero dall’alto dei circa tremila miliardi di dollari della loro capitalizzazione borsistica.

Tutti sapevano della iniquità dello scambio dati tra i fruitori delle piattaforme, i motori di ricerca e i loro gestori, ma lo scoperchiarsi dello scandalo dei dati venduti da Cambridge Analytica ha innestato un processo di consapevolezza che può portare a decisioni sorprendenti, anche a causa delle troppo diffuse e asimmetriche disuguaglianze che hanno generato la crescita delle ansie e delle insicurezze sociali.

Certamente l’indice Gini che le misura non è più sufficiente, pur nella sua stupefacente genialità (un semplice numero compreso tra zero e uno, come indicatore) e il fatto che certificasse le tendenze, non può significare che lo si possa impiegare come strumento per l’individuazione degli interventi in grado di ridurre le disuguaglianze stesse.

La ragione è legata al fatto che le disuguaglianze sono tante, differenti tra loro, complesse e non facilmente sintetizzabili, con un filo rosso che le collega, però, l’eccessiva concentrazione della ricchezza su pochi individui e la bassa crescita economica con il suo strascico di deterioramento del livello di vita di larghissime fasce di cittadini.

La conseguenza è stata il blocco dell’ascensore sociale verso l’alto e la perdita di fiducia legata alla visibilità auto gratificante della presenza sui social che faceva ipotizzare anche la possibilità di un futuro migliore, almeno virtuale!

Tutto ciò ha ricadute rilevanti sulla coesione sociale, sulla dinamicità delle iniziative, sull’autorealizzazione e l’autostima dei cittadini, sul potenziale di crescita, sulla volatilità del consenso alla politica, sui meccanismi giuridici e sulla tenuta della democrazia stessa.

Quindi è forse il caso di ricercare una nuova chiave di lettura e un metodo che sia in grado di invertire il fenomeno, apparentemente inarrestabile, della crescita delle disuguaglianze.

Ipoteticamente lo strumento potrebbe essere quello di valutare l’impatto di ogni intervento in un’ottica di ricaduta sulle disuguaglianze stesse (le fa crescere o diminuire?) e il metodo quello di non ricercare una soluzione universale ( solo quella economica), quanto piuttosto, di approcciare le disuguaglianze una alla volta: quelle degli anziani, dei giovani, delle donne, quelle territoriali, quelle legate alla conoscenza, quelle professionali, quelle legate alla salute, quelle ambientali e territoriali.

Adattandosi alla complessità e adeguandosi alla lettura della realtà in modo laterale; proprio per evitare che la realtà stessa venga deformata dagli strumenti che dovrebbero valutarne le relazioni e correggerne le distorsioni.

Quindi nel caso dei social e delle piattaforme di intermediazione alla riprovazione e all’ostracismo, vanno affiancati interventi che in primo luogo ne interpretino i fondamenti e ne limitino i poteri.

Analizzandoli è possibili comprendere quelle che ad oggi, appaiono le loro dieci “colpe” più significative, per poter poi predisporre gli interventi correttivi; in sintesi si tratta di:

1) Assenza di tutela della privacy
2) Elusione fiscale
3) Comportamenti antisindacali
4) Eccesso di posizione dominante
5) Manipolazione sociale
6) Appropriazione indebita di contenuti editoriali
7) Pubblicità opaca
8) Orientamento politico
9) Assenza di etica
10) Scarsa remunerazione dell’investimento
Come è evidente si tratta di un complesso di infrazioni significativo che denota, da parte dei giganti del web (Amazon,Apple,Google e Facebook), la tendenza a considerare le regole e le normative come optional che si applicano agli altri, ma non a loro stessi.

Analizzando nel dettaglio alcune tra le più significative di queste violazioni si può comprendere come è stato possibile che il loro ingresso sul mercato abbia rivoluzionato, in pochi anni, i media, il commercio e la finanza globali, alterando i meccanismi della concorrenza.

Se pensiamo ad esempio all’assenza di tutela della riservatezza dei dati sensibili e ci rendiamo conto che il modello di business dei social e dei motori di ricerca è focalizzato sulla capacità di intercettare e poi utilizzare, commercialmente, i dati personali, possiamo comprendere quanto sia determinante avere garanzie sulla privacy che è offerta ai fruitori dei servizi.

Teoricamente le garanzie ci sarebbero, ma nei fatti i controlli e i meccanismi di difesa si dimostrano inefficaci e non sono in grado di impedire furti e hackeraggi e la sensazione è che le aziende della rete investano cifre troppo ridotte per la tutela di persone e software.

Altrettanto grave è la “colpa” legata all’elusione fiscale; pagare le tasse non è mai stato considerato un dovere, ma solo un costo da minimizzare il più possibile e fino ad oggi la strategia adottata dai giganti del web è stata quella di indirizzare gli utili negli stati con ridotta tassazione, come hanno fatto Apple con l’Irlanda e Amazon con il Lussemburgo.

Questo modo di comportarsi è doppiamente odioso, perché le piattaforme social e i motori di ricerca prima riducono l’occupazione in molti paesi con l’offerta dei loro servizi apparentemente gratuiti e poi li privano anche delle entrate fiscali che potrebbero alleviare la disoccupazione crescente.

Da ultima e non certo meno importante è l’appropriazione dei contenuti editoriali che da sempre gli editori tradizionali denunciano.

Infatti è prassi tipica delle aziende hi-tech rilanciare gratuitamente sui loro siti articoli e contenuti informativi dei quali non hanno sostenuto i costi, perché prodotti da altre testate e questo fenomeno ha certamente contribuito ad aggravare la crisi della carta stampata.

Solo negli Stati Uniti questo ha comportato negli ultimi venti anni la perdita di oltre 20 mila posti di lavoro nel comparto giornalistico.

E’ quindi compito delle classi dirigenti farsi carico di tutte queste problematiche e proporre soluzioni in grado di limitare queste posizioni di eccesso di potere dominante, per ristabilire un equilibrato e ragionevole regime di concorrenza che sappia eliminare questa sorta di feudalesimo hi-tech dei padroni del web che con i loro comportamenti monopolistici non fanno che accrescere anche le disuguaglianze e penalizzare le risorse della collettività.

Luigi Pastore