I beni comuni cerniera tra pubblico e privato

Nel dualismo tra stato e mercato da circa una ventina di anni ha fatto la sua comparsa il concetto di beni comuni; da quando cioè ci si è resi conto che aria, acqua, clima, paesaggio, conoscenza, biodiversità e cultura non possono essere monetizzati a solo vantaggio di pochi acquisitori, perché sono un bene collettivo.

Quindi dal dualismo alla concezione ternaria, così come tra oggettivo e soggettivo prende corpo il concetto di intersoggettivo e in economia, parlando di risorse, accanto a materie prime ed energia, esauribili, compare il concetto di conoscenza che più cresce e si sviluppa, più se ne avrà disponibilità.

Il termine “beni comuni”è la traduzione dell’inglese “commons” che significa beni di uso comune ed è un dato di fatto che la conservazione e la riproduzione di questi elementi, fondamentali per l’equilibrio sociale, determina una relazione complessa nel contesto sia ordinativo e costituzionale che economico e sociale; dal momento che è impossibile organizzare una struttura innovativa senza una rete di significati interconnessi. 

Pertanto avere la consapevolezza del loro valore implica che debbano essere valutati attentamente in quanto incidono in modo determinante sulla qualità delle nostre relazioni sociali e sulla sostenibilità e il progresso del nostro mondo. 

Dal qualche anno si è ormai diffuso il concetto che il benessere (well-being) non è solo il risultato della dotazione di ricchezza e patrimonio economico, quanto piuttosto quello integrato tra tre categorie di beni:privati, pubblici e comuni, ma dobbiamo sapere che bene pubblico e bene comune non sono la stessa cosa.

Al di là delle confuse interpretazioni, spesso interessate, la differenza sta nella loro fruizione che nel caso del bene pubblico non richiede alcuna aggregazione, o trama organizzativa specifica e viene “goduto” in forma individuale.

Il bene comune, invece, non solo è collettivo, ma per poter essere fruito richiede una definita convergenza di intenzioni ed azioni predefinite, declinate in modalità organizzative specifiche e spesso innovative.

Si tratta infatti di patrimoni la cui salvaguardia, valorizzazione e gestione richiede una dimensione organizzativa convergente, plurale, concordata e comunitaria e non solo istituzionale che è, invece, la  sola che è  presente sia nelle soluzioni privatistiche che pubbliche.

E’ l’idea di comunità quella vincente, come affermava il nobel per l’economia (2009) Elinor Ostrom che vedeva nella messa al lavoro delle energie della società civile organizzata lo strumento per ideare innovative modalitàdi individuazione e di gestione collettiva dei beni comuni.

Di conseguenza diviene centrale la capacità  dei cittadini di essere protagonisti di forme innovative di gestione e di cura di spazi urbani, beni culturali e paesaggistici abbandonati che precedentemente venivano “rimpiegati”attraverso percorsi speculativi privati o sprecativi pubblici.

Il metodo della governance democratica che parte dal confronto orizzontale è la nuova sfida del XXI secolo, perché non può più bastare l’intervento della Pubblica amministrazione, con i suoi percorsi burocratizzati, i suoi tempi biblici e la sua presunta mancanza di risorse e occorrono, invece, politiche che sia in grado di attivare fiducia e processi di collaborazione tra una pluralità di individui, portatori non solo di interessi, ma anche di idee, risorse e istanze di cambiamento.

Quindi il futuro dei beni comuni dipenderà anche dalla capacità degli amministratori nel saper dare voce al desiderio di partecipazione  delle comunità locali, impiegando anche lo strumento dei “Patti di collaborazione”, perché il loro futuro richiede un differente concetto di utilità, in grado di declinarsi in attività volte al perseguimento dell’interesse generale.

Un segnale incoraggiante per il nostro Paese è poi quello che arriva dalla sentenza n°273 del Tar del Veneto che “bacchetta” il demanio dando ragione ai cittadini e obbligando lo Stato a dare risposte tempestive e definitive sul caso dell’isoletta disabitata di Poveglia nella laguna veneziana.

In questo caso un gruppo di cittadini per amore di un bene comune abbandonato al degrado (l’isola stessa) ne aveva chiesto l’acquisto, sottraendola alla vendita privatistica, e prima di poterla acquisire, con un percorso di crowdfunding, ne rivendicava una concessione di sei anni per recuperarne i sentieri verdi e ristrutturarne i percorsi.

Secondo la sentenza del Tar il demanio di fronte ad una proposta articolata e concreta, destinata alla fruizione collettiva del bene, non aveva alcuna ragione di temporeggiare e tenere l’isola per se in stato di abbandono e avrebbe dovuto, invece, essere sensibilealle istanze dei cittadini vista la loro importante finalità sociale.

Forse stanno maturando i tempi per l’attuazione, non occasionale, dell’articolo 118 della nostra Costituzione sulla sussidiarietà, per arrivare alla gestione innovativa,condivisa, organizzata e collettiva dei beni comuni.

Luigi Pastore