La Cina è vicina. Xi Jinping e il XIX Congresso del Partito Comunista Cinese

La Cina è vicina.

In questi giorni, in quel di Pechino, si sta svolgendo il XIX Congresso del Partito Comunista Cinese, nel corso del quale verranno adottate le linee guida che il Paese dovrà seguire nel prossimo quinquennio, sia in politica interna che in politica estera.

La Cina è vicina, perché le strategie che verranno messe in campo all’esito dei lavori del Congresso sono destinate ad avere un impatto enorme non soltanto sull’Asia, ma anche sull’Europa – in primis – e sul resto del mondo.

Eppure, nonostante la sempre maggiore vicinanza che la Cina ha – e avrà – con il mondo occidentale, sui media del “mondo libero” viene ancora descritta con una buona dose di ignoranza e di sciatteria, e raccontata attraverso articoli che si pongono a metà fra il fascino esotico-orientale, da un lato, e l’irrazionale paura per la sua ascesa, dall’altro.

D’altronde, lo spazio mediatico che, in questi giorni, il Congresso del Partito sta ricevendo è ben poca cosa, se paragonato alla cornucopia di dirette e di approfondimenti che, ogni quattro anni, vengono dedicati alle elezioni per la presidenza degli Stati Uniti. Eppure, nonostante sia un evento volutamente meno mediatico e spettacolare delle elezioni americane, il Congresso del Partito Comunista Cinese non è meno importante e foriero di implicazioni geopolitiche rispetto al primo.

Ma dedicando così poco spazio all’evento politico più importante dell’Asia-Pacifico, approfondendolo così poco o in modo così superficiale, come è possibile spiegare in modo corretto all’opinione pubblica quale sia la sua reale portata? E, soprattutto, come è possibile far capire che della Cina non bisogna aver paura, ma che, al contrario, bisogna guardare a essa come un potenziale, imprescindibile alleato?

Il gigantesco ed elefantiaco apparato burocratico cinese, dunque, si è messo in moto in questi giorni. Ma, al di là della pompa delle celebrazioni ufficiali che si svolgono a Pechino, che cosa accade dietro la cortina dei lavori congressuali? In sostanza, niente. O meglio, come spiegato dal giornalista australiano Richard McGregor nel suo magistrale libro “The Party”, vengono ratificate decisioni già prese in altre sedi, fra cui le nomine al Comitato Centrale del Partito e al Politburo. E non potrebbe essere altrimenti, considerato che il Partito Comunista Cinese vanta oltre novanta milioni di iscritti.

Grande importanza riveste, invece, il discorso che, in apertura di Congresso, il Presidente della Repubblica Popolare rivolge al suo Paese e, indirettamente, al mondo intero. E a tal proposito, il discorso presidenziale di questo XIX Congresso verrà ricordato come quello della definitiva consacrazione a “padrone” della Cina contemporanea del Presidente Xi Jinping.

Figlio di un combattente comunista di lunga data che aveva partecipato alla Lunga Marcia di Mao Zedong, Xi fa parte del gruppo di potere noto come “Taizi”, ovvero dei “principi rossi”, che riunisce i figli e i nipoti dei protagonisti della guerra civile combattuta e vinta contro i nazionalisti di Chiang Kai-Shek. Entrato in politica in giovanissima età, ha scalato tutte le posizioni gerarchiche del Partito, fino a divenire uno degli uomini più ricchi della Cina e a essere nominato, nel 2012, Presidente della Repubblica Popolare nonché Segretario Generale del Politburo.

La presa – certamente molto autoritaria – che Xi Jinping ha sull’odierna Cina è tale che, al termine dei lavori del Congresso in corso, il suo nome e il suo pensiero programmatico verranno iscritti all’interno della Costituzione nazionale: un onore che, nella storia della Repubblica Popolare, è stato conferito ai soli Mao Zedong e Deng Xiaoping, il vero padre, quest’ultimo, della Cina contemporanea e del suo miracolo economico.

Qual è, dunque, la “visione” di Xi Jinping per il futuro della Cina? In che modo la superpotenza dell’Asia Orientale guarda a sé stessa e al ruolo che essa rivestirà nel mondo del futuro?

Il primo punto da analizzare non può che muovere dal discorso politico-economico.

Al netto delle “cassandre” del mondo economico-finanziario occidentale, che preconizzano l’imminente scoppio di una bolla speculativa analoga a quella che colpì il Giappone a metà anni ’90 del secolo scorso, l’economia cinese è stabile e in salute, come dimostra la crescita costante del prodotto interno lordo, attestatosi quest’anno a un +6,9%. Numeri che qualunque Paese del mondo occidentale può solo rimirare da lontano e con invidia. E sì che, stando ai soliti “esperti” e “bene informati”, il biennio 2016-2017 avrebbe dovuto rivelarsi difficile e di relativamente scarsa crescita economica!

Certo, siamo lontani dai numeri in doppia cifra che erano la norma meno di un decennio fa, ma la contrazione del PIL era attesa, tenuto conto che, man mano che il Paese si arricchisce e prospera in tenore di vita e infrastrutture, migliorare e crescere è più difficile.

La “politica illuminata” varata da Deng Xiaoping (come l’ha definita il sinologo tedesco Kai Vogelsang nel suo libro “Cina. Una storia millenaria”) ha consentito di raccogliere, trent’anni più tardi, gli sperati frutti, e oggi circa 330 milioni di cinesi sono passati dalla povertà più assoluta a una condizione di medio-alta borghesia. Giusto per comprendere tali dimensioni, gli Stati Uniti vantano una popolazione di circa 323 milioni di persone.

Non ci si scordi, peraltro, nell’analizzare i dati economici cinesi, che molti di tali commenti e previsioni provengono dal di là dell’Atlantico, dove la gran parte degli ambienti vicini a Wall Street non vede di buon occhio – per usare un eufemismo – il fatto che Pechino detenga circa un terzo del debito pubblico statunitense.

A ciò si aggiunga il fatto che la Repubblica Popolare ha osato mettere in discussione lo status quo anche dal punto di vista bancario e delle transazioni internazionali con l’istituzione della “Asian Infrastructure Investment Bank” (AIIB), un colosso che si pone in diretta competizione con la Banca Mondiale e con il Fondo Monetario Internazionale a guida statunitense, e al quale hanno già aderito cinquantasette Stati.

Scopo precipuo dell’AIIB è quello di porre in essere progetti di infrastrutture a lungo termine nell’area dell’Asia-Pacifico tramite la promozione dello sviluppo economico-sociale della regione, contribuendo fattivamente, in tal modo, alla crescita economica mondiale.

Da qui, il discorso inerente alle infrastrutture è consequenziale. Negli ultimi vent’anni, infatti, la Cina ha cambiato volto, dotandosi di città moderne, tecnologiche ed efficienti. Un esempio ne è Guangzhou (in Occidente meglio conosciuta come Canton): città esteticamente brutta e sporca soltanto nel 2005, quando chi scrive ha avuto l’occasione di visitarla, è oggi una megalopoli di quattordici milioni di abitanti, ricca, luminosa e in grado di attrarre investitori da tutto il mondo.

Certo, si obietta, questo sviluppo così rapido e clamoroso ha avuto un costo molto salato, ovvero quello ambientale.

In effetti, da questo punto di vista, la Cina ha pagato a caro prezzo la sua modernizzazione industriale e urbana; una modernizzazione in grado di trasformare un Paese che, alla morte di Mao Zedong, era ancora profondamente rurale e contadino, nella seconda economia mondiale, in rampa di lancio per tentare lo storico sorpasso sugli Stati Uniti.

Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, la leadership politica cinese ha compreso che il futuro del Paese passa anche da un’economia sostenibile a livello ambientale e ha iniziato a prendere i primi provvedimenti in tal senso. Xi Jinping, infatti, nel suo discorso inaugurale al Congresso del Partito, ha ribadito che la sua “visione” per la Cina del futuro, da qui al 2049, è quella di un Paese “moderatamente prospero”, militarmente potente, ma anche bello e, soprattutto, ecologicamente responsabile.

Lo stesso Xi ha anche ribadito l’impegno del suo Paese a mantenere fede agli obblighi assuntisi con la sottoscrizione del Trattato di Parigi sul clima del 2015, proprio nel momento storico in cui gli Stati Uniti, per volontà del loro Presidente e della potente industria carbonifera made in Usa, hanno deciso di uscirne.

Alle parole di Xi Jinping seguiranno i fatti? La Cina è davvero pronta, politicamente ed economicamente, a una svolta “green”? Solo il tempo potrà fornire una risposta, ma di certo, con le sue affermazioni programmatiche, il Presidente della Repubblica Popolare dimostra di avere una “visione” politica chiara e univoca. Il che lo rende l’unico, vero leader mondiale contemporaneo assieme al Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.

Sempre in tema di opere infrastrutturali, in questi giorni di lavori al Congresso si è tornati a parlare di quello che rappresenta il progetto più ambizioso che Xi Jinping coltiva da quando è diventato Presidente nel 2012, ovvero la realizzazione della c.d. “One Belt, One Road”.

Tale progetto, infatti, mira a costituire quella che è già stata definita la “nuova via della seta”, che dovrebbe collegare sia via terra, con strade e ferrovie ad alta velocità (“Silk Road Economic Belt), sia via mare (“21st Century Maritime Silk Road”), l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico. A lavori ultimati, infatti, sarà teoricamente possibile far viaggiare merci e persone da Pechino fino all’Europa Occidentale attraverso linee ferroviarie, autostrade e porti, con importanti risparmi sui costi di spedizione e trasporto.

Tutto questo, tenendo presente che il governo cinese si è già detto disponibile a investire, tramite le risorse della “Asian Infrastructure Investment Bank”, in infrastrutture all’interno dei Paesi che aderiranno alla “One Belt, One Road”, per agevolarne e accelerarne la realizzazione.

Le ricadute commerciali e occupazionali che una simile, titanica opera potrebbe apportare agli Stati che si trovassero all’interno della “nuova via della seta” sono evidenti, tanto che alcuni storici e studiosi di affari asiatici scrivono già di una sorta di nuovo “Piano Marshall”, potenzialmente in grado di rivitalizzare la stagnante economia europea.

Ovviamente, la Cina non si cimenterà in una tale, costosissima impresa per mero spirito filantropico; avrà fatto i suoi calcoli e avrà i suoi interessi economici e strategici da perseguire. Ma anche il “Piano Marshall”, quello vero, non fu varato dagli Stati Uniti per empatia verso un’Europa Occidentale devastata dalla Seconda Guerra Mondiale.

Resta da capire, ai fini di una concreta realizzabilità di questo storico progetto, quale posizione adotteranno gli Stati Uniti, che non hanno aderito alla “Asian Infrastructure Investment Bank” e che non vedrebbero certamente con favore un’Europa Occidentale che “flirta” in modo sempre più consistente con Pechino.

Per quanto riguarda, poi, uno dei temi che, da sempre, accende maggiormente la miccia dei media occidentali quando si parla di Cina, ovvero il rispetto dei “diritti umani”, dai lavori in corso del Congresso giunge un bel “nulla quaestio”.

La Repubblica Popolare, infatti, non intende cedere – e non cederà – a quello che ritiene un ricatto morale e politico dell’Occidente (Stati Uniti in testa) nei suoi confronti.

Anzi, da ambienti diplomatici pechinesi filtra l’opinione che il tema “diritti umani” sia, in realtà, uno strumento usato ad arte dal mondo occidentale per influenzare l’opinione pubblica mondiale e renderla ostile alla Cina e alla sua cultura plurimillenaria.

D’altronde, per quanto agli occhi di un europeo o di un americano il mancato rispetto dei c.d. “diritti umani” è un fatto inaccettabile, lo stesso non si verifica in Asia Orientale, dove l’Illuminismo, Rousseau, De Tocqueville e il femminismo non sono mai arrivati se non sui libri di storia. L’Estremo Oriente fonda le proprie radici culturali su orizzonti completamente differenti, primo fra tutti il confucianesimo, nel quale valori come “gerarchia”, “obbedienza”, “anzianità”, “rigore” e “bene comune” sono considerati molto più importanti della felicità del singolo individuo. Questi ideali sono profondamente radicati da millenni, e anche il solo pensare che le popolazioni ivi stanziate possano sostituirli con quelli occidentali sol perché così è stato deciso in qualche consesso alle Nazioni Unite, è culturalmente razzista, oltre che storicamente illogico e stupido.

Nel caso specifico della Cina, peraltro, v’è un ulteriore aspetto da tenere in considerazione: le sue dimensioni, unitamente all’incredibile ammontare della sua popolazione, stimata attorno al miliardo e quattrocento milioni di persone.

Dal punto di vista dei governanti della Repubblica Popolare, infatti, cedere ai desiderata occidentali in tema di “diritti umani” e di libertà d’espressione individuale, equivarrebbe a mettere in pericolo l’esistenza stessa della Cina, un Paese sterminato (più grande perfino degli Stati Uniti, se non si tiene conto dell’Alaska) che, da sempre, deve affrontare pulsioni indipendentiste al suo interno, dalla Manciuria al Tibet fino allo Xinjang.

In questo modo di concepire e di gestire lo Stato, non vi è alcuna differenza fra gli odierni “principi rossi” del Partito Comunista e il primo, grande imperatore del fu Celeste Impero, Qin Shi Huangdi, che nel 221 a.C., sconfitti i regni rivali, riunificò la Cina in nome dell’armonia “sotto un unico cielo”.

Infine, per quanto attiene alla politica estera, il discorso inaugurale di Xi Jinping al Congresso ha ribadito l’intenzione della Repubblica Popolare di dotarsi di un esercito potente e ben equipaggiato, ma solo per scopi difensivi. Al momento, e dati i precedenti storici – nell’era moderna la Cina non ha mai invaso nessuno, caso mai è stata invasa e occupata dalle potenze coloniali europee, prima, e dal Giappone, poi – non v’è motivo per non credergli.

A meno che gli Stati Uniti si risolvano a optare per una soluzione militare unilaterale in Corea del Nord o si verifichi una crisi improvvisa attorno a Taiwan, che la Repubblica Popolare non riconosce come Stato sovrano, ma considera una provincia ribelle da ricondurre alla madrepatria.

Certo, la ritrovata assertività del “dragone” nel Mar Cinese Meridionale e Orientale preoccupa gli altri Stati dell’Asia Pacifico, ma non è certo colpa di Pechino se la strategia del “Pivot to Asia” varata da Barack Obama ha fallito e se Donald Trump cambia linea politica, alleanze e membri del proprio staff ogni mese o quasi. Gli Stati Uniti, che in passato consideravano l’Oceano Pacifico il loro “placido lago americano”, vi hanno perso progressivamente interesse in favore del Medio-Oriente e delle sue risorse petrolifere e, conseguentemente, influenza.

Ciò detto, è assai improbabile che i contenziosi territoriali che la Cina ha con alcuni suoi vicini (Giappone, Filippine, Vietnam, Malesia e Taiwan su tutti) degenerino in conflitti armati. Non è nell’interesse di nessuno che ciò accada.

E’ alquanto bizzarro, peraltro, che le accuse di espansionismo nei confronti della Cina vengano avanzate da quegli stessi media i quali ritengono, invece, del tutto normale che gli Stati Uniti abbiano circa 680 basi militari sparse in tutto il mondo e che non vedono nulla di strano nel fatto che la Nato si espanda sempre più verso l’Europa Orientale per proteggersi da “eventuali attacchi nemici”. Attacchi nemici? Quali attacchi nemici? La Guerra Fredda è finita 28 anni fa!

In quale prospettiva, dunque, l’Europa dovrebbe guardare alla Cina all’esito dei suoi lavori congressuali? C’è da avere paura della Repubblica Popolare?

La risposta è no, la Cina dovrebbe essere vista non come una minaccia, bensì come un grande alleato e un’enorme, clamorosa opportunità, sia per rivitalizzare l’economia del Vecchio Continente, che per uscire dall’esclusivo cono d’ombra degli Stati Uniti, che, da sempre, mettono davanti a tutto e a tutti i propri interessi strategici. Sarebbe ora che l’Europa iniziasse a fare lo stesso.

In ogni caso, piaccia o non piaccia, la Cina è vicina, come detto in apertura.

Anzi, no. La Cina non è vicina.

La Cina è già qui. Ed è qui per restarvi a lungo.

Edoardo Quiriconi