Donald non è Ronald

Donald non è Ronald, ma del resto neppure la Merkel può essere paragonata alla Tatcher.

Dobbiamo quindi accontentarci di leader liberal-conservatori  sulle due sponde dell’oceano che se non saranno in grado di imporre al mondo i valori della democrazia occidentale, almeno siano in grado di difenderli. Già, perché l’eredità di Obama in politica estera (di cui Hilary Clinton è corresponsabile almeno per il primo mandato) è disastrosa.

Dalle primavere arabe è emersa l’ISIS.

La Cina comunista è in piena fase espansionistica anche sul piano militare nel mar Cinese Meridionale.

La Russia di Putin minaccia buona parte dell’Europa dell’Est.

La politica estera di Donald Trump è una grande incognita.

Ma i timori di una eccessiva arrendevolezza nei confronti di Putin si stanno già diradando con la nomina del generale James Mattis alla difesa, in attesa di conoscere il nome del prescelto per la segreteria di Stato.

Anche la telefonata con il presidente taiwanese  Tsai Ying-wen pare tutt’altro che una gaffe, ma un riposizionamento dei rapporti di forza con la Cina.

Lo stesso vale per le prime uscite su Cuba ed Iran.

Ma Trump, da vero businessman, si sta dimostrando un pragmatico, in grado di usare acceleratore e freno sulla base delle convenienze e degli scenari del momento.

Del resto il suo spazio di manovra è in qualche modo vincolato dalla maggioranza repubblicana alla camera e al senato, che non ha condiviso la maggior parte delle sue esternazioni durante la campagna elettorale – anzi gli eletti repubblicani sono stati premiati anche per aver preso le distanze dalla sua linea.

Certo gli europei dovranno contribuire maggiormente alla difesa comune, ma che la NATO risulti indebolita dalla presidenza Trump non pare affatto probabile, anzi semmai è probabile il contrario.

Il secondo aspetto, dopo la sicurezza, che deve interessarci è quello relativo alla libertà del commercio internazionale.

Qui qualche problema potrebbe esserci.

Trump si è più volte dichiarato protezionista e non sembra voler riprendere i negoziati per il TTIP, il trattato transatlantico su commercio e investimenti.

Ma anche qui bisogna ricordare il pragmatismo di Trump e soprattutto gli interessi del mondo del business statunitense, che dal protezionismo ha molto da perdere.

Del resto le retromarce, o aggiustamenti di rotta, di Trump non sorprendono più.

Clamoroso quello sull’Accordo di Parigi sul contrasto ai cambiamenti climatici, dove è passato dalla negazione di ogni responsabilità umana in campagna elettorale, al suo riconoscimento pochi giorni dopo.

Anche in questo caso gli interessi delle industrie nazionali (gas, rinnovabili, green economy) hanno giocato un ruolo non trascurabile.

In sostanza sarebbe errato giudicare la futura politica di Trump sulla base delle dichiarazioni della campagna elettorale, ma bisogna guardare alla dinamica degli interessi della società e soprattutto del business USA (non si è mai visto tra l’altro un governo così farcito di miliardari).

Molti degli elementi caratteriali di Trump ce lo possono rendere poco simpatico (l’ego smisurato, il becero maschilismo, le sparate populiste), ma è il nuovo presidente degli Stati Uniti ed un saldo rapporto tra USA ed Europa resta alla base del nostro benessere.

E’ stata davvero inopportuna e autolesionista, più ancora che poco diplomatica, la reazione pubblica di Juncker all’elezione di Trump.

Intanto consoliamoci nel confronto tra Berlusconi e Trump, dove il conflitto di interessi, le relazioni con le donne e lo stile un po’ sopra le righe attribuiti al nostro dalla stampa internazionale appaiono irrilevanti rispetto a Trump.

Godiamoci la politica spettacolo su scala globale.

Edoardo Croci