Varese.
Il decennio Sessanta, in specie.
In via Bernascone.
Tempi oramai lontani.
Piero Chiara, Bruno Lauzi, il sottoscritto.
Chiara, il Maestro.
Lauzi, il Poeta.
Io, l’apprendista.
Le carte, i casinò, i biliardi, le donne…
Furono per me quelli – per quanto incredibile
ciò possa apparire ai poveri di spirito –
anni di intenso apprendistato.
Nessuno, apparentemente, lavorava.
Tutti avremmo lasciato invece di noi grande traccia.
Nel decennale della morte di Bruno,
24 ottobre 2006,
fratello e amico.
Mauro della Porta Raffo
“Richiamano le classi”
(in morte di Bruno Lauzi)
Ve l’hanno già detto e, se così non è, ve lo dico io: Bruno Lauzi ha trascorso a Varese gli anni della sua ‘vera’ formazione.
Sì, certamente, apparteneva alla cosiddetta e famosissima scuola dei ‘cantautori genovesi’ ma arrivò tra noi alla vigilia della maturità liceale per rimanere fin verso i trentacinque anni.
In città, a volte semisdraiato sullo scassatissimo divano collocato a lato del tavolone giallo che dominava la sala delle riunioni nella sede di via Bernascone del Partito Liberale, chitarra alla mano, nel mentre, silenzioso, lo ascoltavo, ha composto la sue più belle canzoni.
Per quanto mi riguarda, proprio in memoria di quelle antiche consuetudini vissute sotto il vigile occhio del segretario provinciale del PLI Piero Chiara, ho voluto che Bruno presentasse a Varese dapprima una bella raccolta di poesie e poi, un anno fa all’incirca, il suo unico romanzo.
In entrambe le occasioni, un vero e proprio ‘rientro alla base’ per un Lauzi festeggiato da un numero quasi infinito di amici e felice davvero fra loro.
“Richiamano le classi”, diceva negli ultimi tempi di vita Vittorio Sereni.
“Il bosco dei viventi dirada, si svuota la platea”, scriveva Chiara, aggiungendo: “Spero di essere l’ultimo ad andarmene”.
Così, ovviamente, non è stato per lui né per Brunetto.
Così non sarà per me!
Lauzi, il poeta
Non so chi sia il redattore del pezzo che su internet tratta de ‘Il poeta’, la bellissima canzone di Bruno Lauzi pubblicata nel 1963.
Quel che è incredibile è che, parlando delle atmosfere create e proposte da Brunetto nell’occasione, costui abbia scritto che ricordano la provincia narrata da Piero Chiara.
Incredibile, perché Lauzi compose ‘Il poeta’ proprio sotto l’occhio attento dell’autore, solo un anno prima, de ‘Il piatto piange’.
Eravamo a Varese, naturalmente, in via Bernascone al numero uno, al secondo piano laddove si collocava all’epoca, prima di trasferirsi al quarto, la sede del Partito Liberale Italiano.
Ricordo una lunga serata di battaglia: credo i big del PLI, Piero Chiara in testa, discutessero la formazione delle liste in vista delle elezioni politiche di quell’anno.
Assistevo in silenzio: giovanissimo, non mi sentivo d’intervenire.
Dopo, a briglie sciolte, rimasti in pochi, si discuteva del più e del meno.
Nel mentre, Bruno, seduto sul divanetto sfondato che si trovava lungo la parete dietro il tavolo giallo della presidenza, imbracciata la chitarra, suonava e a bassa voce cantava:
“Alla sera al caffè con gli amici
si parlava di donne e motori
si diceva ‘son gioie e dolori’
lui piangeva e parlava di te.
Se si andava in provincia a ballare
si cercava di aver le più belle
lui, lui restava a contare le stelle
sospirava e parlava di te.
Alle carte era un vero campione
lo chiamavano ‘il ras del quartiere’
ma una sera giocando a scopone
perse un punto parlando di te.
Ed infine una notte si uccise
per la gran confusione mentale
fu un peccato perché era speciale
proprio come parlava di te.
(parlato)
Ora dicono, fosse un poeta
e che sapesse parlare d’amore.
(cantato)
Cosa importa se in fondo uno muore
e non può più parlare di te”.
Non era arrivato al terzo verso, che tutti ci zittimmo per ascoltarlo ammirati.
Il pezzo che sapevamo in gestazione era definito.
Un gioiello.
Quanto alle atmosfere, quella era la nostra Varese: ‘nostra’, di Bruno Lauzi, di Piero Chiara e mia!
Lauzi, il correttore di bozze
(2005)
Dopo, a tavola al mitico Bologna, contornato da vecchi amici, seduto come si conviene a capotavola, Bruno sembrava felice.
Di quella sua strana e particolare felicità, così contenuta da essere a fatica percepibile.
D’un tratto, parlò del padre, morto da poco, se ben ricordo, ben ultranovantenne.
Collocato com’ero d’accanto alla sua sinistra, cercai di portarlo a differenti memorie.
Non volevo trattasse troppo di decessi, anche perché ricordavo che su quel triste tema si era intrattenuto un paio o tre d’anni prima, allorquando, in un altro mio ‘Salotto’, aveva presentato un piccolo e delizioso libro di poesie.
Mi aveva allora convinto – e le sue parole pesano ancor oggi su di me e sul mio modo di mangiare senza badare troppo ai limiti – mi aveva allora convinto, dicevo, che “non si deve mai dimagrire perché la gente che sta per andarsene da questo mondo, prima, dimagrisce”.
E ricordò allora e quindi, da vivo, Piero Chiara, il nostro comune maestro.
E in alcuni particolari momenti.
Dapprima, quando, al vecchio ‘Cantinone’, vedendolo con un gruppo di giovani, si era avvicinato per poi cominciare a narrare, seduto, con il mento appoggiato al dorso delle mani che a loro volta poggiavano su un bel bastone, uno di quelli da passeggio.
“E, diavolo, che incredibile affabulatore era”.
Infine, di come e quanto il frequentare l’autore de ‘ Il piatto piange’ molto prima che quel fortunatissimo libro fosse pubblicato, lo avesse formato come narratore, essendo suo compito, da correttore di bozze assai malpagato, rivederne i testi dei primi racconti e degli articoli che a quei lontani tempi uscivano su oramai antiche testate quale in particolare ‘L’Altolombardo’.
“Ci si forma nei modi più strani”, concluse.
Certo, pensai, ma se non hai, se non abbiamo dentro qualcosa di nostro da dire, tutta la formazione del mondo non serve a un bel nulla.
E quanto aveva da dire Bruno, vero?
Macaia
“Macaia, scimmia di luce e di follia,
foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia”.
Così, Paolo Conte nel 1974 parlando della macaia, nella bellissima ‘Genova per noi’.
Credo si possa concordare: la più bella interpretazione – struggente, intensa e insieme delicata – appunto di ‘Genova per noi’ è quella di Bruno Lauzi.
E Bruno parlerà anni dopo, nel 1999, ancora di quella particolare e unica situazione meteorologica che di quando in quando avvolge il capoluogo ligure: il tempo cambia, la temperatura sale, il cielo si riempie di nuvole minacciose che non si scaricano, umidità a non
fnire e una invincibile malinconia riempie di sé tutto e tutti. Scriverà, infatti, malinconico come si conviene, una poesia ricompresa nella raccolta ‘Versi facili’:
“Spalle a Sestri Levante
la Liguria si inturchina sui monti
e la macaia confonde cielo e mare.
Oggi non so che fare
in questo corpo antico che imprigiona
il monello di ieri:
improvvisi, i pensieri d’uomo vecchio
fan da specchio ad un gioco
oggi guardato senza più ironia.
Soprassalti d’infanzia, ecco che sono,
cui i bambini che mi corrono a lato
sprigionando energia
con il loro squittire concertato
tolgono quel che resta di allegria”.
Come Lauzi raccontava di Piero Chiara
(Testimonianza resa da Bruno Lauzi a MdPR nel 2005)
“Io ho vissuto a Varese gli anni degli studi e degli amori, l’ennesima versione di ‘Addio giovinezza’ recitata sul piccolo palcoscenico di una città di provincia, con tutti i suoi limiti ma in compenso con la possibilità per chiunque di rendersi visibile e di diventare protagonista sia pure di storie da poco ma non per questo meno gustose, come quelle che ogni tanto Piero Chiara ci andava raccontando, con il suo cappelluccio alla Macario ed il bastone di malacca col pomo d’argento su cui poggiava le due mani a sostenere il mento, gli occhietti saettanti dietro gli occhialini, la bocca atteggiata a culo di gallina per non far tracimare il beffardo sorriso di chi sa tenere sulla corda l’ascoltatore con sapienti sospensioni, fino a farsi sollecitare da ingenue richieste a base di ‘ancora, ancora’, novello Boccaccio che s’era fatto Omero…
Chiara aveva i suoi amici di carte e di biliardo al Bar Centrale, e solo di rado veniva a sedersi con noi giovanotti che spadroneggiavamo allo Zamberletti.
Era, come tutti i siciliani che ho avuto la ventura di
conoscere, di fine intelligenza, quella innata che prescinde dall’istruzione ricevuta, dimostrandosi scrittore concreto e lucido, sciabolatore di aggettivi che collocava come ordigni micidiali a chiarire con una sola parola l’eventuale oscurità di un concetto. Erede della tradizione settecentesca che aveva come suo esempio più fulgido le Memorie di Casanova (non a caso le aveva tradotte con perizia), a differenza di tanti bravi scrittori che si rivelano per contro penosi oratori, quale era Montanelli, sempre balbettante, egli aveva avuto in dono una facondia rara che, guarda caso, era proprio quella che ci voleva per fare di ogni aneddoto curioso un racconto da ‘Mille e una notte’, addirittura degno di figurare nel ‘Decamerone’…