“Quando ero nella giustizia”

Come molti sanno, Piero Chiara ha più volte narrato dei suoi anni giovanili e della sua passione per il gioco del biliardo e per le carte che gli permisero, per un lungo periodo, di mantenersi agiatamente e che, più tardi, quando “era nella Giustizia” (come diceva parlando dei suoi trascorsi quale aiuto-cancelliere), gli consentirono di incrementare notevolmente le sue disponibilità economiche, a scapito, peraltro, della capacità lavorativa, visto che i giochi lo assorbivano di sovente per tutta la notte.

Il biliardo con tutti i suoi trucchi (se così si può dire) gli era stato insegnato da un anziano, famoso giocatore milanese che, ormai sul viale del tramonto e ben fornito di quattrini vinti in carriera, si era rifugiato a Luino per passare beatamente una onorata vecchiaia.

Questi doveva essere decisamente un campione se, come narra Chiara in un suo celebre racconto, appena arrivato egli a Milano venne accusato da un altro giocatore da lui sconfitto di non avergli detto, prima di giocare, chi fosse stato il suo maestro, sapendo la qual cosa, diceva il perdente assai adirato, egli si sarebbe ben guardato dal giocare.

Piero, comunque, nei primi anni della nostra frequentazione, cercò di trasmettermi almeno i rudimenti del biliardo mentre, come mi diceva spesso, aveva subito rinunciato, vedendomi giocare al bar Centrale, a fare di me un asso della stecca.

Non ne avevo la stoffa e, per quanta volontà ed applicazione potessi metterci, non ce l’avrei mai fatta.

Della verità di queste sue affermazioni ero pienamente cosciente perchè, come ho già avuto modo di dire in altre occasioni, per me il biliardo è sempre stato soltanto uno svago e, assai spesso, mi è piaciuto giocarlo “di forza” e poco curandomi delle conseguenze; insomma, non è che mi sia mai importato molto vincere, mi bastava giocare e divertirmi, cosa rovinosa per un aspirante campione.

D’altra parte, se proprio avessi dovuto giocare per denaro, avrei preferito decisamente (come in effetti feci per molti anni) il gioco delle carte e, in particolare, la scopa d’assi a due, testa a testa, nella quale mi ritenevo imbattibile, e la “pinella”, una specie di scala quaranta più complicata, per molto tempo in voga in molti caffè di Varese.

Comunque sia, Chiara, durante quelle nostre partite che gli provocavano solo arrabbiature, ebbe occasione di intrattenermi con la narrazione di alcuni suoi grandi incontri, di vere e proprie maratone che aveva sostenuto, anche per ventiquattro ore consecutive, specie nel Friuli dove si era trovato a vivere, per qualche anno, dopo la sua assunzione “nella Giustizia”.

Il biliardo, per chi non lo sappia, è gioco di grande applicazione e di rigore geometrico; di precisione e, soprattutto, per quanto possa apparire strano, di grandissima fatica fisica.

Il vero giocatore, quindi, deve essere in forma, non deve bere, deve fumare assai moderatamente e non deve avere preoccupazioni di ordine familiare nè, tantomeno, economico; insomma, la dedizione deve essere assoluta come si conviene nei confronti delle vere passioni.

Proprio nel Friuli, il giovane Chiara, ormai conosciuto per la sua bravura al tavolo verde con i birilli, venne invitato ad una “serata tra amici” in un locale della periferia del paese dove risiedeva.

Dopo la prime partite “all’italiana” giocate a coppie e qualcuna “a goriziana”, disputata singolarmente, gli fu proposto, dal proprietario del locale che era fra i contendenti, un gioco diverso, che, a quel che mi disse, consisteva in una variante della cosiddetta partita “all’americana” (per intenderci, quella che abbiamo più volte visto nei films di Hollywood ed, in particolare, ne “Lo spaccone” ed “Il colore dei soldi” con Paul Newman).

Si era ai primi anni trenta e, in Italia, non si conosceva quel tipo di biliardo.

Fatto sta, comunque, che Chiara si lasciò coinvolgere e, in qualche ora, si trovò completamente spogliato delle sue precedenti vincite e del suo stipendio.

Quel diavolo del suo avversario tirava sempre le buche in mezzo e le palle, non si sa come, vi si infilavano come calamitate.

Piero, invece, quando finalmente toccava a lui per un errore dell’altro, seguendo le regole, cercava di indovinare le buche d’angolo con risultati decisamente mediocri.

Perso che ebbe tutto, pagò il dovuto, salutò e se ne andò cercando di non pensare a come avrebbe potuto sopravvivere per tutto il resto del mese.

Qualche giorno dopo, mentre scroccava un cappuccino con brioche ad un amico avvocato, gli capitò di raccontare quanto gli era accaduto e così venne a sapere che, in paese, molti avevano fatto la sua stessa fine.

Si decise ad indagare e, preso da parte uno degli altri compagni di quella infelice serata, scoprì, dopo qualche insistenza, l’arcano. Quel biliardo veniva regolarmente martellato ogni giorno dal proprietario proprio nei contorni delle buche poste sulle fiancate in modo da ridurre la capacità di respinta che normalmente le sponde hanno, mentre i contorni delle buche d’angolo erano costantemente rinforzati con non so più quale sostanza.

“Beh! – gli dissi a questo punto della sua narrazione – sarai tornato là per riavere indietro i tuoi soldi”.

“Macchè – mi rispose – quel che è dato è dato e quel che è perso è perso, però, ricordati la morale che ho tratto da tutto questo e che vale sempre, a meno di simili trucchi: mai tirar la buca in mezzo, mai giocar col biscazziere!”.

Mauro della Porta Raffo