Di donne (assai brevemente), commercio e artisti

Ho già – velocemente e di sfuggita, come si conviene – parlato del Chiara impenitente tombeur de femmes o sciupafemmine (peraltro, a parer mio, molto più attento alla quantità che alla qualità delle ‘prede’). Tale restò fino all’ultimo, se è vero come è vero, che una sera, ultrasettantenne, vistosi opporre un inatteso rifiuto da una gentile donzella, arrivò a casa piangendo e, trovatosi a tu per tu con Mimma, dovette su due piedi inventarsi di essere andato a sbattere con il viso contro uno stipite in garage per giustificare in qualche modo lacrime ed evidente affanno.

Se, con ogni probabilità, a proposito dei rapporti con le donne in lui dominava il sangue paterno, fortissima era l’impronta materna, ben più concreta, in altri ambiti.

Si pensi, per esempio, alla sua naturale predisposizione al commercio in particolare delle opere d’arte.

Frequentatore di pittori, incisori e scultori fin dalla giovinezza, spesso, gli capitava di ricevere in dono, da Gentilini piuttosto che da Guttuso, da Viviani o da Messina, da Tozzi o da Tabusso (per non parlare dei nostri Angelo e Vittore Frattini, Tavernari o Montanari), quadri o sculture che immediatamente metteva sul mercato, contrattando tanto abilmente da ricavarne ogni volta un notevole gruzzolo.

Per inciso, la consuetudine – alla quale ho or ora accennato – di Chiara derivava senza dubbio da una particolarissima sua capacità di comprendere chiunque avesse a che fare con spatole e pennelli: dal punto di vista artistico, sicuramente, ma, ancora di più, da quello umano. Difficile trovare per penna d’altri ritratti così felici, certamente degni della mitica ‘Terza pagina’ del Corriere sulla quale comparivano.

Allorchè, avendo maturato la pensione, pensò di lasciare la Giustizia e di mettersi a fare lo scrittore ‘professionista’, la prima preoccupazione di Chiara – che, ovviamente, ben conosceva le idee della mamma – fu quella di architettare una storia che gli consentisse di metterla al corrente della decisione presa ma che, al contempo, la tranquillizzasse. Non gli poteva, infatti, dire la verità visto che, a parere più volte espresso della genitrice, “gli scrittori erano solo dei morti di fame”.

Così, le raccontò (e la cosa ebbe a funzionare alla grande) che lasciava, sì, il lavoro, ma per darsi al commercio dei cavalli, attività, questa, particolarmente considerata dalla signora che rammentava come, ai tempi della sua giovinezza, proprio i commercianti di bestiame fossero, nei mercati, tra i più facoltosi.

Mauro della Porta Raffo