Dodici giorni in un’altra città

Anni lontani

Era novembre

 

 

 

Adesso sono rimasto solo e la cosa mi da un certo fastidio.

Strano se si pensa che, arrivando, una decina di giorni fa, mi ero augurato proprio di avere una camera tutta per me.

Che diamine, mi ero detto, mi aspettano, sanno chi sono e, soprattutto conoscono bene chi mi manda…mi tratteranno al meglio!

E invece, mi avevano sistemato con quel ragazzo (Marco, si chiamava) che sembrava molto più giovane dei ventinove anni dichiarati.

Soffriva di una qualche strana malattia – come tutti, del resto, in quel reparto – in merito alla quale non mi era sembrato bello chiedergli alcunché.

Se ne stava quasi sempre sdraiato, con gli auricolari incollati ad ascoltare la radio.

Faceva una gran fatica ad alzarsi, ragion per cui non si muoveva se non per necessità.

Non leggeva mai e quando tentava di farlo si vedeva che la cosa lo faceva soffrire.

Gentile, educato e dolce era Marco, con una moglie incredibilmente carina ed una madre simpatica e triste che venivano a trovarlo tutti i giorni.

Con l’andar del tempo, ascoltando anche senza volerlo i medici durante le visite di controllo quando, al mattino, entravano in camera come fossero in processione, potevo dire di avere scoperto pressoché tutto.

Era al quarto ricovero e al quarto ospedale.

La malattia, congenita e inesorabile, progrediva e pareva proprio che nessuno potesse farci qualcosa.

Eppure, era forte nell’animo e sereno, nell’attesa dell’esito di esami, che conosceva uno per uno a perfezione avendoli dovuti affrontare ripetutamente, e della inevitabile, nuova operazione.

Ora, a sera, non c’è più…

Quella mattina era arrivato in camera per la prima volta il chirurgo e gli aveva detto che, sì, vero, era opportuno intervenire ma che non gli poteva garantire assolutamente nulla.

Doveva essere sincero con lui.

Dopo, Marco aveva gli occhi lucidi quando mi aveva comunicato la sua decisione:

“Ho fatto telefonare a mia moglie di venirmi a prendere.

Me ne torno a casa.

Voglio pensarci bene, tanto, oramai, non c’è fretta e visto che un altra operazione potrebbe non servire a niente…”

Avevo cercato in qualche modo di ridargli speranza, ma sentivo le parole uscire dalla bocca stonate e così, alla fine, avevo taciuto.

Una volta arrivata, la moglie, malgrado l’evidente sforzo, aveva subito perso il timido sorriso che si era stampata sulle labbra e, mentre Marco finiva in qualche modo di riempire la valigia, si era voltata a guardare fuori dalla finestra, persa nella nebbia che avvolgeva le case, quasi invisibili al di là della piazza.

Ora, nella camera, l’altro letto è vuoto, le coperte rivoltate, il piccolo orsetto portafortuna di peluche è sparito e tutto è sospeso in attesa di un altro paziente, di un altro dolore.

 

 

 

Nei rari momenti di lucidità che, ogni tanto, come lampi, sembrano attraversarle la mente malata, Francesca è simpatica, una vera battutista!

Ma, per il resto della lunga, lunghissima giornata ospedaliera e dell’interminabile notte piange, si dispera, urla e chiede aiuto.

Deve avere all’incirca ottant’anni.

Sta due camere oltre la mia e così non posso fare a meno di sentirla.

E’ un tormento per gli altri ricoverati e – ho scoperto – soprattutto per sé.

L’altro ieri, in carrozzella, eccola passare davanti all’ingresso della mia stanza.

Stavo uscendo e ci siamo incrociati.

Mi ha guardato fisso e poi ha gridato: “Non voglio continuare a vivere così!”

 

 

 

Dalla finestra della camera, per quanto lontano si cerchi di spingere lo sguardo, si vedono solo palazzi al di là di una caotica piazza.

Di tanto in tanto, un aereo di linea passa in salita, da destra verso sinistra.

Di notte e già dalla sera, se ne vedono le luci che perforano la nebbia.

Dal corridoio esterno che collega le stanze del reparto, le venti finestre guardano sul nulla per la maggior parte del giorno e per tutta la notte.

Uno smog intenso copre costantemente i giardini attorno all’ospedale e i prati che si distendono verso Milano.

In dodici giorni, ho visto la luce del sole tre volte e per pochi istanti in questo strano novembre.

 

 

 

Ieri sera, come d’incanto, mi è sembrato di ritornare bambino, quando, d’estate, aiutavo felice i contadini e i mezzadri di mia nonna a Genazzano o quando, a Barasso e poi a Casbeno, seguivo l’aratro trainato dai buoi o falciavo il fieno.

Mi ero seduto con un libro nel cosiddetto salotto, cinque o sei poltroncine doppie in uno slargo a metà del lungo camminatoio che corre davanti alle camere.

Quasi senza volerlo, ho cominciato ad ascoltare quattro anziani che parlavano della campagna.

Non di quella di oggi, totalmente automatizzata.

Di quella della guerra e degli anni immediatamente successivi quando si andava nei campi lontani a piedi partendo prima dell’alba, a fianco dell’asino, o del cavallo, o del mulo, o dei buoi, portando con sé la borraccia, il canestro e il fagotto, con la zappa in spalla.

Vincenzo è di Oleggio e fa ancora il contadino.

Niccolò viene da Licata e ha abbandonato la fatica dei campi da oltre trent’anni, da quando ha lasciato il podere paterno per venire a Milano a lavorare in fabbrica.

Francesco è sardo, di uno strano paese di montagna in provincia di Sassari.

Martino è di Massafra e adesso fa il bancario ed è prossimo alla pensione.

E’ strano, ma i loro ricordi coincidono con i miei quasi in ogni particolare!

Si vede – mi sono voltato a guardarli – che vengono dalla campagna: sono umili, forti ed estremamente educati.

Questo, soprattutto, si è perso con l’inurbamento forzato degli anni Cinquanta: la forza silenziosa, l’educazione severa e, in una parola sola, l’onestà.

Anche da noi, a Varese, i giovani d’oggi sono un bel misero vedere e non reggono in nulla il confronto con i loro padri che, a Casbeno come a Barasso, a Bobbiate come a Comerio, a Ghirla come a Marchirolo, imparavano la vita con tenacia, con fatica e rispetto, tutte qualità scomparse con il progresso.

E perché mai, poi, il peggio verso il quale siamo andati deve essere chiamato così?

 

 

 

Per quanto a tutti i degenti sia stato vietato di fumare, la maggior parte non se ne dà per inteso e così, ad ogni momento della giornata e fino a sera tardi, basta muovere verso le scale che collegano i diversi piani dell’ospedale per trovare qualcuno che si da al vizio sul pianerottolo sfidando gli sguardi di disapprovazione dei medici e degli infermieri che, di quando in quando, passano di li.

Io, naturalmente, mi sono portato la pipa (quella meno capiente, per diminuire almeno la quantità) e sono l’unico che non fuma sigarette.

E, in tal modo, anche il solo che si salva da Mario, un vecchio male in arnese al quale nessun familiare porta di nascosto da fumare e che, quindi, cerca in ogni modo di scroccare cicche a destra e a manca.

Malgrado la moglie si sia raccomandata a tutti perché nessuno accolga le sue richieste, riesce a farsene almeno una decina.

Un giorno, per caso, me ne stavo da solo su quel pianerottolo con la pipa accesa quando ecco Mario che, quasi furtivamente, mi si siede alle spalle, sul gradino superiore della rampa delle scale, e dice:

“Mi faccia un favore.

Mandi il fumo verso di me che è meglio di niente”.

 

 

Qualche giorno fa, è venuto a trovarmi il primario.

Autorevole come si conviene, voleva conoscermi e così mi ha visitato scortato dalle tre simpatiche dottoresse che normalmente badano ai casi miei da quando sono ricoverato.

E’ stato gentile e mi ha garantito tutto il suo interessamento.

Dice che per ora non capisce cosa mi sia successo anche perché il mio modo di vivere non presenta alcun fattore di rischio: non bevo alcolici, da anni cerco di non mangiare più eccessivamente, non mi do a stravizi e fumo solo la pipa (come lui, del resto).

“Lei”, mi ha detto alla fine, “si deve mettere qui tranquillo ed aspettare l’esito degli esami.

Ci vorrà tempo.

E’ entrato in un tunnel e, prima di vederne la fine e di tornare all’aria aperta ed alla luce, ne avrà di strada da percorrere…”

Si è allontanato lasciandomi così, incerto ed insicuro eppure convinto di essere nelle migliori mani possibili.

Stiamo a vedere…

 

 

 

Ho sempre fatto una notevole confusione tra infermiere professionali e semplici ausiliarie e mi ci è voluto qualche giorno per distinguere le une dalle altre

Incredibilmente, ma non troppo, la maggior parte di loro non è italiana. Una è uruguaiana, una croata, l’altra polacca e molte sono chiaramente asiatiche.

La più carina ha un nome bellissimo: Nazarena.

Per quanto sia dolce, non mi sembra disponibile come Agnes von Kurovsky e non penso proprio di poter avere con lei lo stesso tipo di rapporto che ebbe Hemingway con la ‘sua’ infermiera.

Strano, comunque, che anche qui non si smetta di sognare…

 

 

 

Oggi, sarò sottoposto all’ultimo test clinico e domani dovrei essere dimesso.

Come mi capita sempre o quasi, non si sa ancora cosa diavolo mi sia successo.

L’unica certezza che ho è che ogni tanto perdo l’equilibrio e tendo a cadere verso sinistra.

Fra una decina di giorni sarà pronta la diagnosi e mi indicheranno la terapia, ma anche al riguardo non mi sento di essere ottimista

Una sola consolazione, se così si può dire: per qualche tempo dovrò usare il bastone.

Mi piace e, di tanto in tanto, l’ho fatto volontariamente utilizzando quelli di famiglia.

Ecco, almeno ora so cosa posso farmi regalare per il prossimo Natale.

 

Mauro della Porta Raffo