La lezione economica del Toscano

(ma solo nel senso del sigaro)

E’ quasi una storia parallela quella del tabacco e quella delle imposte, così come quella di sigari e  sigarette e quella del monopolio.

Tanto che la storia delle tasse e quella dei monopoli va quasi di pari passo a segnare le tentazioni e i fallimenti degli Stati da almeno quattrocento anni a questa parte.

Era infatti il 1622 quando Armand Jean de Plessis de Richelieu, prima cardinale e poi primo ministro di Luigi XIII, ebbe la nobile idea di porre un balzello sul tabacco con il nobile scopo di salvaguardare la salute dei cittadini: nacque così un diritto di prelievo da parte dello Stato di trenta soldi per ogni libbra di tabacco introdotta nel Paese.

La storia racconta peraltro che in Spagna un’ analoga imposta era stata varata nel 1611, mentre bisogna aspettare il 1627 (ma a quei tempi le comunicazioni erano molto lente) per vedere una tassa sul tabacco anche negli stati italiani con in prima fila il Ducato di Mantova.

Da allora in poi per trasformare un vizio privato in denaro pubblico, il tabacco in tutte le sue forme e in tutti i paesi è stato soggetto a sempre maggiori imposte.

Ovviamente per il bene della popolazione.

La stessa sorte non poteva che toccare al Toscano.

Era l’estate del 1815 quando il tabacco Kentucky depositato in un cortile di Firenze si inzuppò d’acqua per un improvviso temporale.

In poche ore anche a causa del caldo quel tabacco cominciò a fermentare diventando inutilizzabile per l’impiego tradizionale di tabacco da pipa o da fiuto.

Per non buttare tutto in Arno il titolare della fabbrica decide di usare le foglie “rovinate” come ripieno per sigari avvolti in una foglia “buona”.

Venduti a basso prezzo come prodotto di seconda scelta i nuovi sigari ebbero un grande successo tanto che Ferdinando III concesse agli appaltatori del monopolio granducale il permesso di costruire un nuovo grande opificio che è peraltro rimasto in attività fino al 1939.

In tutti gli Stati italiani, compreso lo Stato pontificio, tra Settecento e Ottocento la lavorazione dei tabacchi era sottomessa non solo a forti tasse, ma anche a un rigido monopolio statale, monopolio che venne subito fatto proprio dal Regno d’Italia quando si realizzò l’unità nel 1861.

Il ministro delle Finanze, Piero Bastogi, riuscì infatti a far approvare nel luglio del 1862 la legge sulle privative di Sali e tabacchi sottolineando come fosse indispensabile che “sia conservato un sistema di privilegio nonostante la teoria della scienza economica contraddica”.

Il Monopolio venne all’inizio gestito  dalla Direzione generale delle gabelle e bastarono pochi mesi per dimostrare la sostanziale inefficienza di un sistema al di fuori delle regole e dei valori del mercato.

E divenuto ministro delle Finanze una persona seria come Quintino Sella scrisse che “quanto alle fabbriche dei tabacchi debbo anzitutto confessare che la conduzione non è buona e che quasi tutte lasciano molto a desiderare sotto il profilo tecnico, amministrativo ed economico”.

Invece che produrre utili e garantire incassi il monopolio si rivelò quello che non poteva non essere: una fabbrica di clientele più che di sigari, di poltrone più che di buon tabacco, di privilegi più che di prodotti venduti a prezzi onesti.

Un piccolo soffio di mercato si ebbe pochi anni dopo quando l’allora ministro delle Finanze propose la sostituzione del monopolio sotto la gestione dello Stato con un regime solo apparentemente più libero con la creazione della “Regia cointeressata”, in pratica una società a partecipazione statale.

Anche questa soluzione si rivelò incapace di rispondere ai criteri di efficienza ed economicità.

Si misero allo studio allora nuove riforme, si crearono commissioni, si preparano progetti di legge.

Il tutto per tornare al monopolio originario con la creazione di una Direzione generale delle Privative nell’ambito del ministero delle Finanze da cui dipendevano tutte le fabbriche di tabacco.

Una nuova svolta si ebbe nel 1927 quando il Governo Mussolini creò l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato destinata ad attraversare non solo il ventennio, ma anche i primi cinquant’anni della Repubblica.

E’ solo nel 1998 che viene creato l’Eti (L’Ente tabacchi italiani), dapprima ente pubblico economico, poi trasformato in società per azioni nel luglio del 2000 ed infine privatizzato nel 2004 in un’asta vinta dalla British American Tobacco la quale tuttavia nel 2006 cede le attività di produzione dei sigari al gruppo Maccaferri, guidato dalla storica famiglia bolognese.

La ventata di mercato ha fatto bene al sigaro Toscano che da qualche anno ha trovato una nuova vitalità.

Nuovi prodotti, grande attenzione alla qualità, distribuzione più accurata, maggiore presenza internazionale.

Le tasse restano, il monopolio è stato superato dai tempi.

E comunque i sigari non si trovano di contrabbando.

E quelli buoni sono diventati alla portata di tutti, non solo come quando c’era il monopolio, riservati alle tabaccherie dei palazzi del Parlamento.

Gianfranco Fabi