Il Governo giapponese infiamma la “guerra” sulla caccia alle balene

La decisione del Governo giapponese del novembre 2015 di dare il nulla osta all’invio delle baleniere battenti bandiera nipponica nei mari dell’Antartide disattende una delibera della Corte Internazionale di Giustizia del mese di marzo dello scorso anno, in virtù della quale la caccia alle balene è ritenuta contraria agli obblighi internazionali volontariamente assunti dal Giappone.

La Corte non ha accolto l’argomentazione in virtù della quale la macellazione dei cetacei avrebbe luogo solamente per ragioni di una – non ben precisata – “ricerca scientifica”.

La battaglia ideologica riguardante la caccia alle balene si è fatta più aspra negli ultimi anni, soprattutto perché, in primo luogo, il Governo giapponese ha assunto atteggiamenti sempre più aggressivi e belligeranti nei confronti delle ONG – Greenpeace su tutte – che si oppongono allo scempio avente luogo nei mari antartici e perché, in seconda battuta, molti osservatori internazionali sospettano che, dietro la facciata della “ricerca scientifica”, continui (quasi) indisturbata, la caccia a fini commerciali.

Considerata la diffusa indifferenza, presso l’opinione pubblica giapponese, circa la caccia alle balene e, soprattutto, circa il gusto e l’opportunità di mangiarne la carne, c’è da chiedersi perché il Governo nipponico persegua una politica ittica tanto litigiosa e foriera di antipatie nei confronti del Sol Levante.

E’ molto importante tener bene a mente che la lobby a favore della caccia alle balene non rappresenta affatto il pensiero della maggior parte della popolazione nipponica la quale, in grandissima maggioranza, preferisce, da molti anni a questa parte, dilettarsi in attività come il “whale-watching” nei mari dell’Hokkaido o di Okinawa, piuttosto che mettere sotto i denti la carne dei cetacei uccisi “a scopo scientifico”.

Questa precisazione onde evitare di identificare e giudicare quello giapponese come un popolo di golosi divoratori di balene, quando la vergogna dovrebbe ricadere – ma non ricade mai abbastanza – sui Governi e sui finanziatori di questi ultimi.

Anche perché, laddove in passato, prima che nel Paese-Arcipelago si diffondesse l’abitudine di nutrirsi di carne bovina e suina (costume “importato” in gran parte dagli Occidentali dopo il 1854, quando il Giappone fu costretto, sotto la minaccia delle cannoniere americane, ad aprirsi ai traffici col resto del mondo), la carne di balena rappresentava un’importante fonte di proteine nella dieta nipponica, al giorno d’oggi, evidentemente, le cose non stanno più così.

Dal momento che le operazioni delle baleniere nipponiche hanno quasi portato all’estinzione alcune specie di questi maestosi, amichevoli cetacei, è comprensibile che la ripresa delle macabre battute di caccia abbia attirato l’attenzione e le critiche feroci da parte degli ecologisti di tutto il mondo.

Una forte spinta alla prosecuzione di questa oramai obsoleta, nonché crudele pratica, proviene dalla propaganda filo-governativa: il consumo di carne di balena è rappresentato come una tradizione culinaria profondamente radicata nella cultura popolare e, per contro, gli attivisti anti-whaling vengono accusati di razzismo culinario e culturale.

Per i fautori della caccia alle balene, dunque, vi sarebbe in gioco niente meno che una questione d’identità nazionale.

La realtà è che l’Istituto Nazionale per la Ricerca sui Cetacei, finanziato dal Governo – e, quindi, dai cittadini nipponici che pagano le tasse – è pienamente coinvolto nel business che promuove la caccia alle balene, orchestrando vere e proprie campagne mediatiche finalizzate a convincere i giapponesi che tale pratica è parte integrante della loro cultura.

Il più grande problema, per i sostenitori della caccia alle balene, risiede nel fatto che i consumatori del Paese-Arcipelago non acquistano e non consumano la carne di cetaceo, un terzo della quale rimane invenduta.

Ecco che, allora, gran parte del “pescato” viene lavorato e trasformato in cibo per cani.

I contribuenti giapponesi continuano, quindi, a pagare per questa pratica crudele e anacronistica, involontariamente sovvenzionando le spedizioni di “ricerca” che attirano il disprezzo della comunità internazionale nei confronti – ingiustamente – di tutto il popolo del Sol Levante.

La vera ricerca scientifica rappresenta, peraltro, uno “scomodo” inconveniente, agli occhi della lobby della caccia ai cetacei, poiché palesa i pericoli – reali, non immaginari – derivanti dal consumo della carne di balena.

I dipartimenti di biologia e di chimica di numerose e prestigiose università giapponesi hanno più volte, infatti, diramato avvertimenti di salute pubblica, sostenendo che, nella carne di balena, vi sono concentrazioni estremamente elevate di agenti chimici tossici – quali i policlorobifenili e il mercurio – e raccomandando alle donne in stato di gravidanza di non farne uso per nessun motivo.

La ripresa della caccia ai cetacei nei mari dell’Antartide sostanzia peraltro, come accennato in precedenza, una violazione della rule of law che dovrebbe regolare i rapporti internazionali fra Stati.

Violazione che, in prospettiva, potrebbe rivelarsi un boomerang per lo stesso Governo del Sol Levante.

Il rispetto delle leggi e dei trattati internazionali è stato, finora, l’asso nella manica della diplomazia nipponica nel corso della perdurante disputa con la Cina avente ad oggetto le controversie territoriali nel Mar Cinese Orientale.

La ritrovata assertività cinese in politica estera, voluta dal Presidente Xi Jinping, ha lo scopo, evidente ancorché non dichiarato, di riproporre al mondo la storica grandeur del Celeste Impero, espandendo i suoi domini nei mari dell’Asia.

Così operando, la Repubblica Popolare è entrata in rotta di collisione – fra gli altri – con il Giappone, che “detiene” e amministra il minuscolo e disabitato Arcipelago delle Isole Senkaku, rivendicate anche da Pechino e da Taiwan e conosciute, nella loro denominazione cinese, come Isole Diaoyu.

Nella guerra verbale e diplomatica con Pechino, Tokyo aveva guadagnato autorità morale e simpatia da parte dei media di mezzo mondo censurando il comportamento dell’avversario, reo di non attenersi alle leggi internazionali e di cercare di modificare lo status quo tramite azioni unilaterali e coercizione militare.

Tuttavia, con la decisione di avallare la ripresa della caccia alle balene nei mari antartici, il Governo giapponese ha commesso un clamoroso autogol, poiché un tale comportamento mina alle fondamenta la credibilità della sua diplomazia basata sulla rule of law.

La sfida lanciata dal Giappone alla Corte Internazionale di Giustizia – la quale ha stabilito che il programma nipponico di caccia “a scopo scientifico” viola la moratoria approvata nel 1986 dalla “International Whaling Commision” – rappresenta un grande passo indietro nella credibilità internazionale del Sol Levante perché, così facendo, esso, di fatto, si auto-esenta dal rispetto di quelle leggi che, in altri contesti, invoca a gran voce.

La scelta del Governo guidato da Abe Shinzo di infrangere il diritto internazionale mette in difficoltà la sua posizione giuridica in caso di potenziali, futuri arbitrati sovranazionali che potrebbero scaturire da rivendicazioni territoriali o dall’imposizione unilaterale di zone di sfruttamento economico esclusivo.

Un caso “pericoloso” per il Giappone è già in essere: le Filippine si stanno opponendo con forza alle rivendicazioni cinesi di espansione della propria sfera d’influenza nel Mar Cinese Meridionale (rivendicazioni che preoccupano anche altri Stati dell’area, fra i quali, su tutti, il Vietnam).

La situazione di “attrito” tra Filippine e Cina è tenuta sotto stretta osservazione dalle Nazioni Unite: ebbene, se anche queste ultime dovessero emettere una risoluzione favorevole a Manila, Pechino, verosimilmente, la ignorerebbe e potrebbe ben citare il caso del Giappone – il più improbabile dei “compari”, dati i rapporti storici ben poco amichevoli – che, a sua volta, si fa beffe del diritto internazionale, salvo poi chiederne a gran voce il rispetto e l’applicazione.

L’ennesimo caso di discrasia comportamentale fra il popolo nipponico, così educato, colto e rispettoso delle regole (giuridiche e morali), e i suoi rappresentanti politico-economici, che le regole, al contrario, sembrano divertirsi a infrangerle.

Edoardo Quiriconi